Ecologia: per un'economia comunitarista
di Laurent Ozon - 07/12/2005
Fonte: ariannaeditrice.it
La Banca mondiale il Fondo monetario internazionale, fondati nel 1944 a Bretton Woods negli Usa, e l’Organizzazione mondiale del commercio, che ha preso il posto del Gatt nel 1996, sono gli strumenti di una logica planetaria di sviluppo economico e di liberalizzazione degli scambi voluti dalle imprese transnazionali. Il loro modello di sviluppo pretende di procurare il benessere generale, e il dogma del liberalismo economico da essi difeso esalta le virtù del mercato senza vincoli come valore universale e fondamento della democrazia.
Dopo vari decenni di crescita e di espansione del sistema tecnoeconomico occidentale, è lecito valutarne i risultati e giudicarne l’auspicabilità. Per qualunque persona dotata di lucidità, la constatazione è facile a farsi. Edward Goldsmith ce ne offre una sintesi che non richiede commenti: "Il commercio mondiale si è moltiplicato per undici dal 1950 ad oggi e la crescita economica per cinque; tuttavia, in questo periodo, si è verificata una crescita senza precedenti della povertà, della disoccupazione, della disintegrazione sociale e della distruzione dell’ambiente. Non esiste quindi prova del fatto che il commercio o lo sviluppo economico siano di grande valore per l’umanità". Visto ciò, non vi è dunque nulla di sorprendente nel fatto che i valori liberali siano il bersaglio prioritario delle critiche che gli ecologisti hanno rivolto alla società.
Il liberalismo non è semplicemente una concezione del mondo basata sulla valorizzazione della libertà in tutte le sue forme (economica, politica, morale o religiosa). Questa definizione, che taluni liberali utilizzano a volte per definire il proprio modo di vedere le cose, non ci consentirebbe infatti di capire che cosa sia storicamente il liberalismo e che cosa lo distingue, ad esempio, dall’anarchia o dal libertarismo, anche se, secondo il parere di numerosi commentatori, queste dottrine sono in una certa misura in rapporto. Per essere brevi, diremo che il liberalismo è, allo stesso titolo del socialismo, una dottrina di gestione del capitalismo, della "ricchezza materiale" prodotta dall’attività industriale. La vulgata liberale, che in campo economico oggi si riduce più prosaicamente all’elogio della crescita e della libera impresa, può essere riassunta così: ogni uomo, perseguendo liberamente la soddisfazione del proprio interesse, contribuisce, se tutti gli altri uomini hanno la stessa libertà, alla soddisfazione dell’interesse collettivo. Per i liberali, "la libertà per l’individuo di concorrere al proprio benessere è la condizione necessaria e sufficiente del benessere sociale"; è ciò che viene definito la coincidenza naturale degli interessi.
Per i liberali, l’individuo è integrato in un mondo retto da leggi meccaniche e complesse, che non devono direttamente niente né al Dio cristiano né al Cosmos degli Antichi. La causa di tutte le azioni umane è la ricerca della soddisfazione individuale, e l’attività dell’uomo conformemente alla ricerca del proprio interesse si basa sempre su un processo di comparazione contabile (esatto o meno, cosciente oppure no) e dunque, alla fine, su un calcolo costi/benefici. La possibilità di un calcolo economico razionale si basa infine sulla possibilità di un’interpretazione oggettiva preventiva del risultato delle azioni umane in termini di utilità e implica dunque una valutazione matematica del risultato di tali azioni (in funzione del rapporto costo/beneficio).
