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L'uomo e la bontà

di Francesco Lamendola - 05/06/2007

Che cos'è quella caratteristica indefinibile che ci fa dire, talvolta, in presenza di una certa persona: - Questo sì che è un uomo buono! -, con la consapevolezza che si tratta, comunque, di un incontro raro e privilegiato? Non diciamo, infatti: "un buon uomo", ma "un uomo buono":, che è cosa assai diversa. L'espressione "un buon uomo" è quasi sinonimo di quella "un buon diavolo": e subito ci viene in mente una persona bonaria, cedevole, fin troppo disponibile verso tutti, e della quale tutti si approfittano spesso e volentieri. Ammiriamo questo genere di buoni uomini, ma non vorremmo essere al loro posto: si fanno imbrogliare troppo facilmente: o. quanto meno, si mostrano eccessivamente arrendevoli verso il prossimo, anche verso coloro che non lo meriterebbero; anche verso quanti meriterebbero una risposta ferma, una lezione di vivere civile. Vi è una punta di commiserazione nell'espressione "buon uomo", una punta di condiscendenza: lo guardiamo con simpatia ma anche, tutto sommato, un po' dall'alto in basso. Invece un uomo buono, quando abbiamo l'onore e la fortuna d'incontrarlo sul sentiero della vita, lo riconosciamo da un certo non so che che da lui si irradia come una forza interiore, una forza tranquilla e generosa che fluisce apparentemente senza sforzo dalle profondità del suo essere e rischiara con la sua luce la nube opaca che solitamente ci avvolge. L'uomo buono non ha nulla di molle, di troppo cedevole, di sempliciotto; a nessuno viene in mente di sfruttarlo o di approfittarsene: incute rispetto senza peraltro intimidirci, anzi accogliendoci con naturalezza nell'intimità della sua vita spirituale. Sentiamo, in qualche modo, chela sua bontà è fatta di forza e non di debolezza, che, all'occorrenza, sa anche dire no, ma senza ferire nessuno e mai per egoismo personale; avvertiamo che le sue azioni scaturiscono da una sorgente chiara e fresca di vita interiore, che gli permette di essere sempre fedele a sé stesso, fin nelle circostanze più delicate e difficili. Vorremmo, eccome, possedere almeno una parte della sua fiducia, del suo ottimismo, della sua serenità, della sua apertura; ci rendiamo conto che egli sta bene con se stesso - ma senza orgoglio - per aver vissuto in prima persona il grande segreto che è più dolce dare che ricevere, e che solo chi è disposto a rinunciare a tutto il suo egoismo può veramente ritrovare se stesso. Meravigliati, conquistati, davanti a lui ci domandiamo da dove gli vengano quelle risorse di equilibrio, di benevolenza, di magnanimità che lo rendono così diverso dagli altri, che ce lo fanno riconoscere come unico in mezzo a una folla. E intuiamo che la loro origine risiede in una totale disponibilità ad accogliere la chiamata, a mettersi a disposizione della sua voce interiore.

Diceva Raimon Panikkar, nel corso di una conversazione, che il segreto della serenità è la capacità di  lasciarsi andare, di non fare resistenza, di non aggrapparsi convulsamente alle cose. Ma lasciarsi andare a che cosa e verso che cosa? Lasciarsi andare al Tutto, alla legge cosmica che regola e armonizza i rapporti fra tutti gli enti; arrendersi alla forza dell'Amore. Verso che cosa?, non sta a noi domandarlo. Il grande fiume dell'Amore scorre con la forza della necessità: a noi è chiesto solamente di lasciarci portare dalla sua corrente: senza resistere, senza attaccarci insensatamente al nostro piccolo ego; senza lottare per cercar di affermare una piccola felicità egoistica, conquistata a spese di altri io e conservata con sofferenza ed invidia di coloro che abbiamo spinto nell'angolo a forza di gomiti.

