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Gli enigmi della criptozoologia: il serpente gigantesco del fiume Bagradha

di Francesco Lamendola - 03/06/2007

 

 

 

 

Al tempo della prima guerra punica, due secoli prima di Cristo, i Romani si trovano alle prese con un autentico mostro, presso le sponde el fiume Bagradha (nell'odierna Tunisia): un rettile immenso che il loro pur agguerrito esercito stenta a neutralizzare. Che cosa videro realmente quei rudi ma coraggiosi legionari al comando di Attilio Regolo; in che genere di creatura si erano imbattuti? È uno dei grandi misteri della criptozoologia, la scienza degli animali 'nascosti': mistero reso ancora più fitto dalla grande distanza di tempo che ci separa dai fatti e anche, elemento non trascurabile, dal nostro differente approccio di metodo scientifico nei confronti dei fenomeni della natura.

 

 

 

Un ramo particolare della criptozoologia, la scienza degli animali nascosti (cioè la cui esistenza, pur segnalata da osservatori non specialisti o deducibile dalla presenza di impronte e altre tracce, non è stata pienamente riconosciuta dalla scienza 'ufficiale') è quello relativo al mondo antico. Possediamo numerose testimonianze letterarie, alcune di autori che, all'epoca, godevano di una notevole fama in campo scientifico (ad esempio, Plinio il Vecchio, 23-79 d.C., autore della Naturalis Historia in 37 libri) che ci parlano con la massima serietà di animali apparentemente favolosi e non più 'ritrovati'. Quale grado di attendibilità dobbiamo accordare a tali testimonianze? Il fatto che la scienza moderna, così come si è venuta configurando dopo Galilei, Cartesio e Newton, abbia imboccato strade diverse a abbia giudicato con severità interi rami della scienza antica, dall'alchimia all'astrologia, ci autorizza a non dare alcun credito a tali racconti? Oppure non sarebbe un atteggiamento più saggio e più equilibrato quello di vagliare caso per caso, le testimonianze relative agli animali 'impossibili', resi più umili dal fatto che ancora nel 1938, nelle acque del Sud Africa, è stato pescato, vivo, il celacanto, un pesce 'fossile' che si credeva estinto da milioni di anni? E quello del celacanto è solo un esempio: potremmo continuare con l'okapi della foresta centro-africana, il calamaro gigante delle profondità oceaniche, il pecari gigante del Gran Chaco, e così via. Bisogna essere cauti prima di credere a tutto, ma bisogna esserlo altrettanto prima di respingere tutto quello che attualmente ci sembra poco credibile. Negare a priori che esistano,  o che siano esistite fino ad epoche storiche, delle specie animali credute estinte da moltissimo tempo, oppure mai 'riconosciute' dalla scienza accademica, non corrisponde a un giusto atteggiamento scientifico. Compito dello scienziato, e a maggior ragione del naturalista, è quello di vagliare attentamente tutti i fatti e tutti gli indizi, senza nulla credere ciecamente ma, anche, senza nulla scartare per una forma di pregiudizio, sempre animato da una sana e intelligente forma di curiositas nei confronti della natura. E non sarebbe male se egli ricordasse, dopotutto, la frase di Amleto nel primo atto dell'omonimo dramma di Shakespeare: "Ci sono più cose fra la terra e il cielo, Orazio, di quante ne possa sognare tutta la vostra filosofia". La natura è molto più grande e misteriosa di quanto comunemente si creda: in un certo senso si potrebbe dire che noi conosciamo, di essa, solamente la superficie, e questo alla lettera: nelle viscere della Terra, l'uomo non è penetrato che per pochi chilometri, vale a dire che noi conosciamo, o crediamo di conoscere, solo la 'buccia' esterna del nostro pianeta. Non c'è bisogno di immaginare, come Jules Verne nel suo Viaggio al centro della Terra, che al disotto del mantello esistano immense cavità popolate da dinosauri e mostri marini; né - come i seguaci della teoria della 'Terra cava', che l'interno del nostro pianeta sia vuoto e che magari contenga un piccolo sole e un sistema planetario in miniatura. È sufficiente ricordarci sempre che grande è la nostra ignoranza e limitati gli ambiti della natura che abbiamo esplorato davvero in profondità; e, di conseguenza, che siamo capaci di mantenere un atteggiamento di apertura nei confronti delle realtà possibili, fatto di prudenza e ragionevolezza, ma anche di elasticità e fantasia (intesa, quest'ultima, non come immaginazione sbrigliata ma come capacità di andare oltre i sentieri già battuti innumerevoli volte).