In conclusione, il Prodotto nazionale lordo, che misura quel che ciascuno può, in media, acquisire è il concetto più realistico e più pratico per valutare il benessere collettivo. Ne discende che più il Pnl è elevato, più il benessere generale è cospicuo. L’obiettivo della società deve essere la crescita del Pnl o del Prodotto nazionale netto reale pro capite. Dato che l’organizzazione dell’economia sulla base dei princìpi della libera concorrenza fra gli individui (libertà di circolazione dei beni e dei valori senza intervento dello Stato) è l’unica che consenta la crescita del Pnl, le politiche che si fanno carico degli interessi della collettività devono assegnarsi come obiettivo prioritario l’assicurazione della maggiore crescita possibile. Secondo i liberali, ad esse spetta il compito di vigilare sul mantenimento della pace sociale, senza la quale non vi è libertà economica, guardandosi però dall’intervenire in qualità di "agenti economici" su un mercato in via di planetarizzazione.
L’influenza dei valori della modernità sulla formazione epistemologica della scienza economica ortodossa di cui il liberalismo è emanazione viene ammessa pressoché da tutti. Il liberalismo è una dottrina che semplicemente non è pensabile senza i valori della modernità. Alcuni, sulla scia di Louis Dumont1, si sono spinti a vedere nell’ideologia economica contemporanea l’incarnazione più riuscita dei valori moderni. Il liberalismo si appoggia ad un sistema di valori, quello che Thomas Kuhn ha chiamato un paradigma2, il paradigma moderno, in parte già costituito nel XVIII secolo, nel momento in cui il filosofo scozzese Adam Smith, fondatore dell’economia politica inglese, pubblicò la sua famosa opera Ricerche sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), ancora oggi considerato dai liberali una sorta di manifesto.
L’ecologia come scienza nasce alla fine del XIX secolo, nel punto di incrocio fra varie discipline scientifiche (pedologia, botanica, agrochimica, fitogeografia e biologia), dalla necessità di studiare le specie viventi nel contesto, cioè sul loro luogo di vita e nella rete di legami che le legano alle altre specie. Questo metodo era stato spontaneamente adottato dagli scienziati che, a partire dal XVII secolo, si erano lanciati nell’esplorazione del mondo per studiare e scoprire ciò che lo studio di individui isolati in spazi artificiali non poteva rivelare loro. Apparve chiaro che quel modo di procedere offriva molte più potenzialità. Implicava che, essendo gli individui in questione fortemente dipendenti dalle loro molteplici collettività di appartenenza, non era possibile capire talune delle loro particolarità fisiologiche e comportamentali se non ricollocandole nel sistema naturale di relazioni complesse – l’ambiente – al cui interno svolgevano funzioni particolari e da cui dipendevano del resto per la loro sopravvivenza. L’ambiente era il contesto più adatto a fornire le informazioni necessarie all’adozione di un comportamento conrme alla conservazione del loro equilibrio.
La parola Oekologie viene forgiata dal biologo tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) ed è utilizzata per la prima volta nel 1866 nella prima edizione della sua Morfologia generale degli organismi. È formata da due radici greche: oikos e logos, la scienza. Il termine "ecologia" è costruito in modo simile ad "economia" e deriva, come ha notato Pascal Ascot, "per una parte dal tema indoeuropeo weik, che designa un’unità sociale immediatamente superiore alla casa familiare. Questo tema dette, fra l’altro, il sanscrito veçah (casa), il latino vicus, che designa un quartiere, e il greco oikos, l’habitat, la casa"3. Ecologia significa dunque letteralmente "scienza dell’habitat". Haeckel la definisce così: "con ecologia intendiamo la totalità della scienza delle relazioni dell’organismo con l’ambiente, che comprende in senso ampio tutte le condizioni di esistenza"4. Questa definizione costituisce ancora oggi il fondamento della maggior parte delle definizioni attuali dell’ecologia scientifica. L’ecologia è una scienza interamente rivolta allo studio delle relazioni fra i gruppi. Si potrebbe quasi dire che per gli ecologisti, e dal punto di vista della priorità accordata nell’approccio all’oggetto di studio, la relazione precede l’essenza. Victor-Emile Shelford, pioniere dell’ecologia americana, la definirà "scienza delle comunità" e scriverà "Uno studio dei rapporti di una sola determinata specie con il suo ambiente che non tiene conto delle comunità e, in definitiva, dei legami con i fenomeni naturali del suo ambiente e della sua comunità, non si inserisce in modo corretto nel campo dell’ecologia"5. Saranno le teorie organiciste dell’americano Frédéric Clément e più tardi la sistemica di Ludwig von Bertalanffy a fornire elementi di comprensione delle comunica biotiche, che saranno da allora in poi considerate alla stregua di sistemi viventi. La comparazione della comunità ad un organismo biologico sarà così chiaramente affermata che Daniel Simberloff la considera "il primo paradigma dell’ecologia".