L'uomo buono non è semplicemente un uomo che ha raggiunto l'equilibrio interiore. Esistono svariate tecniche per il raggiungimenti dell'equilibrio psico-fisico, alcune, di origine orientale 8come lo Yoga) sono di origini antichissime. Il buddhismo ci insegna a liberarci dalle tre emozioni distruttive, dai tre grandi veleni della mente: la rabbia, il desiderio e l'illusione. Anche la teoria dei tre guna, nell'induismo ortodosso, ci insegna a spezzare le catene del falso ego e a distaccarci tanto dall'ignoranza (tamas) che dalle passioni (rajas) per raggiungere l'equanimità e la pace perfetta. Persino la virtù (sattva) rischia di intrappolare la coscienza nel recinto dell'azione condizionata e dei pensieri condizionati. È scritto nella Bhagavad-Gita ((14, 9): "O discendente di Bharata [così parla il dio Krishna al nobile Arjuna], la virtù condiziona l'uomo alla felicità, la passione lo condiziona ai frutti dell'azione, e l'ignoranza, coprendo la conoscenza, lo vincola alla pazzia."

Se quanto si dice nella Bhagavad-Gita è vero, allora dobbiamo riconoscere che la stragrande maggioranza degli esseri umani sono vittime dell'accecamento dovuto all'ignoranza, cioè sono dei pazzi ovvero dei dormienti che credono di essere svegli, e da dormienti o da pazzi vivono tutta la loro vita: si trovano un lavoro, si sposano, mettono al mondo dei figli (in genere trasmettendo loro la stessa follia), litigano, brigano, si arrabattano, e infine muoiono. E poi v'è un numero consistente di persone dominate dalle passioni, che si aggirano nel i loro labirinti vorticosi come fiere dentro la gabbia; persone accecate dalle passioni, che non vedono la realtà come essa è, ma come appare - totalmente deformata - al loro sguardo stravolto. Da ultimo, ve ne sono poche che praticano attivamente la virtù: ma anche la virtù è una forma di condizionamento: il condizionamento alla felicità. Le persone virtuose non necessariamente sono persone buone. Si può essere virtuosi senza possedere quel calore umano, quella naturale benevolenza, quella generosità e quella disponibilità che ci mettono a nostro agio, che ci inducono ad aprirci con fiducia verso coloro che li hanno. Le persone virtuose sono appagate dalla propria virtù e in esse trovano la felicità: ma anche in loro vi è una forma di attaccamento, l'attaccamento versoi frutti della loro virtù.

Infine vi è una categoria veramente rara di persone, le persone buone e totalmente prive di attaccamento. La loro bontà nasce appunto dal fatto che non possiedono - o per vocazione innata, o per una faticosa conquista - alcuna forma di avidità verso l'esistenza. Sono persone leggere, non nel senso aereo e un po' libertino di cui parla Milan Kundera ne L'insostenibile leggerezza dell'essere, ma nel senso che si lasciano portare dalla forza armoniosa dell'ordine cosmico, che è Amore. Come il saggio taoista, non sono turbate dal sacro zelo di correggere le cose storte, non si ritengono strumenti dell'altrui salvezza e non ritengono di essere indispensabili. Sagge, aspettano che il flusso della vita dia loro modo di intervenire, con estrema delicatezza, quando se ne presenta loro l'occasione: ma senza riconcorrerle in maniera esasperata.

"Appena un tal essere, - scrive Peter Lippert ne L'uomo e la bontà, Milano, Ed. Vita e Pensiero, 1953, pp. 18-19) -  nel desiderio di espandere la sua bontà, esce da se stesso ed appena la sua bontà comincia a fluire in una data direzione, appena cioè il lago comincia il suo lento moto verso la valle, e la bontà si dirige in un dato senso, o di azione, o di preghiera, o di soccorso, la bontà acquista il nome di amore, cioè di carità (in tedesco i due termini coincidono), perché l'amore non è se non bontà definita, efficace ed operante. A sua volta questa boità diventa amore, possiede diversi radi di interno dinamismo, assume diversi toni; la sua intensità può essere non solo maggiore o minore, ma anche varia di sfumature e di risonanze. Di volta in volta che si protende ad aiutare i deboli e bisognosi, o che si inchina davanti ai ricchi ed ai potenti, per onorarli o seguirli, il suo aspetto muta; è altro dinnanzi alle remote ed inaccessibili forze naturali, altro ancora, più bello, più puro che mai, di fronte a chi, nella vita, è più vicino e caro all'anima nostra, verso il 'tu' dell'amico, el maestro, del figlio, dello sposo o della sposa.

