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La tragica epopea della guerra civile

di Mario Cervi - 05/06/2007

 

Clicca per ingrandire I due bellissimi testi che corredano questo volume della Storia d’Italia - il primo dovuto a Valerio Castronovo, il secondo al grande Renzo De Felice - illustrano le diverse realtà dell’Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Nel sud, occupato dalle truppe angloamericane, imperversavano le umiliazioni e le abbiezioni della povertà, del servilismo, della viltà, della prostituzione, del brigantaggio. «Un abisso di degradazione», scrive Castronovo, e non fatica a documentare il concetto con precisi riferimenti. Nel nord occupato dalle truppe tedesche era stata creata e stentatamente viveva, da loro protetta, la Repubblica di Salò: un fantasma di Stato a capo del quale fu posto il fantasma di Benito Mussolini. L’uomo disfatto, terreo, privo d’autorità e privo di volontà che nel suo rifugio lacustre finse di governare mezza Italia mentre governava il nulla, era una replica spenta e patetica del dittatore che per vent’anni aveva soggiogato gli italiani.
L’insistenza di Castronovo sugli aspetti più miserevoli della vita e della malavita che quelle popolazioni soffrivano serve almeno da antidoto a una certa retorica nazionale secondo la quale saremmo stati, nella seconda guerra mondiale, dei quasi vincitori. «Bambini sporchi, simili a piccoli insetti, tirando su col naso coperto di mosche, accerchiavano ciascuno di noi per avere una galletta o un cioccolato...». Così scriveva lo scrittore John Steinbeck, e bastano quelle poche notazioni per ricondurre l’Italia badogliana alle sue dimensioni di Paese non solo sconfitto, ma indecente sia nell’interpretare la sconfitta sia nel volerla travestire da vittoria. Fu quella del sud l’Italia degli sciuscià, delle segnorine, delle marocchinate. Fu anche teatro d’una guerra combattuta da comandi angloamericani strapotenti e spesso incompetenti, così che l’abbazia di Montecassino fu distrutta in base a una falsa informazione e in base a una falsa informazione fu fatto scempio di bambini nella scuola di Gorla, a Milano.
Là dove comandavano i tedeschi venivano perpetrate, per una logica di rappresaglia che era logica di barbarie, stragi spaventose. Alcune, come quella delle Fosse Ardeatine, scatenate da attentati che non avevano alcuna utilità militare, che non accelerarono d’un giorno l’ormai imminente ingresso in Roma degli alleati, che portarono all’uccisione di centinaia d’innocenti. In questo inferno di sangue e di morte, la larva mussoliniana si muoveva ripetendo stancamente atteggiamenti d’un passato cronologicamente vicino, ma che appariva remotissimo. Il Duce non volle ma subì la condanna a morte dei «traditori» del Gran Consiglio, tra cui suo genero, non volle ma subì le carneficine attuate dai tedeschi o da reparti «repubblichini». Delle qualità d’un tempo, ne restava a Mussolini una sola, la capacità giornalistica. La sua Storia di un anno , ossia gli articoli pubblicati dal Corriere della Sera in cui raccontò il colpo di Stato del 25 luglio 1943, è un esempio d’efficacia cronistica.
De Felice, di sicuro non un nostalgico del fascismo, è molto netto nello spiegare le ragioni che indussero Mussolini ad addossarsi una responsabilità dalla quale non potevano derivargli altro che guai. Hitler aveva minacciato: «L’Italia settentrionale dovrà invidiare la sorte della Polonia se voi non accettate di ridare valore all’alleanza tra la Germania e l’Italia mettendovi a capo dello Stato e del governo». Conclude De Felice: «Mussolini si piegherà dunque all’aut aut di Hitler per motivazioni eminentemente patriottiche, accettando il progetto presentatogli dal Führer come un sacrificio per la difesa dell’Italia». Per Mussolini, come per Pétain, si scontra la tesi di chi li vuole biechi collaborazionisti con quella di chi li vuole immolati al bene della Patria. Resta il fatto che Pétain non dichiarò guerra e non la perse. Mussolini lo fece piombando il suo Paese nella sofferenza e nella tragedia.