Per reagire a questa teoria, che riteneva eccessiva, il biologo Sir Arhur Tansley elaborerà il concetto di ecosistema, ovvero "l’insieme formato da una comunità, dal suo substrato geologico e dal suo ambiente atmosferico", per indicare quello che considera come un quasi-organismo. La teoria degli ecosistemi (o bioregioni), che integra regni diversi, sarà ulteriormente convalidata negli anni Venti dai lavori della scuola di Uppsala fondata dal botanico svedese Einar Du Rietz grazia al cosiddetto metodo delle "aree minime" e poi da quelli della Scuola di Zurigo e Montpellier di Josias Braun-Blanquet. Dopo un’eclisse di una cinquantina d’anni, l’organicismo ritorna in forze sulla scena del pensiero ecologico grazie alle ricerche di James Lovelock, che studierà il carattere autoregolato e autocreativo della biosfera nel famoso libro L’ipotesi Gaia, che farà sottotitolare "la Terra è un essere vivente", e allo sforzo di divulgazione di queste opere intrapreso dalla corrente culturale ecologista battezzata dal filosofo norvegese Arne Naess Deep Ecology, ecologia profonda.
All’opposto di questo approccio, i moderni rappresentano la natura in modo meccanicistico. Rompendo con la fisica aristotelica e organicistica di un Cosmos, di una natura ordinata, gerarchizzata e finalizzata, la fisica di Galileo metteva in scena uno spazio infinito di massa-energia, matematizzabile e geometrizzabile, una natura che obbedisce a leggi che presentano dappertutto le stesse proprietà (isotrope) e in cui la causa deterministica e ritardata di un fenomeno è l’unica efficace (causalisti). Questo nuovo paradigma scientifico, ripreso da tutti i sostenitori della modernità occidentale, postula, in contrapposizione a qualunque prospettiva organicista, che "la natura può essere spiegata solo da se stessa e le sue leggi sono identiche a quelle della meccanica"6.
Inoltre, per i liberali la sola unità naturale e originaria è l’individuo, ed è in lui che risiede ogni sovranità. Bisogna che la trasferisca provvisoriamente alla società affinché questa possa valersene. L’individuo (naturale, primo e principiale) preesiste alla collettività (artificiale, derivata e convenzionale), che ne è solo la semplice addizione in un dato momento. In conseguenza di ciò, l’interesse della totalità sociale è, ad avviso dei liberali, secondario, perché costituito dalla somma degli interessi particolari che la compongono. L’olismo (dal greco holos, intero) si fonda invece sulla constatazione che "l’organismo vivente è un tutto, e che questo tutto è qualcosa di più e di diverso dalla somma delle sue parti"7 e che l’individuo non può essere veramente capito nelle sue attitudini e nei suoi bisogni se lo si estrae dal contesto delle comunità e degli ecosistemi ai quali è adattato. Il sistemismo ecologista si ispira ai princìpi sviluppati dalla teoria dei sistemi e dalla cibernetica e rifiuta le dottrine atomistiche (subordinazione dell’interesse collettivo agli interessi individuali), preferendo ad esse le dottrine oliste (subordinazione degli interessi individuali all’interesse collettivo).