Vogliamo dunque parlare della criptozoologia in epoca greco-romana e, precisamente, in età ellenistica; un'età, sia detto fra parentesi, in cui il pensiero scientifico ha compiuto giganteschi progressi e realizzato scoperte di straordinaria precisione: ad esempio, la formulazione della teoria della rotondità della Terra e la misurazione del suo diametro, grazie ai calcoli di Eratostene di Cirene (275-195). Uno dei casi meglio documentati è quello del “serpente” (mettiamolo tra virgolette) del fiume Bagradha, in quella che i Romani chiamavano (dopo le guerre puniche e la distruzione di Cartagine, nel 146 a.C.), Africa Proconsularis, cioè l’odierrna Tunisia Confrontando i testi di Cesare, Livio e Plinio il Vecchio sappiamo che questo corso d’acqua va identificato con l’attuale Megerda  o Medjerda, che sfocia nella baia di Cartagine. (1) L’episodio di cui ci occupiamo si colloca nel 256 o 255 a. C., quando, nella fase iniziale della Prima guerra punica, i consoli M. Attilio Regolo e L. Manlio Vulsone, sconfitta una flotta cartaginese al Capo Ecnomo, erano sbarcati in Africa con un esercito e avevano marciato audacemente contro la capitale nemica. Richiamato Vulsone in Sicilia per ordine del Senato, Regolo con 40 navi e 15:000 uomini aveva proseguito da solo le operazioni, battendo i Cartaginesi e inducendoli a chiedere la pace.(2) Questa non venne conclusa perché il comandante romano, imbaldanzito dai successi, volle porre condizioni eccessivamente dure: le vicende belliche subirono poi un capovolgimento e l’esercito romano andò incontro a un tragico destino. Ma questo esula dal nostro orizzonte: noi faremo un passo indietro e torneremo all’inverno 256-55, quando i legionari, sbarcati a Clypea (o Clupea), a est di Cartagine, erano impegnati nelle operazioni d’assedio della capitale punica. Racconta dunque Valerio Massimo che “in Africa, apud Bagrada flumen, tantae magnitudinis anguem fuisse tradunt, ut Atilii Reguli exercitum usu prohibèret”. Il passo completo è tratto da un libro perduto di Tito Livio (3) e recita così: “In Africa, sulle rive del fiume Bagrada, v’era un serpente d’una tale mole che impediva all’esercito di Attilio Regolo dei servirsi di quell’acqua; molti soldati erano stati presi dalle sue enormi fauci e in maggior numero strozzati dalle spire della sua coda. Le frecce che gli lanciavano non riuscivano a ferirlo. Alla fine con le balestre lo si finì facendo piovere sul suo corpo da ogni parte gran quantità di pesanti pietre: A tutte le coorti e le legioni era apparso oggetto di terrore assai più della stessa Cartagine e quando il suo sangue si mescolò all’acqua  del fiume e le esalazioni pestifere del suo cadavere infestarono tutta la regione, l’esercito fu costretto a spostare il campo.  Aggiunge, inoltre, Tito Livio che la pelle del serpente, che misurava centoventi piedi, fu mandata a Roma.” (4)

          Questo incontro fra gli esseri umani e una creatura animale mostruosa è uno dei meglio documentati dell’antichità, per cui ci soffermeremo un po’ su di esso. Ne parlano, infatti, moltissimi autori latini. Aulo Gellio, l’autore delle celeberrime Notti attiche, da parte sua, nel riferirlo dice di averlo trovato  nelle Storie di Quinto Elio Tuberone: “Tuberone lasciò scritto (…) che avendo il console Attilio Regolo, durante la prima guerra punica, posto i propri accampamenti sulle rive del fiume Bagrada, dovette ingaggiare un combattimento lungo e  aspro contro un serpente di inusitata grandezza, il quale aveva  la propria dimora in quei luoghi; dopo una lunga lotta di tutto l’esercito per mezzo di balestre e catapulte, avendolo ucciso,  ne madò a Roma la pelle lunga 120 piedi.”(5) Ora, poiché noi sappiamo che un piede romano era una misura di lunghezza equivalente a circa 30   cm:, se ne ricava che la pelle del “serpente” ucciso dai legionari di Regolo doveva misurare 120x30=3.600 cm., ossia 36 metri!

