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L’acqua, nodo centrale dell’occupazione della Palestina

di André Rousseau - 04/06/2007


Come in tutte le regioni aride, nel Vicino Oriente la questione dell’acqua è fondamentalmente politica. Presente fin dai primi insediamenti di colonie, essa è diventata un problema centrale nella Palestina occupata e nel Golan annesso ed attesta la politica discriminatoria di Tel Aviv. Vitale, essa è al centro di tutta la strategia militare e colonizzatrice israeliana.
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10 maggio 2007
Il Vicino Oriente è una terra arida. Se ci si limita alle tre regioni in cu il problema dell’acqua si pone con maggiore urgenza, la Giordania, Israele e i Territori palestinesi, si constata che lo sfruttamento reale delle risorse per soddisfare l’attuale domanda è vicinissimo, anzi superiore, a quanto effettivamente disponibile. Così, nel 1994, il consumo d’acqua in Israele supera i 2 000 milioni di metri cubi annuo, mentre le risorse rinnovabili non vanno oltre i 1 500 milioni di metri cubi per anno. In Giordania, il deficit idrico sale nel 1999 a 155 milioni di metri cubi e le falde freatiche sono supersfruttate al 180 %. La cosa è ancora più evidente nella striscia di Gaza che sfrutta le sue risorse rinnovabili al 217 %, il che pone importanti problemi, sia per la qualità dell’acqua pompata nelle falde sia per il futuro, con il rischio di prosciugare tali falde, molte delle quali non si ricostituiscono più.
Lo storico
Già nel 1919, Chaim Weizman, dirigente dell’Organizzazione Sionista Mondiale, scriveva al Primo ministro inglese Lloyd George che « il complesso del futuro economico della Palestina è dipendente dal suo rifornimento d’acqua per l’irrigazione e l’energia elettrica ». Le frontiere richieste inglobano oltre alla Palestina, il Golan e i Monti Hermon in Siria, il Libano meridionale e la riva est del Giordano. Un anno dopo, nell’ottobre 1920, lo stesso C. Weizman scriveva al segretario del Foreign Office : « Se la Palestina fosse amputata del Litani, dell’alto Giordano e dello Yarmuk, per non parlare della riva ovest della Galilea (lago di Tiberiade), non potrebbe essere economicamente indipendente. E una Palestina debole ed impoverita non sarebbe di nessuna utilità per nessuna potenza ».
Nel 1941, D. Ben Gurion dichiarava : « dobbiamo ricordarci che, per arrivare a radicare lo Stato ebraico, bisognerà che le acque del Giordano e del Litani siano comprese all’interno delle nostre frontiere ». Fin dall’inizio, Ben Gurion e Moshe Dayan furono favorevoli ad invadere il Libano meridionale fino al Litani. Dayan nel 1954 proclamava: -« la sola cosa necessaria è trovare un ufficiale (libanese), anche solo un maggiore....Potremmo convincerlo o comprarlo perché egli stesso si dichiari il salvatore della popolazione maronita (cristiana). Poi l’esercito israeliano entrerebbe in Libano, occuperebbe i territori necessari e metterebbe in piedi un regime cristiano che si alleerebbe ad Israele. Il territorio a sud del Litani sarebbe totalmente annesso e tutto sarebbe perfetto ». Si vede bene come le successive invasioni del (sud)-Libano fossero programmate da tempo !
Dal 1953, Israele inizia a deviare le acque del Lago di Tiberiade per irrigare la costa e il Neguev, senza consultare la Siria né la Giordania, e preleva un parte delle acque del Giordano. Nel 1964 è operativo il National Water Carrier (trasporto dell’acqua tramite canalizzazione). La Siria e la Giordania iniziano allora la costruzione della diga sullo Yarmuk e la deviazione del Baniyas per trattenere a monte l’acqua del Lago di Tiberiade ed impedire così a Israele di travasarla. Israele le accusa allora di aggressione e bombarda i lavori fino allo scatenarsi della Guerra dei 6 giorni. Anche il Libano sospetta che Israele pompi la sua acqua sotterranea dal Bacino dello Hasbani River [1].
La guerra del 1967 permette ad Israele di accaparrarsi le risorse di Gaza, della Cisgiordania e del Golan. Nel 1978, questo Stato invade il sud del Libano e devia tramite pompaggio una parte del Litani fino al 2000, data in cui si ritira in seguito alla resistenza di Hezbollah radicatasi in questa regione.