Questi punti di vista contengono ciascuno una parte di verità quando vengono pensati in modo complementare. E in questo contesto l’interesse individuale consiste nel far prevalere l’interesse generale esclusivamente quando esso si identifica anche con quello della preservazione dell’integrità della biosfera. Per essere chiari, l’olismo ecologico ha quale tratto specifico la considerazione che l’insieme da rispettare si estende al di là della comunità umana di appartenenza o di identificazione ed include la gerarchia dei sistemi viventi, la cui integrità è una condizione sine qua non della difesa, nel lungo periodo, dell’interesse collettivo. Per riprendere una frase dello scienziato russo Vladimir Ivanovic Vernadsky, precursore dell’ecologia, "L’uomo in quanto essere vivente è inevitabilmente legato ai fenomeni materiali ed energetici di uno degli involucri geologici della Terra, la biosfera. E non può esserne fisicamente indipendente neppure per un attimo"8.
Altri punti di divergenza tra ecologisti e liberali sono le rispettive visioni delle leggi che regolano il mondo e le basi dei loro naturalismi.
Gli ecologisti affermano il carattere "cooperativo, ordinato ed evolutivo" di tutti i sistemi viventi in contrasto con una interpretazione strettamente "competitiva, aleatoria e non direttiva" sostenuta dalle élites economiche, legate a una interpretazione superficiale delle ricerche di Darwin9. Per l’ecologia, le relazioni fra gli esseri viventi sono essenzialmente cooperative e solo accessoriamente competitive, quando il sistema (la comunità o l’organismo) riesce a preservare la propria omeostasi, vale a dire le capacità di difendere la propria stabilità di fronte alle aggressioni interne ed esterne. Questa situazione può cambiare, e generalizzare la competizione e i comportamenti aggressivi (che occorre distinguere dalla predazione), quando l’insieme non riesce più a far fronte alle discontinuità che lo minacciano. Al generalizzarsi delle perturbazioni sociali e naturali dobbiamo l’aumento dei comportamenti che configurano una lotta di tutti contro tutti, che in una situazione normale sono eccezionali.
Questa divergenza di considerazione e di percezione della natura, che per gli ecologisti è dominata dalla diversità, dall’adattabilità e dalla stabilità e per i liberali dall’isotropia, dal caos e dalla competizione, è l’espressione, al di là delle differenze di opinioni e valori, di diverse sensibilità. Diverse sensibilità e quindi diverse considerazioni delle finalità ultime dell’individuo, del gruppo, della vita o della materia.
Gli Antichi, sulla scia di Aristotele, distinguevano, accanto a una nozione di causa efficace di natura determinista che si svolgeva dal passato verso il futuro, una nozione di causa finale, di natura teleologica, che procedeva dal futuro verso il passato. Come nota Roberto Fondi, "questa teoria introduceva l’idea secondo la quale i fenomeni naturali non dipendono solamente da cause situate nel passato, ma anche da cause situate nel futuro"10. Aggiunge Edward Goldsmith: "Per noi, l’intenzionalità è la caratteristica essenziale del comportamento degli esseri viventi. Gli organismi viventi sono concepiti e si sviluppano come se dovessero perseguire intenzionalmente un destino cosciente"11. L’evoluzione di un essere vivente è teleologica (da telos, scopo), cioè orientata verso un obiettivo, che è quello di occupare un posto particolare in un insieme dinamico. Esso non è dunque lì per caso, e non si sviluppa (se è sano) in maniera aleatoria.