          Prima di domandarci a che razza di creatura dovesse appartenere una pelle di tali dimesioni, diamo la parola a quello, fra gli autori antichi, che si diffonde con la maggiore abbondanza di particolari su questo episodio, cioè lo spagnolo Paolo Orosio (inizi del V sec. d..), amico e collaboratore di Sant’Agostino. Nelle sue Storie contro i pgagani (Orosii historiarum adversus paganos libri septem), egli scrive: “Il console Manlio lasciò l’Africa con la flotta vittoriosa e fece ritorno a Roma con ventisettemila prigionieri e grandi prede. Regolo, al quale era stato conferito l’incarico di continuare la guerra, marciò con l’esercito e pose il campo non lontano dal fiume Bagrada. Qui molti soldati, che erano scesi al fiume per rifornirsi d’acqua, furono divorati da un serpente di eccezionale grandezza: perciò Regolo decise di andare con l’esercito a combattere la bestia. Ma a nulla servirono i giavellotti e ogni sorta di proiettili che gli scagliavano addosso, giacchè, come se avessero colpito una “testuggine” formata dagli scudi inclinati, i giavellotti scivolavano sulla mostruosa compagine delle squame, respinti in modo sorprendente dal corppo della bestia, che non riuscivano minimamente ad offendere. Perciò Regolo, vedendo che un gran numero dei suoi soldati era dilaniato dai morsi del serpente o atterrato dai suoi attacchi furibondi o anche tramortito dall’alito pestilenziale, fece entrare in azione le balliste, le quali, colpendo con sassi grossi come macine la spina dorsale della bestia, spezzarono tutta l’articolazione del suo corpo. Questa infatti è la natura del serpente, che mentre sembra privo di piedi, è però provvisto di squame e di costole, che sono disposte uniformemente dalla sommità del collo fino in fondo al ventre e che, quando  si muove, gli servono le prime quasi da unghie e le seconde da zampe. (…) Questa conformazione fa sì che in qualunque parte del corpo, dal ventre fino alla testa, il serpente sia colpito, rimane paralizzato e non è più capace di muoversi, giacchè, dovunque il colpo arrivi, esso gli spezza la spina dorsale, che imprime il movimento alle costole e a tutto il corpo. Perciò anche questo serpente, che per tanto tempo nessun giavellotto aveva potuto scalfire, fu immobilizzato dal colpo di un sasso, di modo che i romani poterono attorniarlo e ucciderlo facilmente con le armi. La sua pelle – a quanto si dice, misurava centoventi piedi – fu portata a Roma e per qualche tempo suscitò la meraviglia di tutti.”(6)

          Prima di Orosio e prima di Aulo Gellio, ma un po’ dopo Valerio Massimo (che dedica la sua opera all’imperatore Tiberio), il filosofo Lucio Anneo Seneca aveva anch’egli ricordato il mostro del fiume Bagrada. “Quel feroce serpente dell’Africa – scrive – che le legioni romane temevano più della stessa guerra, fu preso invano di mira con frecce e con frombole. Non l’avrebbe ferito neppure l’arco di Apollo. La durezza del suo corpo mostruoso non era scalfita né dal ferro né  da qualunque proiettile scagliato da mano d’uomo. Alla fine fu schiacciato sotto pesanti macigni”. (7)

