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Libri che fanno pensare: La tortura (recensione)

di Marco Managò - 05/06/2007



L’obiettivo del presente volume, edito da Xenia Edizioni, è quello di far conoscere le motivazioni alla base di ogni forma di tortura e le varie tipologie utilizzate, frutto della diabolica inventiva umana. L’autrice riassume le origini intorno alla manifesta volontà di mortificare il corpo, questo involucro materiale e difettoso, simbolo della libertà individuale, al fine di purificarlo e condurre la relativa anima alla salvezza.
Lo sviluppo delle varie forme di tortura trova diversa applicazione nelle popolazioni antiche: sconosciuta a indiani e babilonesi è, invece, applicata da ebrei, egiziani e romani. La Grecia antica prevedeva la tortura solo per reati gravi e la eseguiva in particolar modo nei territori colonici.
La flagellazione, inserimento del capo in un macchinario di legno, seguita da percosse e frustate con strumenti di varia natura, era la terribile tortura applicata dai romani, i quali lasciavano arbitrio ai fustigatori riguardo il numero dei colpi, raccomandandosi di non uccidere il condannato. La flagellazione precedeva la pena capitale ma non ne costituiva un surrogato.
Cristo sarebbe l’esempio più celebre, le numerose percosse subite (la sindone ne conta quasi cento) sembrano averlo avviato in gravi condizioni alla croce, per una rapida agonia, a differenza delle altre vittime per le quali s’intervenne diversamente.
Il numero dei colpi da infliggere, e il tipo di materiale da usare, erano diversi a seconda della condizione sociale del condannato: più severi con gli schiavi, meno con i soldati e ancor di meno con uomini liberi e di censo elevato. Per i romani era una punizione dichiaratamente infamante e, solo l’indiretta estensione del diritto di essere cittadini romani (e quindi esenti dalle percosse) ai sudditi delle colonie, da parte di Caracalla, permise l’estinguersi della pratica.
Tra le popolazioni antiche, contrariamente a quanto l’opinione corrente possa indurre a pensare, le popolazioni barbariche discese nella penisola non praticavano forme di tortura, in rispetto al grande senso di libertà che riconoscevano alla persona, dinanzi alla quale anche lo Stato doveva moderare il proprio raggio d’intervento. Si riconoscevano solo l’ordalia e rari casi di tortura per reati commessi da schiavi.
L’ordalia, l’affidamento del sospettato al giudizio di Dio e per questo infallibile, consisteva nel superamento di determinate prove, spesso con gli elementi della natura: acqua e fuoco.
Tra il XII e il XIII secolo, con la fine del sistema feudale si assiste a una sorta di “rinascimento giudiziario”, riassunto così dall’autrice << La giustizia non è più amministrata dai singoli signori feudali, all’interno dei loro castelli, ma diviene cosa pubblica, lo Stato riprende in mano l’amministrazione della giustizia e “riscopre” l’istituto della tortura, grazie alla rinascita degli studi di diritto romano. >>
Da notare anche la posizione della Chiesa, in precedenza clemente verso la tortura, considerata un male necessario per la verità, poi, al nascere di eresie e nuovi predicatori, decisa verso l’Inquisizione e i roghi delle streghe.
La perfidia dei torturatori iniziava con preliminari visite mediche, volte ad accertare il grado di vessazioni fisiche alle quali il malcapitato poteva esser sottoposto. La fase preparatoria prevedeva anche la cosiddetta “territio”, in cui si prospettavano le successive dolenze e le torture da utilizzare, sino a ricevere la confessione dal condannato scioltosi dinanzi al terrore paventato.
La tortura produceva una sorta di spettacolo, orrendo a vedersi, eppure stuzzicava la morbosità delle masse, pronte ad accorrere in caso di pubbliche penitenze e ad adoperarsi per dileggiare chi subiva la gogna, chi, ossia, era legato a due tavole di legno, per reati minori.