L’annessione del Golan, soprannominato il « castello d’acqua », permette il controllo del bacino di alimentazione a monte del Giordano e si traduce nell’espulsione della maggioranza della popolazione (100 000 persone), che consente in un sol colpo ad Israele di recuperare l’acqua non più localmente consumata.
Nel 1994, Israele e la Giordania firmano un trattato di pace con una parte sull’acqua sfavorevole ai Giordani. Con la Siria, che propone di rinegoziare tutto, in particolare l’acqua, contro un ritiro totale dell’occupazione del Golan, le discussioni riprese nel 1999 sono bruscamente interrotte da Ehud Barak. Quanto agli accordi di Oslo del 1993, se essi riconoscono (formalmente) « i diritti dell’acqua dei Palestinesi », essi rinviano la loro trattazione alle discussioni finali sulla situazione dei Territori palestinesi ..... ! Anche dei responsabili israeliani cosiddetti moderati hanno rifiutato di impegnarsi sull’acqua nel protocollo di Genevra…
La politica israeliana dell’acqua
Fin dal 1936, Walter Clay Lowdermilk si ispira ai grandi lavori allora effettuati nella Tennessee Valley negli Stati Uniti per proporre la realizzazione di una « Jordan Valley Authority » posta sotto sorveglianza internazionale. Nel 1954-55, quest’idea viene in gran parte ripresa dal piano Johnston per la valle del Giordano, dal nome di un inviato del Presidente americano Eisenhower, in vista di creare un’autorità regionale fondata su una cooperazione interstatale degli Stati rivieraschi del Giordano, allo scopo di assegnare e gestire al meglio le risorse idriche.
La legge di Israele sull’acqua
Ma Israele decide autonomamente. La sua legge sull’acqua del 1959 fa delle risorse idriche una « una proprietà pubblica (...) sottoposta al controllo dello Stato ». Il contenuto legale, il valore economico e sociale della proprietà fondiaria e delle risorse che essa contiene sono allora profondamente modificati. Ciò dà il via ad un sistema che impedisce ai Palestinesi di disporre liberamente delle loro risorse idriche, instaurando una sistematica discriminazione. Ma la politica messa in atto dal 1967 a Gaza e in Cisgiordania è di un altro ordine di grandezza. Fin dai primi giorni dell’invasione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967, vengono prese due misure :
1- divieto di ogni nuova infrastruttura idrica, di perforazioni e di costruzione di pozzi senza autorizzazione,
2- confisca delle risorse idriche, dichiarate proprietà di Stato, conformemente alla legge israeliana sull’acqua del 1959 che ha nazionalizzato la risorsa.
Per applicarvi la sua legge sull’acqua, Israele usa ripetutamente dei decreti militari. Il terreno principale di discriminazione è quello degli ostacoli imposti alle trivellazioni di pozzi. Attualmente in Cisgiordania funzionano 350 pozzi palestinesi, 23 dei quali che rappresentano il 6,5 % di tutti i pozzi, sono stati forati dopo l’inizio dell’occupazione, ad esclusivo vantaggio delle colonie di popolamento. Il diritto di scavo di nuovi pozzi necessita di un permesso, rilasciato a discrezione delle autorità israeliane. A partire dal 1975, vengono imposte delle quote e il loro superamento provoca pesanti ammende (sono stati installati dei contatori). Esse non sono state aumentate che quattro volte... La quantità d’acqua disponibile per gli agricoltori della Cisgiordania è congelata dal 1967 : il plafond è fissato a 90-100 milioni di metri cubi all’anno per 400 villaggi. Al contrario, la quantità d’acqua assegnata alle colonie ebraiche è aumentata del 100% nel corso degli anni 1980.
Utilizzo della « legge degli assenti »
Con pretesti di sicurezza, la « legge degli assenti » è rafforzata dalla proclamazione di «zone o regioni speciali». In conformità con l’ordinamento militare sulla « proprietà abbandonata », Israele prende possesso di quelle terre, espropriando in tal modo un numero imprecisato di pozzi, utilizzati dai Palestinesi costretti all’esodo nel 1948 e poi considerati « assenti ». Ugualmente, la legislazione israeliana sottopone alcune regioni della Cisgiordania a rigide regolamentazioni : « regioni sottoposte a razionamento», « distretti di drenaggio », « regioni di sicurezza militare ». E’ il caso di una striscia di terra lungo il Giordano,che i Palestinesi utilizzavano a fini irrigui, dichiarata « zona militare ». Queste misure limitano ulteriormente l’accesso dei Palestinesi all’acqua, che dai loro agricoltori è pagata ad alto prezzo – lo stesso dell’acqua potabile.