          E’ giunto il momento di chiederci che tipo di animale fosse il mostro del fiume Bagrada. La grande maggioranza degli studiosi moderni, sulle orme del Gassner, propendono a ritenere che si trattasse di un coccodrillo. Per esempio, Benedetto Riposati e Isa Morini scrivono in proposito che “troppe sono le cose che non conosciamo, perché una sola vita basti ad apprenderle tutte (nec scire fas est omnia); sempre rimane qualcosa da scoprire, che desta stupore e meraviglia. E ai Romani non poche occasioni di meraviglia offrì il mondo sconfinato, aperto alle loro conquiste. Così sa di stupore il loro primo incontro col coccodrillo in Africa, al tempo della prima guerra punica. Quelli che al comando del console Marco Attilio Regolo avevano preso parte alla spedizione contro i Cartaginesi, quando fecero ritorno in Roma, tra le tante cose che raccontarono ai piccoli figli intenti ed alle donne ansiose, dissero anche che in Africa, presso il fiume Bagrada, che sbocca in mare tra Cartagine e Utica, c’era un rettile di tale grandezza che aveva impedito all’esercito di Attilio Regolo di servirsi del fiume.” (8) Ora, questa identificazione si potrebbe mettere in discussione da un duplice punto di vista: etimologico e naturalistico. Etimologico, perché Valerio Massimo e gli altri autori citati parlano di anguis, -is, che generalmente si traduce con “serpente” sulla scorta di autori classici come Cicerone ed Ovidio, ma che, ad esempio, indica pure (sia in Virgilio che in Ovidio) la costellazione del Dragone, dunque un animale ben diverso dal serpente; mentre in Vitruvio e Manilio indica pure la costellazione dell’Idra (9). Viceversa, per designare il coccodrillo i Romani adoperavano il termine, ben più preciso, di crocodilus, -i: lo usano Cicerone, Seneca e Plinio il Vecchio; mentre Fedro e Marziale si servono della variante corcodilus,-i; e Quintiliano usa l’espressione crocodilinae ambiguitates per designare “i sofismi del coccodrillo”, ovvero un argomento palesemente capzioso. (10) A sua volta, crocodilus è un grecismo e viene da Krokodeilos, a riprova del fatto che non solo i Romani, ma prima di loro anche i Greci conoscevano benissimo il coccodrillo e non si capisce, quindi, perché avrebbero dovuto chiamarlo “serpente”, quasi che non avessero il termine necessario a identificarlo.(11)  Si potrebbero avanzare riserve, poi, anche da un punto di vista più propriamente naturalistico, perché  Orosio, come si è visto, dice chiaramente che l’animale in questione si muoveva strisciando sul corpo privo di zampe e dunque era di certo più simile a un serpente che a un rettile di tipo sauriano. In Africa vivono due specie  di coccodrilli: il coccodrillo del Nilo (Crocodylus niloticus) e il coccodrillo catafratto (Crocodylus  cataphractus) Il primo è diffuso in quasi tutto il continente, dalle  acque delle oasi del Sahara meridionale fino al lago Ngami, a nord del Kalahari, attraverso tutti i territori tropicali; è lungo in media 380-550 cm e popola sia le acque profonde che quelle poco profonde, sia le correnti che le stagnanti. Il secondo vive nei fiumi dell’Africa occidentale e sudorientale, inoltrandosi alquanto nelle lagune delle foci; è più piccolo (da 190 a 380 cm.) e, a differenza dell’altro, attacca l’uomo solo eccezionalmente.(12) Se la creatura del Bagrada era un coccodrillo, certamente apparteneva alla specie nilotica, dunque era ben conosciuto già dagli antichi Egizi e pare assai strano che i Romani lo chiamassero “serpente”. Ancora verso il 1960 è stato scoperto un esemplare di coccodrillo, vivente, in una pozza dell’Ahaggar (13), ultimo superstite di un tempo non lontano in cui tutto il Sahara  era verdeggiante di vegetazione e popolato d’innumerevoli specie animali, come testimoniano le numerose, bellissime raffigurazioni rupestri, sia ad affresco che graffite: (14) Non è quindi una impossibilità dal punto di vista della zoogeografia o geografia degli animali, quantunque il Bagrada scorra molto a nord, a pochi km. dal Mediterraneo, dove gli inverni sono più freschi e le escursioni stagionali abbastanza marcate;  ma – scrivono Pasquini e Ghigi – “durante la stagione asciutta o nelle località più nordiche della loro area di distribuzione, i coccodrilli si affondano nel fango e passano qualche tempo in ibernazione. Si raccontano diversi  casi in cui uomini dormienti in capanne improvvisate sulla sponda dei laghi, che sono stati svegliati da movimenti del suolo sotto il loro giaciglio, si sono veduti sbucare un coccodrillo destatosi allora dal riposo.”(15) Il problema non è geografico, ma naturalistico. Oltre al fatto che è ben difficile, per non dire impossibile, non notare gli arti del coccodrillo, tanto più se di grandi dimensioni; oltre alla difficoltà di scuoiarlo, visto che nemmeno le frecce e i giavellotti avevano potuto alcunché contro il suo dorso squamoso: è possibile che un intero accampamento di legionari, forse un intero esercito siano stati tenuti lungamente in scacco da un unico esemplare di coccodrillo? E che, per averne ragione, il console in persona abbia fatto mettere in posizione e adoperato balliste e catapulte, come per colpire le mura di una città assediata? Sarebbe un rendere scarsa giustizia a quei professionisti della guerra che erano i Romani, uomini che non si spaventavano facilmente neppure davanti agli elefanti da guerra lanciati a tutta carica contro di loro. Viene da pensare che gli studiosi moderni abbiano liquidato il mistero, cioè la loro ignoranza, ricorrendo al solo animale oggi noto che, abitando in quelle regioni, avrebbe potuto essere il mostro del Bagrada: tipico modo di procedere di quello che il filosofo Thomas Kuhn chiama il “paradigma scientifico”. Piuttosto che revocare in dubbio le certezze acquisite, di solito gli studiosi preferiscono, di fronte a un problema, adottare la “soluzione” che permette di conservare inalterato l’intero paradigma. Cos’è, in questo caso specifico, l’elemento “disturbante”, quello che mette in crisi il paradigma scientifico? Ammettere che nessuna specie di rettile a noi nota soddisfa pienamente i requisiti del racconto tramandatoci da parecchi autori classici, tra i quali un filosofo come Seneca e uno scienziato come Plinio il Vecchio: gente, insomma, non usa a prestar fede a qualunque chiacchiera.

