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Tra il principe e la sciamana

di Viviano Domenici - 02/06/2007

Un’esposizione, nel Palazzo del Buonconsiglio di Trento, dei corredi funerari provenienti dalle sepolture dell’antico popolo degli Sciti, oltre a offrire nuove testimonianze dei riti sanguinari comuni a molte popolazioni dell’epoca, permette di aprire un’interessante prospettiva sull’influenza esercitata da questi antichi rituali sull’immaginario gotico.

Deciso a tenere a bada le tribù dei cavalieri delle steppe che scorazzavano ai confini del suo impero, Dario I, re dei Persiani, inviò un’imponente armata contro gli Sciti. Ma, appena le sue truppe entrarono nei territori dei nomadi, i cavalieri cominciarono a sottrarsi allo scontro frontale dando inizio a una serie di fughe, piccole scaramucce e nuove fughe che sfibrarono l’esercito persiano, impossibilitato a dispiegare la sua forza. Dario, infuriato per questa tattica dilatoria, inviò un duro messaggio al re scita Idantirso accusandolo di volersi sottrarre allo scontro frontale.
La risposta del re scita fu chiarissima. «Non sono mai fuggito per paura di qualcuno, né ora fuggo davanti a te ma, piuttosto, mi sposto come ho sempre fatto, in pace. E se vuoi capire perché non veniamo subito a battaglia con te, sappi che noi non ne abbiamo motivo, perché non possediamo né città né campi coltivati da difendere. Noi abbiamo le tombe dei nostri padri; voi trovatele e provate a violarle, e allora saprete se per quelle tombe noi siamo disposti a combattere o se ce ne staremo inermi».
Era il 513 avanti Cristo e, come ci ha raccontato Erodoto, il re dei persiani decise di abbandonare le steppe della Scitia. L’orgogliosa reazione di Idantirso mi tornò alla mente dieci anni fa, in Kazakistan, mentre ero inginocchiato alla base di un kurgan, la classica tomba a collinetta degli Sciti, e frugavo con le mani la terra smossa di una sepoltura principesca scavata dagli archeologi del museo di Almaty e del Centro Studi Ligabue di Venezia. Quella volta la fortuna non fu dalla nostra parte e gli archeologi trovarono solo le poche cose dimenticate da tombaroli di almeno due millenni prima. [...] Con l’aiuto di Erodoto e degli archeologi della spedizione, fu facile «vedere» quello che accadde quei giorni di 2500 anni fa. Il corpo del principe, sottoposto a una sorta di imbalsamazione, fu adagiato su un carro cerimoniale e portato «in visita» presso tutte le tribù della regione, quindi venne trasportato nella zona dei kurgan «dei padri». Il cadavere, vestito dei suoi abiti più sontuosi, venne calato nella camera funebre e - come racconta Erodoto - nello spazio della stanza rimasto libero, fu seppellita, dopo averla strangolata, una delle sue concubine, oltre a un coppiere, un cuoco, uno scudiero, un servo, un messaggero, alcuni cavalli, il vasellame d’oro e una scelta di tutte le cose che gli erano appartenute; fatto questo, tutti lavorano per erigere con terra e pietre un tumulo di dimensione adeguata al prestigio del defunto.
Rituali ancora più drammatici mi vennero descritti davanti a un grande kurgan che visitammo nei giorni successivi al nostro scavo. Il tumulo, largo una cinquanta metri e alto circa dieci, era circondato da una serie di piazzole rotonde delimitate da pietre. Su ognuna di queste aree, mi spiegarono gli archeologi citando ancora una volta lo storico greco, un anno dopo la sepoltura, venivano posizionati una cinquantina di cavalieri sacrificati per l’occasione e impalati insieme al loro cavalli in modo da formare un tragico carosello d’onore a difesa del tumulo del principe. Compiuta la terribile messinscena, la tribù abbandonava la sepoltura e riprendeva il suo cammino nella steppa.
Questi rituali, descritti dagli storici classici, si riferiscono agli Sciti reali che vivevano lungo le coste settentrionali del Mar Nero, ma è ormai dimostrato che erano comuni a molti altri popoli, [...].
Dopo tanti racconti di rituali da brivido, l’archeologo kazako Beken Nurmuhambetov - che nel 1970 scoprì la tomba intatta del cosiddetto Uomo d’Oro - volle regalarci un pomeriggio davvero speciale. Ammessi in una stanzetta riservata del museo di Almaty, vedemmo uscire da una cassaforte i gioielli dell’amazzone-sciamana, inizialmente scambiata per un guerriero. [...] Capolavori assoluti, come le placche che adornano il fodero del pugnale, in cui cavalli e cervi si torcono, si rovesciano, si intrecciano, sfidano ogni razionalità. Forme che creano misteriosi esseri compositi, mai sterili assemblaggi, ma creature vive pronte a saltare, a galoppare da un continente all’altro, da un mito all’altro, come infatti fecero grifoni, chimere, draghi e tanti altri ibridi che dalle steppe arrivarono anche in Europa arrampicandosi sui capitelli romanici, affacciandosi dalle guglie della cattedrali gotiche. Ora sono venuti in quattrocento, quasi tutti d’oro, e racconteranno le loro storie nelle sale del Castello del Buonconsiglio, a Trento.