In genere, sia i liberali che i socialisti stanno dalla parte di quella che Serge Latouche ha definito la metafisica del progressismo12. L’idea di progresso si basa su una concezione lineare e orientata del tempo, su un’interpretazione profondamente ottimistica del movimento delle scienze e delle tecniche e su una valorizzazione intrinseca della novità. A questa concezione fondamentalmente ottimistica, gli ecologisti preferiscono una percezione più realistica e meno colorata di metafisica, che si ispira a un’altra grande legge del mondo, questa volta di tipo fisico, l’entropia. Questo termine indica il secondo principio della termodinamica, nato da un appunto di Sadi Carnot perfezionato dall’austriaco Rudolf Clausius, che trae ispirazione da un dato elementare: il calore scorre naturalmente dal corpo più caldo al corpo più freddo. Carnot ne deduce che, inversamente, il passaggio del calore da un corpo freddo a un corpo caldo non può avvenire senza l’intervento di un’operazione. La conseguenza più generale è che vi è una degradazione continua e irreversibile dell’energia in qualunque sistema chiuso. Indicando la misura della dissipazione o del disordine, la legge dell’entropia è anche l’enunciato generale a partire dal quale possono essere compresi tutti i fenomeni di degradazione di energia, nonché il loro carattere irreversibile.
Nicholas Georgescu-Roegen, matematico e teorizzatore di una bioeconomia, chiede che l’entropia non venga circoscritta al campo dell’energia, bensì che se ne estenda l’applicazione alla materia: che cos’è infatti l’usura dei materiali, se non una forma particolare di entropia? Georgescu-Roegen pubblicherà nel 1973 il libro La décroissance13, un’analisi termodinamica applicata all’economia che dimostra l’irreversibilità del ciclo di trasformazione delle energie e delle materie e dunque i limiti materiali della crescita economica predicata dai liberali. Il processo economico consiste infatti essenzialmente, a suo avviso, in un prelievo di materie a bassa entropia negli stock di risorse "libere" o accessibili ma limitate e in un’esplusione di materie a alta entropia, che aggrava il fenomeno di dissipazione di risorse indispensabili ma non rinnovabili14. Edward Goldsmith mette in dubbio invece la capacità dell’entropia di rendere conto delle leggi del vivente15, pur ammettendone la pertinenza per rendere conto delle leggi fisiche dell’inerte. Rispetto alle leggi fisiche, la vita costituisce un fenomeno di anelli sintropici che compensa temporaneamente, con il suo "lavoro", l’ineluttabilità della degradazione entropica dell’energia e della materia inerte. Il fenomeno vivente è ormai ritenuto un’eccezione, una formidabile ma fragile eccezione le cui caratteristiche contraddicono temporaneamente la fondamentale entropia dell’energia e della materia. La vita si mantiene all’interno di insiemi organizzati e diversificati, compensando temporaneamente la morte, l’entropia, il processo fatale e continuo di dissipazione, disorganizzazione e omogeneizzazione delle masse-energie abbandonate dalla vita.
Per più di un punto di vista, la biosfera sembra inserita in un processo dominante che conduce a una progressiva e mortale entropia sotto la pressione crescente dell’impatto delle attività umane. Gli esempi che lo testimoniano sono innumerevoli: il calo delle specie vegetali è vertiginoso. Il biocidio è all’opera anche nella cancellazione della diversità interspecifica e intraspecifica delle comunità umane: si pensi alle culture regionali e locali ovunque, in Europa e nel mondo. Si pensi alle comunità cacciate dalle loro terre da progetti faraonici imposti dalle multinazionali, in India e altrove. Si pensi ai popoli stritolati dalla meccanica implacabile della colonizzazione occidentale: gli indiani guarnì parcheggiati come bestiame, che sopravvivono solo affittando le loro braccia alle industrie di alcolici, che li avvelenano come è accaduto, prima di loro, a quel 90% degli indiani dell’Amazzonia che sono già scomparsi. I Bushmen, scacciati dal loro territorio per far posto alle industrie turistiche. Gli aborigeni evacuati dalle terre ancestrali per potervi effettuare test nucleari. I contadini europei, africani, ecc. indotti ad abbandonare i campi. I tibetani, il cui genocidio è organizzato metodicamente dalle autorità cinesi attraverso l’assimilazione, l’acculturazione e il terrore poliziesco. Gli indiani Wayampi, Emerillon e Wayanna che lottano contro la colonizzazione e la normalizzazione imposta nel contempo dallo Stato francese, in nome della valorizzazione del territorio, dai media, in nome del diritto all’informazione, e dalle imprese in nome della libertà del commercio. In Guyana, infatti, lo Stato francese persegue l’occidentalizzazione e la normalizzazione degli indiani in continuità con i suoi grandi antenati, che hanno applicato i metodi di assimilazione e distruzione dei popoli in Bretagna, in Corsica, in Alsazia, in Provenza, nei Paesi baschi e altrove. Cambiano i metodi, si usa il blocco delle ordinazioni al posto della Bibbia o del Codice civile, ma la logica coloniale è la stessa.