"Allora la bontà sa esprimere solo il 'tu' amato: corre senz'altro ad esso senza più alcuna traccia dell'io, in tutta la sua pienezza lo raggiunge, lo investe e quando è penetrato completamente nell'altro essere, esulta di giubilo: - Guarda, ora tutto è 'tu'! Tutto porta solo il tuo nome! (Adalberto Garber).

"E allora canta con Rainer Maria Rilke: «Come devo tenere la mia anima perché non tocchi la tua?… Tutto quello che ci sfiora, te e me, ci unisce come fa l'arco d'un violino quando toccando due corde ne trae una nota sola». O inneggia per bocca di Ruth: «Il tuo popolo è il mio popolo, il tuo Dio, il mio Dio». O prega con San Paolo: «Non più io vivo, ma Cristo vive in me».

"Da ciò noi possiamo dedurre - ed è uno dei concetti più importanti che esistano - che vero amore è quello solo che dalla bontà deriva la sua prima origine ed i suoi motivi più profondi, in quanto l'amore non è che bontà applicata all'azione."

Quante volte ci siamo sentiti dire che questo o quel rivoluzionario, questo o quell'uomo di Stato amavano il popolo e per il popolo si sono interamente sacrificati! Per quel loro amore esigente, geloso ed egoistico hanno chiesto un pesantissimo risarcimento al supposto oggetto del loro amore, sotto forma di incalcolabili sofferenze, violenze e ingiustizie perpetrate in nome di una qualche idea buona e santa. No: nessuna idea è buona se non nasce dall'amore: l'albero - diceva Qualcuno - si riconosce dai frutti. Né l'albero buono potrà dare frutti cattivi, né l'albero cattivo frutti buoni. Le idee non sono portatrici di una verità oggettiva: la loro verità è la verità di coloro che le professano e che tentano di realizzarle nella realtà concreta. Un'idea grande e buona, predicata e realizzata da una persona virtuosa ma spietata e priva di amore, è una contraddizione in termini. Le idee camminano sulle gambe delle persone: non sono le idee a redimere il mondo, ma le persone che producono determinate idee e che coerentemente le perseguono.

Ci si può chiedere se la persona buona è buona per sempre; e fino a che punto la sua bontà possa irradiare un mondo così poco preparato a riceverla. Alla prima domanda risponderemo che l'uomo buono è un uomo realizzato, un uomo che ha raggiunto - o per virtù naturale, e dopo un lungo e difficile cammino - la rivelazione della Verità: e che dopo una tale esperienza non si può tornare indietro. Certo, vi possono essere delle cadute parziali, legate alla condizione naturale degli esseri umani immersi nel mondo; ma ciò non significa che la bontà possa mutarsi nel suo contrario. Ne consegue, comunque, che le persone buone sono veramente una merce rarissima: anche se, forse, sono più numerose di quanto si creda (perché non amano la ribalta e sono naturalmente riservate e modeste), si tratta pur sempre di individui assolutamente eccezionali. Forse, non si tratta neanche più di esseri umani, ma di creature che hanno realizzato - per altre vie - l'aspirazione dell'uber mensch di Friedrich Nietzsche: creature che hanno saputo realizzare qualche cosa che è al di là dell'uomo, tanto al di là di esso quanto la scimmia ne è al di qua. Il santo, ossia il tipo perfetto dell'uomo buono, è solo parzialmente una creatura terrestre. Egli si muove già in una dimensione parzialmente liberata dai condizionamenti terrestri, perfino in senso fisico; bilocazione, levitazione, chiaroveggenza dimostrano che il suo corpo si è in certa misura liberati dagli stessi vincoli della carne; e il suo spirito di libra molto in alto, dove la tempesta delle umane passioni e ambizioni giunge appena come un'eco lontana.

