Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Quando a Berlino scese il «Buio a mezzogiorno»

Quando a Berlino scese il «Buio a mezzogiorno»

di Gabriella Pesenti - 04/06/2007

In viaggio con un ex prigioniero nelle prigioni della Stasi, la polizia politica della Germania Est, dove gli internati trascorrevano anni per un semplice sospetto. «Sotto terra ma con le luci sempre accese, ci avevano tolto tutto. Tagliati fuori dal mondo, senza neppure un libro da leggere»

 

«Non mi fecero un graffio, ve l’assicuro, ma fecero molto di più: mi sbatterono qui dentro e m’abbandonarono. Sarei potuto impazzire se non avessi trovato nella mia memoria poesie, teoremi, idee, ricordi, le opere di Shakespeare»

 

Pianse. Pianse come un bambino appena sentì pronunciare il suo nome. «Hans-Eberhard Zahn, 26 anni, studente di Psicologia» all'università di Berlino Ovest. Non gl'importava che quello fosse un interrogatorio in piena regola, che i militari che aveva davanti potessero decidere del suo futuro senza colpo ferire. Al suono del suo nome pianse, e basta. Erano tre mesi che non parlava con nessuno, chiuso dentro l'umida e mai buia cella-antro, tagliata nella parete di un corridoio che ci fa percorrere a passi spediti perché «il giro è lungo», s'era raccomandato prima di iniziare la visita, mostrando l'andatura ideale, quasi da marcia. I nazisti, ai tempi loro, ci stipavano le cibarie per la mensa dei poveri; i russi, sessant'anni fa, ci aprirono il carcere giudiziario segreto che ancora oggi si raggiunge a fatica. La porta d'acciaio da cella frigorifera s'era chiusa alle sue spalle l'anno prima, era il mese di novembre del 1953 e da quel momento Hans-Eberhard sprofondò nel vuoto dell'esistenza, accanto a un bidoncino-bugliolo e a un tavolato-letto. Per giorni, per settimane rimase chiuso lì dentro, senza sentire risuonare una parola, solo gli ordini: «Alzati!, Girati!, Seduto!».
«Non mi fecero un graffio, ve l'assicuro, ma fecero molto di più: mi vietarono i libri, la carta e la penna. Mi sbatterono qui dentro e m'abbandonarono. Sarei potuto impazzire se non avessi trovato nella mia memoria poesie, teoremi, idee, ricordi, le opere di Shakespeare». E di colpo quel tragico passato irrompe di nuovo nella minuscola cella sottoforma di sonetto, il numero 43. «When most I wink, then do mine eyes best see...», inizia a recitare il professore guardando fisso davanti a sé come se ci fosse il vuoto e non stranieri arrivati a Berlino per visitare quello che fino al 3 ottobre 1990 era il carcere della Stasi, la polizia al servizio del ministero della Sicurezza, un micidiale ingranaggio che arrivò a essere mosso da oltre novantamila dipendenti e che vedeva in ogni abitante, non solo della capitale della Repubblica democratica tedesca, un potenziale sovversivo, un nemico, un cospiratore.

«All days are nights to see fill I see thee...», declama ancora tutto d'un fiato. Endecasillabi datati e pieni di parole morte che fanno luccicare gli occhi di Hans-Eberhard, ma la voce è ferma, chiara. Se ne sta seduto sul suo ex tavolaccio-letto, in giacca e cravatta, a testa alta e con una disinvoltura che stupisce se confrontata con la sofferenza psicologica patita per sette lunghi anni. La stessa semplicità distaccata con cui, un'ora prima, s'era messo a chiacchierare con un collega attraverso le sbarre del pesante cancello d'entrata del penitenziario in Genslerstrasse 66, al limitare di quella che fino alla caduta del Muro era Berlino Est, ed eletta a monumento quindici anni fa per ricordare i duecentocinquantamila tedeschi che vi furono sepolti vivi.
Era qui che venivano «inghiottiti» i sospettati. Appena la polizia aveva uno straccio di spiata faceva scattare la trappola: la vittima prescelta, un nome estratto nella perfida lotteria della Stasi alimentata dagli informatori che col tempo arrivarono a essere centottantamila, veniva risucchiata nel buio da un furgoncino fantasma, portata in giro per la città e sbattuta in cella in fondo alla capitale, là dove nessuno sapeva che esisteva un carcere speciale, camuffato com'era da campo militare. «Scoprii che m'avevano tenuto rinchiuso qui dentro solo dopo la caduta del Muro. Fu un trionfo per me poter entrare in questa cella, la mia, da uomo libero: voleva dire che alla fine avevo vinto io, non loro».
Il professor Zahn, un distinto nonno dai capelli bianchi che tiene vivi i suoi 79 anni accompagnando gruppi e scolaresche inglesi là dove sembra che ancora oggi il Buio cali a Mezzogiorno, come sulle vite da gulag raccontate da Arthur Koestler, ora sorride ripensando che qui dentro, qualche giorno, lo passò anche il terribile generale Erich Mielke, terzo, più longevo, e ultimo capo della polizia segreta . Colui che conosceva solo la legge impartita dal motto di Lenin: «Chi non è con noi è contro di noi. Chi è contro di noi è un nemico e i nemici devono essere eliminati». L'alto ufficiale aveva instillato in tutti i berlinesi il terrore del vicino di casa, del compagno di scuola, del collega di lavoro, anche dei parenti stretti. Vedeva nemici dappertutto e si sentiva sicuro solo nel suo quartiere generale al Block 1 di Normannenstrasse, una scatola grigia di sette piani in mezzo a un vero e proprio quartiere-spia nella parte opposta della città, e di cui lui s'era preso tutto il terzo piano. Il generale viveva là, come in un bunker, ma con un salottino dove oggi un volontario che sembra uscito da un'opera di Brecht prepara il caffè, offre biscottini e sintonizza la Tv su cui scorre la storia della Stasi. «Ma Mielke non finì in cella, riuscì a farsi trasferire nell'infermeria», rivela il professor Zahn, torturato psicologicamente proprio dagli uomini dell'alto funzionario.