Questa omogeneizzazione culturale conduce, attraverso un significativo fenomeno di retroazione, all’accelerazione dell’omogeneizzazione e della standardizzazione dei paesaggi, perché i paesaggi che conosciamo, soprattutto in Europa, sono il risultato di una lunga interazione fra le comunità umane e l’insieme delle altre specie viventi che compongono il loro ambiente, e le loro attività possono perciò contribuire a rafforzare la tipicità di un paesaggio. La diversità delle culture partecipa in tal modo della e alla diversità degli ecosistemi. Di conseguenza, in una visione ecologista che riconosce l’umanità come specie e come parte della natura, la diversità culturale – e la specifica organizzazione che le corrisponde – sono nel contempo un valore e una necessità.
Oggi numerosi pensatori ecologisti difendono la tesi secondo la quale un sistema, aumentando la propria diversità, allarga la gamma delle pressioni ecologiche alle quali è in grado di fare fronte; cioè affermano che la biodiversità accresce la stabilità di un sistema, aumentando le sue possibilità di adattamento alle discontinuità che lo minacciano. Noi diremo invece che è la crescita della complessità (da non confondere con la diversità) ad aumentare la stabilità del vivente, anche se, ovviamente, la diversità delle parti di un insieme è la condizione sine qua non della sua capacità di complessificazione. Bisogna intendere il termine "complesso" nel suo senso etimologico, "ciò che è tessuto insieme" (si veda, in proposito, l’opera di Edgar Morin16), non le parti differenti di un conglomerato aleatorio, ma le parti ordinate di un sistema vivente. Per essere più chiari, la diversità è un fattore di stabilità per i sistemi viventi solo se le parti sono complementari, omeoteliche; cioè se da semplicemente differenziate diventano "complesse", organizzate in un ecosistema all’interno del quale adempiono tutte ad una funzione compatibili con la conservazione dell’intero ecosistema. Jean Dorst, professore al Museo di storia naturale di Parigi, ha scritto: "Il mantenimento della diversità della natura e delle specie è la prima legge dell’ecologia"17.
I valori moderni postulano invece un umanismo antropocentrico, concepiscono cioè un uomo al quale lo status di essere razionale conferisce un valore morale, rendendone gli interessi moralmente più importanti degli interessi della natura nel suo insieme. Di una natura che è ormai concepita esclusivamente come una risorsa integralmente devoluta al benessere del genere umano, con il valore utilitario che ad esso conferisce tale status18. Gli ecologisti più coerenti svolgono nei confronti della civiltà universalista e antropocentrica occidentale una critica simile a quella che è stata rivolta contro i nazionalismi durante il XX secolo. La critica dei nazionalismi, che è stata strumentalizzata, era articolata attorno a un processo di relativizzazione delle appartenenze nazionali ed etniche, dall’alto valorizzando l’appartenenza zoologica alla specie umano e dal basso difendendo le comunità locali, i piccoli popoli oppressi dalle unificazioni e dagli annessionismi nazionali. Nello stesso spirito, gli ecologisti radicali relativizzano l’appartenenza alla specie umana e criticano l’atteggiamento specista (l’egoismo di specie, paragonabile da ogni punto di vista al razzismo), ricordando che, al di là dell’umanità, noi apparteniamo alla comunità bioetica planetaria, alla biosfera, e che la nostra solidarietà si deve estendere all’ambito degli animali, delle piante e di ogni vita in genere. Questa biosfera è organizzata alla base in comunità che popolano ecosistemi, e noi siamo connessi dalla cultura, dall’etnia o dalla storia a comunità intermedie, all’interno delle quali la nostra esistenza sociale assume un significato. Dobbiamo quindi cercare di capire, e poi rispettare e amare, la natura nelle sue forme di organizzazione. Non in modo astratto e globale ma concretamente, rispettandone la diversità e l’organizzazione.