          Eppure, a ben guardare, dov’è lo scandalo? Le specie vegetali oggi individuate e classificate sono circa 320.000; quelle animali superano il milione: ma è noto che ve n’è un numero enorme ancora da “scoprire”, sia delle prime che delle seconde. E continuamente ne vengono scoperte di nuove. Il pubblico, in genere, pensa che si tratti per forza di specie viventi molto piccole; invece non è così. Per citare solo alcuni casi, ricordiamo che l’okapi, una giraffa altrimenti sconosciuta, fu visto la prima volta solo nel 1888 e catturato nel 1907; che il pauroso varano di Komodo, lungo anche 3 metri, “l’animale che per forma, dimensioni e caratteristiche di predatore assomiglia di più ai draghi delle nostre fiabe” (16), venne scoperto solo nel 1912; e che il celacanto, un pesce che si credeva estinto da 60 milioni di anni, venne pescato, vivo, nelle acque del Sud Africa, nel 1938, e poi ancora parecchie altre volte, sino ad oggi (17); e si potrebbe continuare. E che dire di un intero gruppo umano, i Tasaday dell’isola di Mindanao, nelle Filippine, che furono letteralmente scoperti solo nel 1975, e  che conducevano una vita analoga a quella dell’uomo delle caverne? (18) Tutto questo dimostra che un rettile sconosciuto e di notevolissime dimensioni, può (si badi, può) essere sopravvissuto alle antichissime ére geologiche presso un fiume dell’Africa settentrionale e aver gettato lo scompiglio nell’esercito romano di Attilio Regolo. Animali enormi come il Megatherium del Sud America o il Moa gigante della Nuova Zelanda erano ancora largamente diffusi quando comparve l’uomo e, anzi, pare ormai certo che proprio quest’ultimo sia stato la causa della loro rapida estinzione. Il cervo di padre David, in Cina, fu creduto estinto fino al 1865, quando venne riscoperto dal missionario francese di cui porta il nome; mentre il cavallo di Przevalskij, ossia il cavallo selvatico della Mongolia, fu scoperto solo nel 1881 ma oggi, purtroppo, è ritenuto estinto. In anni recenti una spedizione scientifica giapponese si è recata nell’Isola del Sud della Nuova Zelanda con la speranza di riscoprire il Moa gigante, e una spedizione americana si è inoltrata nelle paludi dell’Africa centrale alla ricerca del favoloso Mokele-Mbembe, un autentico dinosauro di cui sono giunte segnalazioni, ad intermittenza, dai primi del 1900 sino ad oggi. (18) Non è questa la sede per aprire un discorso sulla criptozoologia, la scienza che si occupa degli animali “misteriosi” che dovrebbero essere estinti (come il celacanto!) e invece sono, forse, vivi e vegeti, in attesa di essere riscoperti, e di quelli che né la zoologia attuale, né la paleontologia, conoscono, almeo ufficialmente, ma che hanno la discutibile abitudine di lasciare tracce, qua e là, della loro esistenza. Tanto per citare un modesto episodio, potremmo ricordare che nel 1934, in varie località delle Alpi svizzere ed austriache, venne segnalato uno stranissimo animale, il Tatzelwurm, sorta di “verme con le zampe”; mentre nell’estate del 1963, ai piedi dell’Altopiano del Cansiglio, presso Sarone, testimoni oculari videro –e ne parlò diffusamente anche la stampa – un enorme serpente, lungo quattro metri, che aveva la sua tana fra le rocce e che si faceva precedere da un rettile di dimensioni “normali”. (19) Secondo la scienza “ufficiale”, un serpente di tali dimensioni, nella regione pedemontana posta al confine tra Veneto e Friuli, non dovrebbe assolutamente poter esistere: solo nei paesi tropicali vivono serpenti del genere. Eppure è stato visto da numerose persone, una delle quali  ha perfino cercato di colpirlo  con un bastone, prima di darsi alla fuga. E allora? Vogliamo dare torto ai fatti, per amore delle teorie? La criptozoologia è una scienza “seria”, poiché vi si dedicano scienziati universalmente stimati come Bernard  Heuvelmans (20); tuttavia ci fermiamo qui, per non allontanarci troppo dal nostro argomento. Ci basta avere insinuato il dubbio che, forse, molte cose restano ancora da scoprire, molte altre da capire nelle scienze della natura, e senza bisogno di  proiettarci verso gli spazi cosmici: la piccola, vecchia Terra è ancora abbastanza grande e abbastanza giovane da poterci riservare non poche sorprese, a dispetto del nostro bisogno di elaborare un sapere sistematico e onnicomprensivo, che tutto crede di aver spiegato e non ammette deroghe al proprio paradigma.