Prima del 1967, questa pratica era ignota alle popolazioni palestinesi : per la Cisgiordania, le autorizzazioni riguardanti l’utilizzo delle acqua erano generalmente concesse dall’autorità giordana. Nella striscia di Gaza, prima del 1967, non esisteva alcun sistema di permessi e l’utilizzo dell’acqua derivava dalla diritto delle consuetudini. Così, con le ordinanze militari n° 450 e 451 del 1971, il diritto di concedere permessi per l’utilizzo dell’acqua, prerogativa del Direttore del catasto giordano, viene trasferito alle autorità israeliane. Secondo diverse fonti, dal 1967 sono stati concessi dai 5 ai 10 permessi. Allo stesso modo, dal 1975, il rifacimento e la pulizia dei pozzi sono sottoposti ad autorizzazioni israeliane, praticamente mai concesse. Israele ha giustificato la sua politica di limitazione di nuovi permessi per i Palestinesi con i pretesti di economizzare l’acqua e di migliorare i metodi d’irrigazione i quali consentono un’aumentata produzione dell’agricoltura locale… !
La Mekorot
Queste pratiche discriminatorie sono istituzionalizzate : il governo israeliano, l’Agenzia ebraica e il Fobdo nazionale ebraico (FNJ) controllano la Mekorot (Compagnia di gestione israeliana) e la Tahal (Compagnia di pianificazione delle risorse idriche di Israele), il cui obiettivo comune è l’esclusivo sostegno degli interessi israeliani. L’integrazione dei servizi segreti israeliani, imponendo una centralizzazione di queste compagnie e sopprimendo la partecipazione delle popolazioni locali, pone i territori palestinesi in una situazione di dipendenza giuridica ed amministrativa.
Dal 1967, la Mekorot ha sviluppato delle reti a quasi esclusivo vantaggio delle colonie. Lo sviluppo e la manutenzione del sistema municipale palestinese sono stati lasciati all’abbandono, mentre la Mekorot controllava ed estendeva la sua rete di distribuzione. Nei settori palestinesi non serviti dalla Mekorot, lo stato di manutenzione è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania è persa per strada. Il sistema idraulico palestinese è rimasto al livello del 1967. A Tulkarem, le perdite ammontano al 60 %, a Ramallah al 20 %. E la creazione di infrastrutture idrauliche, che collegano tra di loro le colonie di popolamento, rinchiudono i territori palestinesi in un quadrilatero serrato. A Gaza, la situazione è ancor più drammatica, perché la troppo sfruttata falda acquifera costiera viene ora infiltrata dall’acqua del mare. Per il futuro Stato palestinese, l’eventuale distacco dalla rete idrica si rivelerà difficile e oneroso.
Ineguaglianza di accesso e di prezzi
Ma non basta che esista la risorsa, bisogna anche avervi accesso e i reiterati coprifuoco e blocchi stradali portano a situazioni drammatiche. Le distruzioni di risorse e serbatoi obbligano a far giungere l’acqua in camion-cisterna, rincarando i suoi prezzi che possono arrivare a 40 NIS al metro cubo (oltre 8 euri), circa 10 volte di più del prezzo inizialmente richiesto dalla municipalità. Nei Territori palestinesi occupati dal 1967, essendo le reti idriche frequentemente sotto il diretto controllo dei coloni, questi bloccano a loro piacimento le chiuse di distribuzione in direzione dei villaggi palestinesi.
Se gli Israeliani beneficiano tutto l’anno dell’acqua corrente, i Palestinesi sono vittime di tagli arbitrari, in particolare durante l’estate. Quanto al prezzo pagato da un consumatore palestinese, esso è in linea di principio lo stesso di uno israeliano, mentre il PIL in Israele è 20 volte più elevato che in Cisgiordania. In realtà per le colonie ebraiche l’acqua è fortemente sovvenzionata, mentre un Palestinese deve pagare 4 volte più di un colono per accedervi. Così, una famiglia palestinese può spendere parecchie centinaia di shekels al mese mentre le sue entrate non superano i 1500 NIS mensili (1 NIS = 0.21 euri = 1.37 FF ; 1 euro = 4,7 shekels).