L’ecologia sostiene che tutti gli esseri viventi meritano il rispetto morale. Tale postulato, contrariamente a quanto scrive Luc Ferry19, non implica a priori alcun egualitarismo; è compatibile con un atteggiamento differenzialista nello spirito di quel che scriveva Claude Lévi-Strauss nel suo libro Lo sguardo da lontano nel 1983: un punto di vista che consiste nel considerare normale un atteggiamento di "preferenza" o di maggiore valorizzazione di una specie piuttosto che un’altra, legato a fenomeni di identificazione, utilità, coappartenenza o rarità. Questo biocentrismo non è incompatibile, a rigore, con un umanismo castigato, che protegge l’uomo nella sua interezza, non solo in quanto essere pensante, essere razionale, ma anche e prima di tutto in quanto essere vivente completo, in tutte le sue dimensioni, incluse quelle fisica e spirituale. Infatti, prima di essereuna crisi del nostro modo di produzione, di redistribuzione delle ricchezze o del degrado dei nostri biotopi, la crisi ecologica è una crisi di relazioni con i mondi nei quali evoluiamo. In questo senso, includere la cultura ecologica nel nostro campo di riflessione e di azione significa riconoscere che, in parallelo alla distruzione degli ecosistemi, stiamo assistendo al degrado della nostra umanità.
Questa devastazione senza equivalenti ci sconvolge perché ci mostra per quali ragioni non ci raccapezziamo più nel mondo, perché esso ci è diventato estraneo, perché infine la nostra esistenza si è impoverita. E dal momento che un popolo o un uomo capiscono il mondo e gli sono legati per il tramite della loro cultura, è la via di un’autentica rivoluzione culturale quella che dobbiamo imboccare. Dobbiamo interrogarci non tanto sui rimedi per combattere questa o quella forma di inquinamento, quanto piuttosto su ciò che ha permesso che esse si verificassero. Sarebbe una catastrofe se, ignorando le cause profonde di quei fenomeni, ovvero lo stato della nostra cultura e i legami che abbiamo stabilito con il mondo, ci accontentassimo di fornire una risposta tecnica a problemi che sono prima di tutto dei segnali. Come una malattia è il segno di un’inadeguatezza fra un modo di vivere e le leggi naturali, gli inquinamenti sono i segni di un’inadeguatezza fra la civiltà industriale e capitalista e le leggi del mondo.
È illusorio credere che riusciremo a limitare la grande distruzione alla quale siamo assistendo varando regolamentazioni di protezione ambientale, sia che esse abbiano un’ispirazione liberale o socialista, sia che dichiarino di basarsi su princìpi ecologisti, perché in quel caso si accentuerà il controllo tecnocratico senza che vengano rimesse in discussione le cause fondamentali dei problemi. La sostituzione delle norme tecnocratiche di gestione capitalista con norme di gestione pseudoecologista non ci riconcilierà con il mondo.