Per rispondere alla seconda domanda bisogna considerare che, se è vero che il mondo è più facilmente disposto ad accogliere il male che il bene, ciò non significa tuttavia che il male possieda una forza intrinseca superiore a quella del bene. Certo, abbiamo visto gruppi di persone e persino popoli interi correre verso il precipizio, per seguire qualche Pifferaio malvagio che li aveva letteralmente stregati; ma questo dimostra solo la debolezza della natura umana, la sua suggestionabilità, la sua tendenza gregaria. La bontà possiede una forza intrinseca molto superiore a quella della malvagità, sia perché proviene da una sorgente sublime - l'Amore - che la malvagità può tentare, al massimo, di contraffare, sia perché rifiutandosi di rispondere al male con il male è in grado di disarmarla e di umiliarne i disegni. Bisogna anche riflettere che, se la maggior parte degli esseri umani sono accecati dall'ignoranza o sconvolti dalle passioni, non sono però fondamentalmente cattivi; e che se il Male esercita una sorta di fascino sinistro (quale studente non ha amato più l'Inferno di Dante Alighieri che non il suo Paradiso?), i suoi successi sono parziali ed effimeri - s'intende, su scala cosmica. Non bisogna sottovalutare la forza del Bene, solo perché gli effetti del male sono più spettacolari. Si dice che la storia umana è fatta assai più dai malvagi che dai buoni; ma forse si dice una cosa inesatta. I malvagi possiedono, talvolta,  un perverso potere di seduzione; ma i buoni sono in grado di esercitare un influsso benefico che dura molto più a lungo. L'opera nefasta di certi sinistri personaggi storici è stata devastante, ma quasi mai è durata più di qualche anno; l'esempio dei santi e delle grandi anime ha investito il mondo per secoli e millenni. Buddha, Cristo, San Francesco, Gandhi hanno seminato in profondità e la loro opera è ancor viva e fruttifera; i tiranni crudeli, anche quando si mascheravano dietro nobili parole e alti ideali, sono stati maledetti e sepolti per sempre.

Il grande problema della modernità è che, per la prima volta nella storia, i mezzi tecnici dello 'sviluppo' hanno finito per divenire fini a se stessi e che tutti i valori morali sono stati stravolti e sottomessi all'ideologia utilitaristica. L'efficacia di un'azione (Machiavelli docet) diviene più importante della sua verità, della sua giustizia, della sua eticità; e, in questo stravolgimento di valori, per la prima volta nella storia il Bene viene messo in discussione quale fine supremo dell'agire umano, quando non viene addirittura respinto, ridicolizzato e denigrato in mille  modi. Ciò avviene in conseguenza dell'affermarsi dell'idea che il Bene, come realtà ontologica, non esiste; che il mondo è frutto del caso, che a caso gli esseri nascono e muoiono; e che nulla ha un senso, nulla merita la nostra attenzione se non il piacere personale (edonismo) e la manipolazione dell'altro a nostro esclusivo vantaggio (utilitarismo). Questo nichilismo imperante fa sì che il Male acquisti una posizione di vantaggio che, in passato, non aveva mai posseduto in tale misura. Mai, nel passato, si era assistito a una simile dissoluzione dell'orizzonte di senso della coscienza; mai la persona umana era stata trascinata così in basso, nel fango di una visione cruenta e disperata della vita. La formula del filosofo inglese Thomas Hobbes, homo homini lupus (l'uomo è come un lupo per ogni suo simile) sintetizza bene questo pervertimento dell'orizzonte di senso portato dall'avvento della modernità, con la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo. In lugo dell'ordine, il caos; in luogo dell'armonia, la lotta di tutti contro tutti; in luogo della ricerca del Vero, del Buono e del Bello, l'esaltazione della potenza e dell'ambizione sfrenata. E il mondo è diventato una nave di folli, dove si applaudono i tristi apologeti del caos e della potenza e si deridono e si scacciano i profeti della giustizia e dell'amore. Intendiamoci, questo era già avvenuto in ogni epoca storica; mai, però, era stato eretto a paradigma ufficiale, a verità 'scientifica'.

In tale contesto, la presenza dell'uomo buono è ancor più preziosa e necessaria. A lui guardiamo come l'equipaggio spaventato a morte dalla tempesta guarda all'esperto ed intrepido capitano della nave; in lui riponiamo ogni speranza di salvezza. Non già perché cerchiamo un nuovo vitello d'oro da adorare, ma perché la maggior parte di noi non è in grado di intraprendere il cammino verso l'Amore in maniera diretta, bensì mediante l'esempio trascinante di qualche essere umano, di qualche nostri compagno di strada che si sia avvicinato alla meta percorrendo la stessa via assolata e polverosa, soffrendo la nostra stessa sete e la nostra medesima stanchezza. La maggior parte di noi ha bisogno di vedere con i propri occhi che l'Amore può illuminare le nostre vite attraverso l'esempio concreto di qualcuno che sa riuscito a realizzare una tale, alchemica trasformazione del metallo vile in oro.