In tale condizioni, l’Autorità Palestinese dell’Acqua, creata da Oslo 1, ha fatto una scarsa figura prima di essere annullata da Oslo 2, dal momento che ora solo Israele gestisce i flussi. Essa è servita soprattutto da capro espiatorio di fronte al malcontento delle popolazioni palestinesi e ha perduto la sua ragion d’essere con la sistematica distruzione delle infrastrutture (le vasche) e con l’impossibilità di controllare l’inquinamento.
Situazione idro-geologica e ripartizione dei consumi d’acqua
Il consumo medio annuo di un Israeliano (357 metri cubi) è quattro volte più elevato di quello di un Palestinese di Cisgiordania (84,6 metri cubi). Il consumo domestico di un cittadino israeliano è tre volte superiore a quello di un Palestinese. Anche il consumo agricolo è largamente superiore e la politica israeliana delle sovvenzioni incoraggia, di fatto, un consumo elevato. Doloroso handicap per l’agricoltura palestinese : i coloni irrigano il 60 % delle loro terre coltivabili, contro il 45 % in Israele e il 6 % in Cisgiordania.
La legislazione descritta in precedenza permette a Israele di soddisfare i suoi bisogni d’acqua grazie a a sottrazioni che si apparentano a vere e proprie spoliazioni.
- Dal 1967, la conquista del Golan ha permesso a Israele di disporre del Baniyas e delle falde e dei corsi d’acqua che percorrono il Monte e gli danno il soprannome di castello d’acqua. Il Golan apporta ad Israele oltre 250 milioni di metri cubi d’acqua all’anno. Il Golan e lo Yarmuk forniscono così circa un terzo del consumo totale israeliano. Di conseguenza, il 75 % delle acque del Giordano viene sottratte da Israele prima che raggiunga i Territori.
- In Cisgiordania tre falde acquifere forniscono un altro terzo delle riserve idriche ad Israele, che consuma circa l’86 % dell’acqua della regione. I Palestinesi ne utilizzano dall’8 al 12% e le colonie israeliane dal 2 al 5%. Dopo oltre trent’anni d’occupazione, circa 180 villaggi della Cisgiordania non sono ancora collegati ad un sistema di distribuzione. Il controllo delle fonti d’acqua è nelle mani della compagnia israeliana Mekorot che ogni anno distribuisce 110 milioni di metri cubi al milione e mezzo di Palestinesi (ossia 73 metri cubi per abitante), 30 milioni di metri cubi ai 140 000 coloni (cioè 214 metri cubi per colono), mentre 460 milioni di metri cubi partono verso Israele. Questa compagnia pratica una distribuzione, ma anche tariffe discriminatorie. Fa pagare agli Israeliani 0,7 $ al metro cubo per l’uso domestico e 0,16 $ per l’agricoltura, mentre non esiste un prezzo differenziato per i Palestinesi, i quali devono pagare 1,20 $ al metro cubo. Per fortuna questa falda si rigenera facilmente grazie ad abbondanti precipitazioni.
A Gaza, la superficie territoriale è piccola e le precipitazioni sono scarse. Si stima che solo 35 milioni di metri cubi penetrino il suolo per raggiungere la falda freatica. Vista la crescita della popolazione (da 50 000 persone prima del 1948, è passata al 1.200,000 di oggi, con un rapporto di 29 metri cubi d’acqua all’anno per abitante !), questa falda acquifera è supersfruttata e il 70 % delle sue risorse è intaccato. Nei pressi della Striscia dio Gaza, gli Israeliani prelevano in modo troppo consistente e prosciugano i pozzi palestinesi nei quali l’acqua disponibile è salmastra e ormai inquinata. Nella Striscia di Gaza non esistono fiumi, ma un wadi che raccoglie le acque di numerosi wadi della regione. Su tale wadi, gli Israeliani hanno impiantato delle piccole dighe ed ormai la sola acqua raccolta nel Wadi Gaza è quella usata e non riciclata della città di Gaza.... La Striscia di Gaza ha già ricevuto un certo sostegno internazionale per risolvere in parte la crisi dell’acqua (dissalazione, importazione d’acqua e lotta contro l’inquinamento), ma questo rimane insufficiente in rapporto alla domanda locale.