Se l’ecologia fosse solo una scienza, anche una aristoscienza – essendo inteso che per noi la scienza non produce valori ma fornisce mezzi –, si potrebbe reputare abusiva l’utilizzazione che ne fanno numerosi pensatori, o movimenti politici, culturali e associativi per definire il loro modo di vedere le cose. Si potrebbe in tal caso pensare che questa situazione sia solo il prodotto della confusione di idee che regna nella nostra società e del carattere polisemico della parola. Ma, per l’appunto, l’ecologia non è solo una scienza. O per meglio dire, l’ecologia preesiste alla comparsa della parola che è stata creata per indicarla alla fine del XIX secolo in Europa. Essa è un metodo nel senso etimologico del termine, un percorso, qualcosa come il ritorno di un atteggiamento che definirei "tradizionale" nelle scienze occidentali. L’ecologia è, a nostro modo di vedere, il nome moderno (e sempre problematico) preso a prestito dal pensiero "cosmico" tipico di tutte le culture tradizionali, nel momento in cui ha rifatto capolino nel cuore stesso della modernità20. L’ecologia è una cultura che ci porta a voler conoscere le leggi che sono all’opera nel mondo onde pensare meglio, capire meglio e quindi agire meglio sui problemi i fronte ai quali ci troviamo. Agli antipodi delle utopie economiche del XVIII secolo, delle utopie sociali del XIX e delle utopie politiche del XX, l’ecologia si oppone ad ogni riflessione decontestualizzata. Come ha dichiarato di recente Frédéric Bellanger, capo redattore di "Le recours aux forêts", a Radio Enghien, "per gli ecologisti, e al contrario dei liberali, l’economia non è una sfera di attività umana autonoma, che funziona in base a leggi proprie e per scopi propri, indipendentemente dalle necessità e dalle leggi che governano tutti gli altri processi in atto nella natura". Noi ci dissociamo apertamente dalla pretesa dell’economicismo di ridurre il nostro rapporto con il mondo, con gli altri e con noi stessi a una somma di interessi materiali, a una merce e quindi a una quantità di quell’equivalente universale che è il denaro, sul cui metro si vorrebbe cogliere, misurare, dominare, requisire, strumentalizzare, in una parola "catturare" la totalità del vivente. Ovviamente, non per questo neghiamo l’importanza e la necessità delle funzioni di produzione, scambio e consumo; ma tali funzioni rimangono per noi indissociabili dai rapporti sociali, politici e culturali, insomma da un’identità collettiva nella quale sono radicate, subordinate, armonizzate. La funzione economica rimane pertanto "contestualizzata" – embedded, nella terminologia di Karl Polanyi21 –, vale a dire inserita in uno spazio sociale, politico, culturale ma anche in senso più ampio naturale e vivente, che chiamiamo ecosistema o biosfera. In questa prospettiva olista consideriamo l’economia non come l’avere o il sembrare individuale, ma come un elemento che partecipa e deve partecipare alla coesistenza di una comunità vivente.
Contrariamente al liberalismo, che si basa su un corpus scientifico obsoleto, l’ecologia si sforza di stabilire leggi che servano all’organizzazione delle società umane traendo ispirazione ed istruzione dall’osservazione scrupolosa delle leggi della biosfera. L’ecologia, come movimento culturale, è dunque in un certo senso un movimento "topico", che consiste in una valorizzazione a priori della diversità organizzata del vivente (la biocomplessità), di quella diversità oggi minacciata delle specie, dei paesaggi e delle culture che fa la bellezza e la ricchezza del mondo che amiamo. L’ecologia non consiste in un mero succedersi di rivendicazioni di carattere ambientalista o in un qualche progetto di unificazione planetaria sotto gli auspici di una spiritualità di paccottiglia. È un movimento di decolonizzazione integrale che si propone di porre fine alla colonizzazione multiforme (economica, culturale e tecnologica) del mondo da parte della civiltà industriale e dell’ideologia liberale, affinché la differenziazione e il perfezionamento della vita, in tutte le forme, possano riprendere il loro corso.