Una conclusione consolante di quanto abbiamo fin qui detto è che la bontà si può conquistate passo passo, o almeno è possibile avvicinarsi, con una pratica quotidiana che parta dalle piccole cose e vi si applichi con costanza e con lealtà. Alcuni rari fortunati ricevono, fin dalla nascita, una vocazione alla bontà (nel senso della psicologia di James Hillmann, secondo il quale noi siamo chiamati alla vita da una forza che ci spinge verso quel particolare destino), di solito favorita dall'ambiente familiare o da qualche altra circostanza ereditaria o ambientale. Gli altri, invece, vi pervengono con pazienza e con tenacia, cercando la forza di rialzarsi dopo caduta in qualcosa che sta al di sopra di loro, in una fonte misteriosa e inesauribile di bene che non dipende dalla loro semplice volontà. In altre parole, si abbandonano a qualcosa che è al di là dell'umano. Si noti che la stessa cosa può avvenire all'estremo opposto della scala morale, da parte di coloro che si affidano deliberatamente alle forze del male per averne forza, potenza e successo. ma vi è una differenza tra le due forme di abbandono: nel primo caso l'essere umano cerca il suo naturale completamento in quell'Amore dal quale egli deriva e del quale è, per così dire, una espressione frammentaria; nel secondo caso egli distorce scientemente i fini del progetto cosmico di cui fa parte, per servire quelle forze che tentano di ostacolarlo i ogni modo. Ci si può abbandonare nelle braccia amorevoli del genitore oppure in quelle crudeli di un sadico pervertito: dipende dal percorso spirituale che si è fatto, dalla chiarezza della nostra visione interiore. Il masochista preferirà il secondo tipo di abbandono: egli si vuole troppo poco bene per poter sperare in un'altra forma di relazione col 'tu' e spingerà la sua degradazione a implorare di essere battuto sempre più forte, ringraziando poi il suo spietato carnefice. La persona consapevole della propria dignità, del proprio posto nel mondo, della sua preziosità in quanto essere spirituale unico e irripetibile, non vorrà abbandonarsi se non nel grembo dell'Amore.

Ora, per essere persone consapevoli della propria dignità e della propria natura spirituale bisogna disintossicarsi ai veleni di una società impazzita che ha capovolto ogni sana prospettiva morale e reimparare a guardare in alto. Parafrasando (e rovesciando) il celebre motto di Nietzsche, possiamo dire che per troppo tempo ci siamo abituati a guardare in basso, nel fango; ora è tempo che alziamo gli occhi. L'uomo diviene quello che pensa di essere: se pensa di essere un demonio, diverrà un demonio; se pensa di essere un lupo, diverrà un lupo; se un maiale, un maiale. Occorre che l'uomo riconquisti la forza di voler divenire qualche cosa di più alto del suo piccolo ego, del suo ego infantile e viziato che dice sempre: me, me, me. Occorre che ricominci a dire tu. A quel punto si accorgerà di avere a disposizione un palazzo bellissimo e pieno di sole, e si stancherà di rimanersene acquattato nella buia cantina. Si accorgerà di avere a disposizione un paio di ali per volare, e gli verrà il desiderio di spiccare il volo. Si staccherà dalla terra, non maledicendola ma anzi con profonda gratitudine per tutto quel che da essa ha ricevuto; ma poi si lancerà in volo. Come il nidiaceo che, divenuto capace di lanciarsi nell'aria, si stacca dal suo comodo rifugio fra i rami dell'albero per affrontare la grande avventura nell'azzurro infinito del cielo: perché quella è la sua natura.

Anche la natura dell'uomo è di prepararsi alla grande avventura. Deve solo ricordarsi che la pozzanghera in cui sguazza non è il suo ultimo destino, ma che liberi orizzonti lo attendono e lo chiamano, fin da prima che egli venisse al mondo.