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Il mattatore USA perde colpi

di Roberto Zavaglia - 03/06/2007

Sembra che i due, alla fine, non abbiano concluso molto, ma l’incontro di lunedì scorso a Baghdad tra l’ambasciatore statunitense, Ryan Crocker, e quello iraniano, Hassan Kazemi Qomi, rimane un fatto storico e dà la misura delle difficoltà Usa in Iraq. Si tratta del primo colloquio ufficiale tra rappresentanti dei due Stati dopo la rottura delle relazioni diplomatiche nel 1.980.  E’significativo che questo ancora assai parziale disgelo avvenga nel momento in cui gli attacchi di Washington contro la politica della Repubblica Islamica sono talmente duri, per la questione nucleare e per altro, da far temere un’escalation militare. L’incontro costituisce una retromarcia dell’Amministrazione statunitense che aveva bocciato il piano Baker-Hamilton nel quale, tra i punti principali, si consigliava al presidente il coinvolgimento dei “nemici” Iran e Siria nelle trattative per la pacificazione dell’Iraq.

  La risposta di Bush è stato il “surge” (ondata) che consiste nell’invio di altri 21.500 soldati al fine di battere la guerriglia e smantellare le milizie settarie impegnate nel sanguinoso conflitto civile. Per gli Usa le cose devono andare davvero male se, quasi subito, sono costretti a cambiare, almeno in parte, la loro strategia. E’ da un po’ che si dice che gli Stati Uniti non possono vincere la guerra, ma forse è venuto il momento di constatare come la stiano addirittura perdendo. Nei manuali di contro insurrezione è scritto che una guerriglia non sconfitta definitivamente è, di fatto, vincente e la guerriglia irachena, dopo oltre quattro anni di guerra, è ben lungi dall’essere battuta, come dimostrano gli oltre cento attacchi quotidiani contro le forze di occupazione che, in nessuna parte del Paese, possono sentirsi veramente al sicuro. Il dato straordinario è che di questa guerriglia, differentemente da altri contesti storici e geografici, non sappiamo nemmeno se possieda un coordinamento unitario né di quanti effettivi disponga. Il più grande esercito del mondo sta soccombendo contro nemici che, lo si evince dalla natura degli scontri a fuoco, non hanno armi sofisticate e non dispongono di grandi finanziamenti provenienti da una potenza straniera.

  Anche la parallela guerra civile tra sciiti e sunniti è un grosso problema per gli Usa. Gli occupanti appoggiano il governo collaborazionista di Maliki che è fortemente sbilanciato a favore degli sciiti ed è sostenuto anche dai politici a cui le milizie di quella confessione fanno riferimento. Come ha scritto James Fearon, nel saggio di apertura dell’ultimo numero di “Foreign Affairs”, gli statunitensi rischiano di essere coinvolti nella pulizia etnica contro i sunniti, dalla quale potrebbe nascere un Iraq autoritario e completamente nelle mani degli sciiti. La beffa è che questa situazione andrebbe a tutto vantaggio dell’Iran e inimicherebbe a Washington gli Stati a maggioranza sunnita. Se il prossimo presidente non troverà una via di uscita decente, gli Usa rischiano una sconfitta con conseguenze peggiori di quella patita in Vietnam. Ai tempi del bipolarismo, la perdita di prestigio causata dalla disfatta non poté provocare alcun allontanamento dei Paesi appartenenti al campo occidentale, mentre oggi, in un contesto più libero e caratterizzato dalla crescita di ambiziose potenze regionali, le alleanze stabilite potrebbero entrare in tensione.

  L’immagine dell’America che Bush porterà in Italia il 9 giugno, sia che il sempre più patetico Bertinotti decida di stringergli o meno la mano, è incrinata. Il piano della National Security Strategy dell’autunno 2.002, elaborato come risposta agli attentati dell’11 settembre, è fallito nei due suoi principali elementi: la guerra preventiva per mettere a tacere i Paesi dissidenti e l’esportazione della democrazia per creare, soprattutto in Medio Oriente, regimi allineati sulle posizioni di Washington. L’unica superpotenza rimasta ha molte gatte da pelare non solo nel mondo islamico. In America Latina, i Paesi non più disposti a piegare la testa di fronte ai diktat del grande vicino del Nord incominciano a essere molti, mentre si elaborano progetti di confederazione macroregionale diversi da quelli proposti dagli Usa. In Bielorussia e, in una certa misura, anche in Ucraina, sono andati male i piani di “regime change” destinati a promuovere governi “amici” degli Stati Uniti i quali  hanno dovuto arretrare anche nell’ex Asia centrale sovietica, dove si erano installati grazie all’attacco contro l’Afghanistan, come è testimoniato dalla decisione dell’Uzbekistan di smantellare la locale base Usa. Su Putin si possono dare giudizi diversi, ma è innegabile che la Russia, con lui, sia tornata ad essere uno Stato assertivo che intende giocare una partita in proprio, grazie anche alle sua immense risorse energetiche.

  L’enorme debito internazionale degli Usa fa sì che il tasso di cambio del dollaro dipenda dalle scelte di banche centrali straniere, fra le quali il peso di quella cinese è preponderante. Il dollaro è ancora moneta di riserva perché le materie prime, soprattutto l’energia, si comprano in quella divisa, ma alcuni Paesi produttori di petrolio sembrano interessati a venderlo, in futuro, anche in euro e con un paniere di monete diverse. Se ciò avvenisse, il biglietto verde sarebbe soggetto a una forte svalutazione e perderebbe la posizione di assoluto dominio sul sistema monetario internazionale.

  Sul piano geopolitico, la situazione migliore per Washington è quella europea, grazie anche alle divisioni e alla mancanza di ambizioni della Ue. I risultati elettorali in Germania e Francia sembrano avere consentito la nascita governi attenti alle esigenze di oltreatlantico, anche se è ancora presto per dare un giudizio sulla politica estera di Merkel e Sarkozy. Nonostante tutto, unicamente agli Stati Uniti calza la definizione di superpotenza, perché sono i soli ad avere interessi e influenza in tutto il globo. L’esercito Usa, a differenza di tutti gli altri, può, in breve tempo, proiettare le sue forze in qualsiasi luogo del mondo, ma la lezione irachena e quella afgana hanno dimostrato che ciò non è sempre sufficiente per consolidare l’egemonia. Gli Stati Uniti rimangono la nazione della quale tutte le altre devono tenere conto nelle proprie strategie, ma il sogno di fondare un impero, sia pure con caratteristiche inedite, si è, speriamo definitivamente,  insabbiato.