Conseguenze sull’ambiente.
Senza entrare nel merito dell’utilizzo, il consumo medio annuo d’acqua dei Palestinesi a Gaza e in Cisgiordania è di circa 150 metri cubi a persona, mentre i coloni di Cisgiordania ne consumano tra i 700 e gli 800 metri cubi. Di conseguenza, le acque sotterranee sono state super-sfruttate. Dall’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, tra il 70 e l’80% delle città e dei villaggi palestinesi non ricevono che poche ore d’acqua alla settimana, obbligando la popolazione a crearsi delle riserve in bidoni, ossia in condizioni igieniche rischiose, mentre i posti militari israeliani e le colonie sono alimentati 24 ore su 24. questi ultimi vivono come se fossero in un paese europeo, mentre la popolazione palestinese ha sempre amministrato la sua acqua tenendo conto dell’aridità della regione.
Inoltre lo sviluppo agricolo israeliano viene fatto in contraddizione con le risorse idriche disponibili. I Palestinesi non hanno il diritto di perforare pozzi, mentre i coloni lo possono fare e a grandi profondità (da 300 a 500 metri). Così, ai Palestinesi non soplo è proibito forare nuovi pozzi senza l’autorizzazioni militare israeliana ma, soprattutto, i loro pozzi non devono superare i 140 metri di profondità, mentre quelli dei coloni possono raggiungere gli 800 metri.
Aggravamento della situazione
Dopo la seconda Intifada, la situazione si è ulteriormente degradata, poiché l’esercito israeliano e i coloni attaccano i pozzi in maniera quasi sistematica, impediscono ai Palestinesi di accedere all’acqua e, a termine, cercano di spingerli a partire. Per questo, il costo d’acquisto di taniche d’acqua è considerevolmente aumentato, passando da 3 dollari al metro cubo a 7. Gli elicotteri israeliani bombardano le taniche sui tetti delle case e i pozzi importanti, come accaduto a Rafah.
L’acqua delle falde di Cisgiordania è rivendicata dai Palestinesi i quali puntualizzano che Israele sfrutta con i suoi pozzi profondi, e l’80-90% delle sacche d’acqua che dovrebbero spettare loro perché situate sotto le colline di Cisgiordania. Essi inoltre ritengono che lo Stato israeliano abbia violato la Convenzione di Ginevra (che sancisce lo statu quo dei suoli di territori occupati) scavando pozzi per i propri impianti, mentre ha bloccato lo sfruttamento palestinese dell’acqua. D’altronde, quei pozzi avrebbero prosciugato quelli meno profondi dei villaggi tradizionali.
Per Gaza, il problema deriva dai pozzi scavati nella falda freatica. Secondo l’Autorità palestinese, gli Israeliani hanno pompato nelle falde delle immediate vicinanze della Striscia di Gaza, causando così l’attuale forte salinità dei pozzi.
Aggiungiamo che il 31 % delle comunità palestinesi non è collegato : dipendendo dal Mékorot, che fa ciò che vuole, si ritrovano spesso non alimentate, sia perché i camion cisterna vengono bloccati ai check points, sia perché l’acqua è salmastra come a Gaza e sull’acquifera orientale in Cisgiordania.
Il vero ruolo del Muro e la politica di annessione
E’ in nome di una pretesa – e illusoria – sicurezza che i successivi governi israeliani hanno rifiutato di applicare le risoluzioni dell’ONU che intimavano loro di tornare alle frontiere del 1967 – dette « linea verde » - e, in particolare, di rendere alla Siria le alture del Golan. In realtà, la politica dei « fatti compiuti », guidata dalla nota volontà di conquista territoriale di Israele (il sogno del « Grande Israele biblico » di certi dirigenti israeliani), ha soprattutto l’obiettivo di mettere le mani sul 90 % delle risorse idriche della regione, il che dovrebbe essere effettuato una volta terminato il Muro. Questa politica, pianificata per cacciare i Palestinesi dalla Cisgiordania attraverso l’esaurimento dell’accesso alle loro risorse idriche, è scontato che passi agevolmente tra le maglie di una riprovazione internazionale…
Giudichiamo sul campo : il tracciato del Muro segue una logica deliberata : massimo di terre, minimo di popolazione, in vista dell’annessione e dell’espansione futura delle colonie, ma è fissato anche sul controllo delle terre migliori e sul recupero ottimale dell’accesso all’acqua. Separare i pozzi dalle terre porta dapprima a inaridire queste ultime, alla perdita degli investimenti e dei raccolti, poi all’abbandono e, dunque, al recupero da parte di Israele sulla base della « legge » sui « terreni non coltivati ».