          Per quanto riguarda il mostro del Bagrada, ci limiteremo a fare due ultime, veloci osservazioni. La prima è che  nella leggenda medioevale di San Giorgio e il drago, ambientata, forse per pura coincidenza, nell’Africa settentrionale, sembra sopravvivere un’eco dei racconti paurosi di Tito Livio, di Aulo Gellio e di tutti gli autori latini sopra menzionati. Scrive infatti Jacopo da Varagine (1228-98), il celebre domenicano autore della Leggenda Aurea: “San Giorgio, originario della Cappadocia e tribuno nell’armata romana, giunse una volta alla città di Silene [storpiatura di Cirene? ], in Libia. Vicino a questa città vi era uno stagno grande come il mare in cui si nascondeva un orribile drago che più volte aveva messo in fuga il popolo intero armato contro di lui; quando poi si avvicinava alle mura della città, uccideva col fiato tutti quelli in cui si imbatteva…” (21) A noi basta far notare che non solo l’ambientazione geografica, ma molti particolari del racconto sembrano ricalcare in maniera consapevole la tradizione del mostro del Bagrada, tanto che questo pare un’eco – per dirla con termine tecnico: un topos formulare – di quella.

          La seconda e ultima osservazione che vogliamo fare è che esiste, sempre in ambito mediterraneo, una seconda tradizione che pare ricollegarsi, magari in forma sotterranea, col mostro del Bagrada, e cioè quella raccolta dallo scrittore Daniello Bartoli (1608-85), gesuita còlto e celebratissimo (Leopardi lo giudicherà uno dei più grandi prosatori della letteratura italiana di ogni tempo) nella sua opera L’uomo al punto.”Assai delle volte – egli scrive – avrete udito mentovare il famoso dragone  apparito nelle campagne di Rodi mentre quell’isola si teneva da’ cavalieri ora di Malta, e la spaventosa bestia ch’egli era. D’un informe corpaccio, grande quanto un mediocre cavallo; l’orribil capo tutto cosa di drago; bocca grande  e squarciata, denti acutissimi, occhi focosi e sanguigni, due grandi orecchie spenzolate, e un fiato di mortalissimo veleno. Del corpo, il dosso bigio; e ne spuntavan due ali carnose  e unghiute, che dibatteva  e  svolazzava per ispavento, non perché punto il levasser da terra. Tutto era macchiato di rotelle, verdi, nere, sanguigne, fosche.: segni e fior di veleno. Armato poi d’un cuoio a modo di corazza, impenetrabile ad ogni arme, perocchè tutto era un commesso di piastrelli e di scaglie di durissima tempera; fuor solamente il gran ventre, livido e gialliccio. Andava su quattro piedi [ questo sì, dunque, poteva essere un coccodrillo, o comunque un animale di tipo sauriano ], e le due branche aveva  armate di terribili unghie. Dietro si traeva una lunghissima coda, che non gli era punto oziosa, o inutile al danneggiare; ché d’essa, come d’una serpe, valevasi ad avvinghiare e stringere con più giri e volute.; oltre alle forti percosse, con che atterrava chi d’alcuna incogliesse. Solitudine e desolazione  era tutto il paese a grande spazio intorno al colle di Santo Stefano, alle cui falde egli abitava dentro una palude, ivi medesimo ove era nato, d’un marciume d’acqua scolatavi e imputridita: e in  mostrarsi colà intorno uomo o animale, il dragone assassino gli era sopra a sbranarlo, e pascersi delle sue carni…” (22) Ancora una volta il rettile feroce e apparentemente invincibile, simile al Leviatano dell’Antico Testamento (23); ancora una volta il fiato pestilenziale; ancora una volta l’ambiente acquatico, in questo caso una palude.

