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Uso sociale della forza, ed estetica della violenza.

di Carlo Gambescia - 05/06/2007

 

Che cos’ è la forza? Che cos’ è la violenza?
In primo luogo sono due naturali componenti dei processi sociali. Spesso le società nascono da atti di violenza fisica, in seguiti mitizzati ( si pensi al mito fratricida della fondazione di Roma), e si mantengono nel tempo attraverso un uso accorto della forza fisica (si pensi alla repressione dei vari moti sociali ma anche della criminalità comune).
In secondo luogo, va fatta una distinzione analitica tra forza e violenza. La forza, può essere messa al servizio dei deboli e socialmente regolata, la violenza invece implica un fattore di incontrollabilità. Il che significa che la forza, oltre un certo limite, può trasformarsi in violenza. Divenire perciò distruttiva. Ad esempio, nelle fasi prerivoluzionarie, la forza di istituzioni, ormai prive di legittimità giuridica e sociale, tende a trasformarsi in violenza, alla quale nella successiva fase rivoluzionaria, si oppone la violenza, spesso feroce delle folle rivoluzionarie. Dopo di che, una volta stabilizzatasi la situazione, e conquistato il potere e acquisito il consenso sociale, la violenza incontrollata del potere allo stato nascente, si trasforma, di nuovo in tranquilla forza istituzionale di pace di ordine civile.
In terzo luogo, quel che va sempre respinto sul piano intellettuale è l’estetica della violenza. Che cosa vogliamo dire? Che asserire la “bellezza”, dal punto di vista di una improbabile estetica dei valori morali, del sacrificio del kamikaze islamico, è molto pericoloso. Innanzitutto, perché si mostra di non conoscere i processi sociali, quell’alternarsi di violenza e forza, sopra accennato: di regola, coloro che condividono la causa di quel kamikaze, una volta giunti al potere, impediranno, attraverso l’uso istituzionale della forza, che altri kamikaze, di segno opposto, possano rivolgere la propria carica di violenza, prima “esteticamente bella", contro il “nuovo” ordine costituito. Inoltre, decantando le “virtù eroiche” del kamikaze, si fornisce un modello di vita, fondato, non tanto sul coraggio, quanto sulla temerarietà: il coraggio è frutto di un’energia fisica, che spinge razionalmente l’uomo ad affrontare il pericolo, valutandone le conseguenze dirette e indirette; la temerarietà è invece esito di un improvviso quanto labile surplus di energia fisica, che spinge irrazionalmente l’uomo a sfidare il pericolo, ignorando, in modo imprudente, le conseguenze dirette e indirette del suo gesto. Di più: la celebrazione del kamikaze, finisce inevitabilmente per privilegiare l’uso, non della forza, ma della violenza incontrollata. Ossia dell’inclinazione antisociale, presente in tutti gli uomini, a obbligare l'Altro a compiere qualcosa, attraverso l’ uso spropositato della costrizione fisica. Che cosa ci sia di moralmente elevato e bello nel fare soffrire le persone è tutto da discutere…
Che poi alcuni sostengano, che al grigio mondo di oggi, ci si può opporre solo con la violenza sacrificale per la causa “giusta”, indicando come esempi presi alla rinfusa, il kamikaze islamico, il nazionalsocialista, l’ebreo, l’immigrato, significa, purtroppo una cosa sola: che non si è compresa bene la distinzione tra forza istituzionale e violenza anti-istituzionale. E, soprattutto, che si assimila, concettualmente, lo status sociale del perseguitato a quello del persecutore… Il che può essere "sorelianamente" accettabile sul piano della lotta politica, ma non sul quello "paretiano", dell’analisi oggettiva dei fenomeni sociali. Inoltre, insistere sull’estetica della bella morte per la “giusta causa” e della violenza armata come “igiene del mondo” può solo innescare altra feroce violenza armata … E la logica “del tanto peggio tanto meglio” è nichilista. Cioè, alla stessa stregua del nichilismo storico, quello russo di fine Ottocento, tende, come per forza di gravità ideologica, alla soppressione violenta di ogni struttura politica. Il che non ha alcun fondamento storico e sociologico.
Oggi, il compito principale degli intellettuali, non è quello di riproporre “miti fratricidi" di fondazione, allo scopo di far nascere improbabili società eroiche, ma di opporsi al “grigiore” del nostro tempo, impugnando la sola spada della ragione e dell’analisi metapolitica oggettiva. Lasciando agli uomini di azione, se e quando verranno, il compito di raccogliere idee, analisi e sfide concrete.
Guai a quell’intellettuale che sogni di tramutarsi in esteta armato… Perché rischia di trasformarsi in una terribile minaccia per se stesso e per gli altri.