Ad esempio, nel giugno 2003 nelle regioni di Qalqiliya e di Tulkarem, viene isolato oltre il 50 % delle terre irrigate e più del 5 % è distrutto, 50 pozzi su 140 e 200 cisterne si ritrovano isolati o in zona cuscinetto, 30 km di rete idrica e 26 pozzi e cisterne sono distrutti, colpendo 51 comuni, ossia oltre 200 000 persone, di cui il 40 % è ora senza risorse.
Un rapporto dell’ONU indica che tra la firma degli accordi di Oslo nel 1993 e 1999, sono stati distrutti 780 pozzi che fornivano acqua per uso domestico e irriguo. Quanto ai settori nei quali, malgrado tutto, sussistono ancora alcune produzioni, come le serre a Qalqiliya, la chiusura delle vie di comunicazione rende impossibile ogni commercializzazione.
Il blocco concentrazionario, già effettivo a Gaza da oltre 10 anni, oggi si accelera con la costruzione del Muro in Cisgiordania. A Rafah, nella Striscia di Gaza, dove dall’esercito di occupazione è stata eseguita la demolizione sistematica di centinaia di case, le corrispondenti infrastrutture, reti pubbliche e serbatoi, sono stati distrutti. In particolare questo è accaduto, all’inizio del 2003, alla stazione di pompaggio di due pozzi che fornivano acqua al 50 % degli abitanti della città. I due pozzi fornivano 6 000 metri cubi d’acqua al giorno (di buona qualità e non salmastra) sui 13 000 giornalieri consumati dai 130 000 abitanti. Uno di questi due pozzi era stato costruito nel 2001 dall’Autorità Palestinese con l’aiuto di fondi dal governo canadese.
Nel marzo 2003 e dopo l’inizio della seconda Intifada, i danni nei Territori occupati sono i seguenti : 151 pozzi, 153 sorgenti, 447 cisterne, 52 cisterne mobili (tankers), 9 128 raccoglitori sui tetti, 14 serbatoi, 150 km di canalizzazioni che servivano oltre 78 000 case [2].
Il futuro ?
E’ inaccettabile che Israele possa accaparrarsi la quasi totalità delle risorse idriche della regione ad esclusivo vantaggio dei suoi abitanti – numericamente minoritari. Il fatto incontestabile che tali risorse siano insufficienti per consentire un utilizzo dell’acqua simile a quello dei paesi a clima temperato, dovrebbe, al contrario, incitare i popoli della regione alla ricerca di un modus vivendi . A tutt’oggi, Israele rifiuta ogni (ri)negoziazione su tale argomento, tanto con l’Autorità Palestinese quanto con i suoi vicini, come dimostra la sua politica nel Libano meridionale e nel Golan.
La politica internazionale dell’acqua iniziata negli anni 50 con il Piano Johnston, è stata ignorata da Israele. Sarebbe ora che sotto l’egida dell’ONU si tenesse una Conferenza internazionale con i paesi del circondario, restando consapevoli che la regolazione politica sulla base delle risoluzioni dell’ONU e l’equa suddivisione dell’acqua non sono dissociabili. È inoltre evidente che se in Palestina un solo paese – laico – permettesse all’insieme della popolazione di vivere sotto la stessa legge, la risoluzione del problema dell’acqua sarebbe più facile. Nell’attesa, lo status quo porta direttamente ad una catastrofe annunciata. E ricordiamoci che, nella storia della Mesopotamia, intere civiltà sono scomparse in seguito all’insufficienza delle risorse idriche.
* A nome del Collectif Girondin de Soutien au Peuple Palestinien
[1] David Paul, “Water Issues in the Arab-Israeli Conflict”
[2] fonte : Palestinian Hydrology Group - marzo 2003
Voltaire, édition internationale