I sistemi di vessazione corporale escogitati dall’uomo furono di diversa natura e alcuni estremamente raccapriccianti: dalla corda che sosteneva in aria il malcapitato e lo faceva cadere a comando, alla bruciatura dei piedi, alla torsione forzata di braccia, gambe e caviglie, all’inserimento di piccoli animali od oggetti nel corpo. Una forma diversa, meno crudele e condannabile, fu quella della veglia (ancora oggi, come giustamente puntualizza l’autrice, applicata in alcune carceri), consistente nel non far dormire l’imputato per decine di ore.
Difficile, per i condannati, sopportare le torture, anche in presenza di corporature robuste, spesso addestrate a provare resistenza in previsione di future punizioni. Occorreva resistere per evitare la probabile condanna a morte per confessione; in alcuni casi si svelava salvo non ratificare successivamente e rallentare i tempi dilatandoli all’infinito, sino all’assoluzione per mancanza di prove. Il giudice, infatti, per procedere alla tortura, necessitava della piena ratificazione del reo.
Alcune categorie erano esentate dalla tortura, in particolare i bambini al di sotto dei 7/9 anni, condannabili soltanto alla territio, gli anziani oltre i sessant’anni, i malati, i disabili, le donne incinte, sino al parto o a quaranta giorni dopo. Da notare come le streghe fossero arse insieme al feto che portavano in grembo, perché anche questo considerato espressione del demonio in un tutt’uno con la madre.
Maggiori attenzioni per gli ecclesiastici, sottoposti soltanto a pene minori e comunque esercitate non da torturatori laici.
Interessante la riflessione che l’autrice pone riguardo alla figura del capro espiatorio: l’individuo o la razza considerati come qualcosa di estraneo alla comunità e per questo oggetto di punizione, per autodifesa e successiva purificazione collettiva. E’ il caso di riportare per intero alcune attuali (ed eterne) dichiarazioni << Contro questa folla (quella estranea ndr) si erge un’altra folla, quella che sta dalla parte delle istituzioni, applaude ai roghi e deposita nelle chiese le denunce anonime, quella che si lascia guidare dalla propaganda, un magma logicamente incoerente, irrazionale, incapace di critica propria, suggestionata. Questa seconda folla, non meno vittima della prima, ha bisogno di un capo: il predicatore, l’inquisitore... >>
La Chiesa, dopo, i primi secoli di vita, nei quali avversò le eresie con provvedimenti non violenti, tra i quali la scomunica, iniziò, sulla scorta delle repressioni cattoliche della Spagna e del relativo tribunale dell’Inquisizione, una severa inibizione, soprattutto a metà del 1500, in seguito alle dichiarazioni luterane e calviniste.
Spicca la rigorosa e burocratica organizzazione dell’Inquisizione italiana, con tanto di Inquisitore generale nominato dal Papa, e altrettanti inquisitori periferici, all’opera nei vari distretti.
Si tenta, attualmente, di ridimensionare, da parte di alcuni studiosi, la quantità delle repressioni inquisitorie: in tale revisione, comunque, va colta una parziale clemenza ecclesiastica dell’epoca, condizionata dal non rovinare la propria immagine pubblica. La repressione fu alquanto dura, sia attraverso abiure e multe, sia tramite torture e condanne alla pena capitale. Tutte le forme di devianza sociale, le sospette minoranze, furono oggetto di particolari attenzioni, anche gli editori dei libri condannati e, ovviamente, i lettori.
Per completare l’opera la Chiesa si avvalse anche dello Stato e delle sue strutture, in quanto il comportamento deviante era pericoloso per l’intera comunità. Precisa l’autrice << L’istituzionalizzazione dell’intolleranza fa di ogni oppositore e di ogni deviante un criminale. Questo modo di agire è racchiuso nel sintagma “consenso o repressione”. >>
Ulteriore inasprimento dogmatico e procedurale si ebbe con il Concilio di Trento, la Controriforma che individua nel libero pensiero il pericolo maggiore per la diffusione delle eresie.
