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Miti dell'India e del buddhismo (novità editoriale

di Ananda K. Coomaraswamy, Suora Nivedita - 04/06/2007


Ananda K. Coomaraswamy, Suora Nivedita
Miti dell'India e del buddhismo
intr. di G. Boccali
2007, pp. 294, € 18,00
Collana I Libri dell’Ascolto
ISBN 9788842082910
Argomenti Storia delle religioni
 

In breve
Il disegno della lepre che un dio impresse nella luna attingendo al succo delle montagne, i dispetti del Buddha bambino, gli amori di Shiva, i viaggi iniziatici nel regno dei morti, le metamorfosi cosmiche, le epopee di eroi, sovrani e demoni narrate nel Rāmāyana e nel Mahābhārata, i due più grandi racconti epici dell’India. Ci sono tutta la sapienza e il grande fascino della millenaria cultura indiana nei miti raccolti e interpretati in queste pagine. «Cogliere l’anima dell’India – dice Giuliano Boccali – significa in larga parte rinarrare e riascoltare i suoi miti. La convinzione non è il risultato di considerazioni sviluppate dagli studiosi moderni: anzi, è talmente congenita alla Weltanschauung indiana che raccontare e udire le antiche storie è ritenuto un atto religiosamente meritorio, capace di abbreviare il transito nel giro doloroso delle rinascite. Matura su questi presupposti la scelta di offrire nuovamente ai lettori italiani un’antologia di miti indiani e buddhisti così antica, ben costruita e celebre da risultare a sua volta leggendaria, per decenni punto di riferimento insostituibile.»

Indice
Introduzione di Giuliano Boccali - Nota sulle traslitterazioni di Anna Bonisoli Alquati - Prefazione - Capitolo 1. Mitologia delle razze indo-arie - Capitolo 2. Il «Rāmāyana» - Capitolo 3. Il «Mahābhārata» - Capitolo 4. Krishna - Capitolo 5. Buddha - Capitolo 6. Shiva - Capitolo 7. Altre storie dai «Purāna», dai poemi e dai «Veda» - Capitolo 8. - Conclusione

Tutto è sacro, in India: l’affermazione, o qualcuna analoga, è molto diffusa a proposito del subcontinente, ed è profondamente vera. Paradossalmente, riceve una conferma proprio dall’inesistenza nelle lingue indiane tradizionali di un termine equivalente al nostro (occidentale) «sacro»; anche i sinonimi non sono troppo vicini: esistono per esempio «puro», «buono» in senso religioso, «di buon auspicio». Proprio perché tutto è sacro, non occorre evidentemente un termine specifico per designare questa condizione.
È divino e sacro l’assoluto impersonale, ma anche l’intera manifestazione lo è, con gradi di intensità diversi. Come si deve intendere questa constatazione? Il rischio, naturalmente, è di filtrarla attraverso l’opposizione per noi abituale sacro/profano e perciò di interpretare la sacralità come un’atmosfera ieratica che avvolgerebbe ogni momento, ogni aspetto e ogni oggetto della vita rendendolo solenne, e magari infastidendo chi non è propenso a eccessi di ritualità, o viceversa deludendo chi identifica la ritualità solamente con una geometrica esecuzione di atti cerimoniali. Nulla di tutto questo in India: la sacralità, la santità della manifestazione e il grado maggiore o comunque significativo di questo requisito intrinseco non poggiano su un’overdose rituale o enfatica; riposano invece sull’evidenza dell’unità della vita, del mondo divino, umano e naturale – che non sono separati – e sulla fondazione di ogni aspetto della vita in un tempo prima del tempo, iniziale, aurorale.
Il mezzo, il linguaggio che esprime e perpetua questa fondazione è il racconto, e anche la narrazione leggendaria vi contribuisce. Infatti il mito, il racconto delle origini, fonda e rifonda continuamente la sacralità dell’intero universo e di tutti i suoi aspetti, anche minimi, colmandoli di significato: dai conflitti fra superiori princìpi, rappresentati dalle diverse genealogie divine e demoniache, dai grandi eventi del cosmo e della società umana, alle tendenze psicologiche, alla struttura di un dramma teatrale, alla forma di una coppa, tutto è venuto in esistenza nel corso di un evento mitico. In un certo senso, pervasivo ma per noi sfuggente, tutta la religiosità indiana e soprattutto hindu è prevalentemente affidata a un intreccio fittissimo e senza fine di miti e di leggende. Tutto è sacro, dunque, non perché un drammaturgo o un vasaio, ad esempio, nel comporre una scena o nel dar forma a una ciotola agiscano in un’atmosfera grave e rarefatta (tutt’altro: in genere, la vita in India è chiassosa, eccessiva...), ma perché l’uno e l’altro sono naturalmente consapevoli, come la società intorno a loro, che gli atti compiuti e i prodotti creati risalgono a modelli divini, carichi di senso, permanenti al di fuori del tempo.
Cogliere l’anima dell’India, dunque, significa in larga parte rinarrare e riascoltare i suoi miti. La convinzione non è il risultato di considerazioni sviluppate dagli studiosi moderni: anzi, è talmente congenita alla Weltanschauung indiana che raccontare e udire le antiche storie è ritenuto un atto religiosamente meritorio, capace di abbreviare il transito nel giro doloroso delle rinascite. Matura su questi presupposti la scelta di offrire nuovamente ai lettori italiani un’antologia di miti indiani e buddhisti così antica, ben costruita e celebre... da risultare a sua volta leggendaria, per decenni punto di riferimento insostituibile del pubblico interessato nel mondo anglosassone prima che in Italia. Anche se ottant’anni sono ormai trascorsi dalla prima edizione dell’opera, gli autori non richiedono notizia particolare, oltre alla presentazione nelle prime pagine del volume: certamente, per competenza, passione, vastità di interessi, e per la loro stessa biografia, sono stati fra gli artefici più illuminati e genuini della conoscenza reciproca di India e Occidente.