      Coincidenze anche queste? Può darsi: non lo sappiamo; intanto ne prendiamo nota. Può essere che, collegando una serie di coincidenze, la criptozoologia riesca a restituirci un quadro più completo di fatti che, segnalati a suo tempo da osservatori che non erano certamente dei biologi e nemmeno degli scienziati, parvero semplicemente delle curiosità e delle stranezze della natura, mentre erano - in effetti - qualche cosa di più. Una cosa, certamente, dobbiamo evitare: fare il torto agli antichi di considerarli, tutti, dei testimoni creduloni e poco attendibili, solo perché , nel campo della filosofia naturale (così allora, e per secoli, fu chiamata la scienza della natura, anche nelle università del Medioevo e del Rinascimento) preferivano chiedersi - sulla scia di Aristotele - a che scopo, verso quale fine avviene un fenomeno, invece di limitarsi - come fa la scienza moderna - a domandarsi come e in quali circostanze. La loro idea del mondo naturale era finalistica, ma anche saggiamente olistica: non ammettevano quel riduzionismo che a noi, figli della dicotomia cartesiana di res cogitans e res extensa, appare del tutto ovvio. Perciò, andiamoci piano prima di liquidarli come osservatori ingenui e poco degni di fede dei misteri della natura. Se hanno visto delle cose che a noi sembrano inverosimili (come i prodigi celesti riferiti dallo scrittore latino Giulio Ossequiente), prima di scartarli a priori proviamo a domandarci se essi non abbiano tentato di descrivere, con un linguaggio forzatamente inadeguato, dei fatti reali che non sapevano spiegare e per i quali non possedevano nemmeno il vocabolario adatto. Insomma, andiamoci piano prima di buttar via il bambino insieme all'acqua sporca. Abbiamo poco da perdere e moltissimo da guadagnare se proviamo a far tesoro di quelle antiche testimonianze che, forse (almeno in un certo numero di casi) contengono forse un nucleo di verità meno stravagante di quel che potrebbe apparire a uno sguardo distratto e superficiale e, magari, potrebbero aiutarci a comprendere meglio anche fenomeni attuali che ancora non siamo in grado di collocare all'interno del nostro orizzonte scientifico.

 

 

NOTE

 

1)  Ricordato da CESARE in Bell. Civ., II, 24, 26, 38,39; e da altri, fra cui Tito Livio e Plinio il 

      Vecchio.Una buona rappresentazione cartografica dell’Africa cartaginese si  può consultare in 

       A. F. GIACHETTI, Antologia Sallustiana , Firenze, Sansoni, 1941, intra pp. 176-77.

2)  Cfr. ANTONIO BRANCATI-GIROLAMO OLIVATI, Il Mondo Antico, vol. II, Roma, Firenze,  

      La Nuova Italia Editrice, 1957, p. 153.

3)      Livio doveva parlarne nel libro XIX  (che è tra quelli perduti), ma non risulta dall’Epitome.

4)      VALERIO MASSIMO, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, I, 8, 19. Trad. di LUIGI RUSCA, , 2 voll., Milano, Rizzoli, 1972.

5)      AULO GELLIO, Noctes Atticae, VII, 3.  Trad. di L. RUSCA, 2 voll., Milano, Rizzoli, 1968. Il passo di Tuberone sta in Fragm. 8, Peter.

6)      PAOLO OROSIO, Historiarum Adversus Paganos, IV, (. Trad. di ALDO BARTALUCCI, in ADOLF LIPPOLD,  2 voll:, Fondazione Lorenzo Valla & A:rnoldo Mondadori ed:, 1976.

7)      LUCIO ANNEO SENECA, Ad Lucilium Epistularum Moralium Libri XX, X, 82. Trad. di Giuseppe Monti, Milano, Rizzoli, 1966.

8)      BENEDETTO RIPOSATI-ISA MORINI, Voces in Aevum, Roma, Oreste Bajres ed., 1959, pp. 17-18.