Scrive la Rangoni << Il periodo post tridentino, oltre a proibire balli, feste, canti, carnevali, usanze paganeggianti, aveva chiuso in ferree e minuziose regole la morale e il costume. >>
Per secoli la localizzazione del male e del peccato coincidono con il corpo umano, questo involucro imperfetto, vulnerabile e caduco, in cui l’attività demoniaca sembra prevalere sulla purezza dell’anima. Autoflagellazioni e mortificazioni della carne consentono di recuperare la spiritualità compromessa e, di conseguenza, sono pratiche lungamente caldeggiate. << La principale caratteristica di queste mistiche è una sorta di purgatio continua... >> si legge a pag. 77.
Proliferavano numerosi manuali di autoflagellazione con l’obiettivo di ricondurre il corpo umano alla sofferenza patita da Gesù.
Il corpo femminile, in particolare, si considerava come l’invito alla tentazione, al peccato; la misoginia che accompagnò il sesso femminile nei secoli, si fondò sul disprezzo più assoluto, frutto di una radicata e presunta superiorità maschile. Illustri pensatori, tra i quali Aristotele, considerarono la donna come l’espressione imperfetta dell’uomo.
La presenza di Satana nel corpo femminile si localizzava in un cosiddetto “bollo”, consistente in una qualsiasi macchia sulla pelle, la cui frenetica ricerca dominava la spasmodica attività degli inquisitori.
<< Per questo il corpo dev’essere umiliato, aperto, scoperto, indagato, mutilato, torturato, bruciato, separato dall’anima. >> scrive ancora la Rangoni.
Occorre ricordare come, spesso, la colpa da punire non sia arginata al solo atto peccaminoso compiuto, quanto all’intenzione di volerlo commettere.
Il volume prosegue attraverso una minuziosa e interessante panoramica sulle raccomandazioni, nonché i dettami previsti dai vari codici e manuali, per procedere alle pratiche inquisitorie e repressive. In essa si nota la preventiva detenzione per ottener informazioni senza procedere a condanne, nonché le accortezze per evitare che le streghe potessero riservare brutte sorprese e ammaliare giudici e torturatori. Da notare anche quanto l’aspetto psicologico, pressato da continue minacce, potesse determinare atteggiamenti inaspettati: messe alla prova per il pianto, le presunte streghe non riuscivano davvero a far fuoriuscire lacrime e quindi erano considerate a tutti gli effetti espressione del demonio.
L’inizio del procedimento si basava sulla nomea che il futuro imputato possedeva nella comunità; in mancanza di questo indizio era necessaria, pena punizioni severissime, la denuncia. La relazione di coloro che denunciavano, doveva esser accompagnata da giuramento sul Vangelo, al fine di procedere sicuri verso l’interrogatorio; formale e ristretto all’affermazione o alla negazione, mai alla spiegazione, quasi fosse una rituale e burocratica anteprima di un qualcosa già scritto. Quasi fosse una semplice confessione per un reato già ascritto.
Le atrocità commesse in seguito a tutte le forme di tortura subirono l’aspra condanna delle opere di Cesare Beccaria, di Montesquieu e di Verri che, in più, ne denunciarono anche l’aspetto iniquo dal punto di vista della punizione, in quanto poteva generare confessioni incontrollate nonché far capitolare veri e propri innocenti e, viceversa, salvare i rei capaci di sopportare il dolore fisico. A metà del 1700 iniziò una graduale abolizione della tortura che, dagli stati centrali europei, arrivò sino alla nostra penisola.
Al presente volume aggiungerei un’appendice storica, in quanto se le convenzioni nazionali e internazionali (di Ginevra) ratificano la condanna e il divieto della tortura, essa non è cessata, né durante gli anni bellici, né durante i dopoguerra.
Le moderne “Abu Ghreib” e “Guantanamo”, o le fotografie, inavvertitamente concesse ai media, delle bravate dei militi esportatori di democrazia, testimoniano quanto la tortura sia praticata e funzionale al potere; ipocritamente condannata, soprattutto quella “retrograda” dell’Inquisizione, ne costituisce, invece, l’infame sviluppo nella civiltà dell’uomo moderno.