Quel primo interrogatorio, avvenuto in una delle decine di stanze dove i potenziali sovversivi, nemici o cospiratori venivano blanditi e terrorizzati, minacciati e rabboniti, il professor Zahn lo ricorda perfettamente. Ora è seduto dietro la scrivania dove stava l'ufficiale che interpretava la parte del buon amico, del funzionario comprensivo. «"So che sei un bravo studente, so che di te ci possiamo fidare, noi non vogliamo farti del male", mi diceva. E io mi sentivo vivo, qualcuno mi stava parlando».
La pagina del copione però cambiò di colpo. «Arrivò un suo sottoposto, mi fissò e facendomi vedere la pistola, mi disse: "Lo sai che non ti sparo in faccia solo perché me lo hanno vietato? Ma se potessi, verme, lo farei subito". Cominciai a tremare, vedevo il suo sguardo gelido. L'ufficiale seguì la scena senza dire una parola. Poi, di scatto, gli ordinò di tacere. E tornò a parlarmi: "Non ti spaventare, questo qui è una canaglia". Avevo i brividi, non capivo più nulla. Non sapevo a chi credere . E piansi ancora, ma questa volta perché avrei tanto voluto aver qualcosa da dire, da confessare. Ma non avevo nulla, non avevo complici, non avevo nessuno da denunciare perché non avevo fatto niente. Solo scritto tre articoli, considerati sovversivi, sul giornale dell'università».

L'ufficiale lo invitò a riflettere e lo sbatterono di nuovo giù, nell'U-boot, il sommergibile-galera dove in tempo di guerra erano passati migliaia di prigionieri dei russi destinati ad altri penitenziari e lager. Il lavaggio del cervello si ripeté una seconda, una terza volta finché un giorno «non mi tirarono fuori da lì e mi trasferirono in una delle decine di celle nella palazzina che detenuti e internati avevano appena finito di costruire intorno all'edificio centrale, quello nelle cui viscere fui rinchiuso per dieci mesi». «Sopra, invece, arrivava anche la luce del giorno», ma non i suoi contorni, cancellati dai vetri smerigliati della piccola finestra; ci sono un lavandino, un letto, un tavolino, una sedia, il water. Un comfort soffocato dalla solita, insopportabile, solitudine che lo assillò finché non ottenne il permesso di scrivere una lettera. «Erano fogli piccoli, intestati, avevo a disposizione solo ventiquattro righe, ma per me fu una liberazione...». Quella vera arrivò solo nel 1961, «senza aver mai visto un giudice o un'aula di tribunale». «Potei almeno far sapere ai miei genitori che ero stato arrestato».
Il giro sta per finire, Hans-Eberhard Zahn, prima di andare a riprendere il suo impermeabile bianco e la borsa da lavoro lasciati nella saletta di accoglienza, attraversa il cortile che non poteva vedere dalla finestra della cella, ci accompagna nella gabbia della tigre, un minuscolo cortile murato con il tetto di rete sorvegliato da un kalashnikov, e poi si ferma davanti al sasso che ricorda le vittime della prigione segreta aperta al pubblico dal 1994. Come dentro l'U-boot sembra essere di nuovo tornato solo. «La libertà è un bene troppo prezioso per farselo por tar via», ammonisce fissando lo spoglio monumento. Poi rialza la testa: «Fra un po', noi testimoni non ci saremo più, ma bisognerà fare di tutto per tener viva la memoria, ci raccomanda». Una stretta di mano, un muto applauso mentale, liberatorio, e poi via, sotto il sole, in cerca d'aria e di volti. Due ore fa era mezzogiorno, ma dentro questo manicomio di polizia sembrava notte fonda. E il professor Zahn un fantasma in carne e ossa.