9)      Vedi ENRICO E RAFFAELLO BIANCHI-ONORIO LELLI, Dizionario Illustrato della Lingua Latina, Firenze, Le Monnier, 1981; e LUIGI CASTIGLIONI-SCEVOLA MARIOTTI, Vocabolario della Lingua Latina, Torino, Loescher, 1996. Cfr. anche CICERONE, De Natura Deorum, II, 110.

10)  Cfr. M. FABIO QUINTILIANO, Institutio oratoria, I, 10, 5.

11)  Per la precisione, i Greci adoperavano la  stessa parola per indicare la lucertola  e la “lucertola dei fiumi”, ossia il coccodrillo: distinguevano il diverso significato, ovviamento, dal contesto della frase. La parola, propriamente, è di origine ionica e si trova, ad es., in Erodoto. Cfr. H.G.LIDDEL-R.SCOTT, Dizionario Illustrato Greco-Italiano, Firenze, Le Monnier, 1975.

12)  Fr. HANS-WILHELM SMOLIK, Enciclopedia illustrata degli animali, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 858.

13)  Vedi ATTILIO GAUDIO, La via del Sahara (parte prima), in L’Universo, Firenze, Rivista dell’Istituto Geografico Militare, 1968, nr. 1, pp. 37-38.

14)  Tra i numerosi libri sull’argomento, vedi PIETRO LAUREANO, Sahara, giardino sconosciuto, Firenze, Giunti, 1988.

15)  PASQUALE PASQUINI-ALESSANDRO GHIGI, La vita degli animali, 4 voll., Torino, U.T.E.T., 1978, III, p. 830.

16)  H.-W. SMOLIK, Op. cit., p. 883

17)  Vedi KEITH S. THOMSON, La storia del celacanto, il fossile vivente, tr. it. Milano, Bompiani, 1993.

18)  Vedi MICHAEL BRIGHT, Mokele-mbembe, dinosauro sopravvissuto cercasi, in Airone, Giorgio Mondadori, maggio 1985 (nr. 49), pp. 122-27.

19)  Riportato in PETER KOLOSIMO, Il pianeta sconosciuto, Milano, Sugar, 1970, pp. 215-16. Sarone è una frazione di Sacile, in provincia di Pordenone (ma all’epoca in provincia di Udine). Del fatto si occupò il quotidiano Il Giorno, che pubblicò una testimonianza del signor Antonio Toffoli, gestore di un bar di Sarone.

20)  Vedi  l’ottima monografia di JEAN-JACQUES BARLOY, Gli animali misteriosi: invenzione o realtà?, tr. it. Roma, Lucarini, 1987, che contiene anche una ricca  bibliografia. Sul più famoso degli animali misteriosi  esiste un valido studio italiano: CARLO GRAFFIGNA, Yeti, un mito intramontabile, Torino, Centro Documentazione Alpina, 1999 (riedizione da Feltrinelli, Milano, 1962). Un altro autore italiano si è occupato del “parente” nordamericano dello Yeti: RENZO CANTAGALLI, Sasquatch, enigma antropologico, Milano, Sugar, 1975.

21)  JACOPO DA VARAGINE, Leggenda Aurea, Libreria Editrice Fiorentina, 1952, pp. 265 sgg. (traduzione dal latino di Cecilia Lisi).

22)  DANIELLO BARTOLI, L’uomo al punto, in PLINIO CARLI-AUGUSTO SAINATI, Scrittori italiani, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1941, pp. 828-32. Su questo episodio Ezio Raimondi  (a cura di), Scritti di Daniello Bartoli, Torino, Einaudi, 1977, pp. 173-75,  riporta che  secondo Michele Ziino (Marzocco, 11 maggio 1930) la fonte del Bartoli sul dragone di Rodi fu la Istoria della sacra religione e illustrissima milizia di S. Giovanni Gerosolimitano di Giacomo Bosio.

23) Vedi il Libro di Giobbe, III, 8 e XL, 25. Secondo la Bibbia di Gerusalemme, ed. princeps 1971,

      il Leviathan è “un mostro del Caos primitivo”, ma anche, in Giobbe, il coccodrillo, e pertanto il     

      simbolo dell’Egitto,  non in senso geografico (perché il Nilo è popolato dai coccodrilli), bensì in

      senso allegorico e morale, come immagine della vittoria di Jahvè sul popolo che teneva gli Ebrei

      in schiavitù. A sua volta, la similitudine è  tratta dal Libro di Ezechiele, XXIX, 3 e XXXII, 2, ne

      quale il  Faraone è chiamato, con disprezzo, “grande coccodrillo”.