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L'Impero al capolinea

di Roberto Zavaglia - 05/06/2007

Sembra che i due, alla fine, non abbiano

concluso molto, ma l’incontro di

lunedì scorso a Baghdad tra l’ambasciatore

statunitense, Ryan Crocker, e quello

iraniano, Hassan Kazemi Qomi, rimane

un fatto storico e dà la misura delle difficoltà

USA in Iraq. Si tratta del primo colloquio

ufficiale tra rappresentanti dei due Stati

dopo la rottura delle relazioni diplomatiche

nel 1980. È significativo che questo ancora

assai parziale disgelo avvenga nel momento

in cui gli attacchi di Washington contro la

politica della Repubblica Islamica sono talmente

duri, per la questione nucleare e per

altro, da far temere un’escalation militare.

L’incontro costituisce una retromarcia dell’Amministrazione

statunitense che aveva

bocciato il piano Baker-Hamilton nel quale,

tra i punti principali, si consigliava al Presidente

il coinvolgimento dei “nemici” Iran

e Siria nelle trattative per la pacificazione

dell’Iraq. La risposta di Bush è stato il

“surge” (ondata) che consiste nell’invio di

altri 21.500 soldati al fine di battere la

guerriglia e smantellare le milizie settarie

impegnate nel sanguinoso conflitto civile.

Per gli USA le cose devono andare davvero

male se, quasi subito, sono costretti a cambiare,

almeno in parte, la loro strategia. È

da un po’ che si dice che gli Stati Uniti non

possono vincere la guerra, ma forse è venuto

il momento di constatare come la stiano

addirittura perdendo. Nei manuali di contro-

insurrezione è scritto che una guerriglia

non sconfitta definitivamente è, di fatto, vincente

e la guerriglia irachena, dopo oltre

quattro anni di guerra, è ben lungi dall’essere

battuta, come dimostrano gli oltre cento

attacchi quotidiani contro le forze di

occupazione che in nessuna parte del Paese

possono sentirsi veramente al sicuro. Il dato

straordinario è che di questa guerriglia, differentemente

da altri contesti storici e geografici,

non sappiamo nemmeno se possieda

un coordinamento unitario né di quanti

effettivi disponga. Il più grande esercito del

mondo sta soccombendo contro nemici che,

lo si evince dalla natura degli scontri a fuoco,

non hanno armi sofisticate e non dispongono

di grandi finanziamenti provenienti

da una potenza straniera.

Anche la parallela guerra civile tra sciiti e

sunniti è un grosso problema per gli USA.

Gli occupanti appoggiano il Governo collaborazionista

di Maliki che è fortemente sbilanciato

a favore degli sciiti ed è sostenuto

anche dai politici cui le milizie di quella

confessione fanno riferimento. Come ha

scritto James Fearon, nel saggio di apertura

dell’ultimo numero di Foreign Affairs, gli

statunitensi rischiano di essere coinvolti

nella pulizia etnica contro i sunniti, dalla

quale potrebbe nascere un Iraq autoritario

e completamente nelle mani degli sciiti. La

beffa è che questa situazione andrebbe a

tutto vantaggio dell’Iran

e inimicherebbe a Washington

gli Stati a maggioranza

sunnita. Se il prossimo Presidente

non troverà una via di

uscita decente, gli USA

rischiano una sconfitta con

conseguenze peggiori di quella

patita in Vietnam. Ai tempi del

bipolarismo, la perdita di prestigio

causata dalla disfatta

non poté provocare alcun

allontanamento dei Paesi

appartenenti al campo occidentale,

mentre oggi, in un

contesto più libero e caratterizzato

dalla crescita di ambiziose

potenze regionali, le alleanze

stabilite potrebbero entrare

in tensione.

L’immagine dell’America che

Bush porterà in Italia il 9 giugno,

sia che il sempre più

patetico Bertinotti decida di

stringergli o meno la mano, è

incrinata. Il piano della National

Security Strategy dell’autunno

2002, elaborato come

risposta agli attentati dell’11

settembre, è fallito nei due

suoi principali elementi: la

guerra preventiva per mettere

a tacere i Paesi dissidenti e l’esportazione

della democrazia

per creare, soprattutto in

Medio Oriente, regimi allineati

sulle posizioni di Washington.

L’unica superpotenza rimasta

ha molte gatte da pelare non

solo nel mondo islamico. In

America Latina i Paesi non più

disposti a piegare la testa di

fronte ai diktat del grande vicino

del Nord incominciano a

essere molti, mentre si elaborano

progetti di confederazione

macroregionale diversi da

quelli proposti dagli USA. In

Bielorussia e, in una certa

misura, anche in Ucraina sono

andati male i piani di “regime

change” destinati a promuovere

Governi “amici” degli Stati

Uniti i quali hanno dovuto

arretrare anche nell’ex Asia

centrale sovietica, dove si erano

installati grazie all’attacco

contro l’Afghanistan, come è

testimoniato dalla decisione

dell’Uzbekistan di smantellare

la locale base USA. Su Putin

si possono dare giudizi diversi,

ma è innegabile che la Russia,

con lui, sia tornata ad essere

uno Stato assertivo che intende

giocare una partita in proprio,

grazie anche alle sua immense

risorse energetiche.

L’enorme debito internazionale

degli USA fa sì che il tasso

di cambio del dollaro dipenda

dalle scelte di banche centrali

straniere, fra le quali il peso di

quella cinese è preponderante.

Il dollaro è ancora moneta di

riserva perché le materie prime,

soprattutto l’energia, si

comprano in quella divisa, ma

alcuni Paesi produttori di

petrolio sembrano interessati a

venderlo, in futuro, anche in

euro e con un paniere di monete

diverse. Se ciò avvenisse, il

biglietto verde sarebbe soggetto

a una forte svalutazione e

perderebbe la posizione di

assoluto dominio sul sistema

monetario internazionale.

Sul piano geopolitico, la situazione

migliore per Washington

è quella europea, grazie anche

alle divisioni e alla mancanza

di ambizioni della Ue. I risultati

elettorali in Germania e

Francia sembrano avere consentito

la nascita governi

attenti alle esigenze di oltre

Atlantico, anche se è ancora

presto per dare un giudizio

sulla politica estera di Merkel

e Sarkozy. Nonostante tutto,

unicamente agli Stati Uniti

calza la definizione di superpotenza,

perché sono i soli ad

avere interessi e influenza in

tutto il globo. L’esercito statunitense,

a differenza di tutti gli

altri, può, in breve tempo,

proiettare le sue forze in qualsiasi

luogo del mondo, ma la

lezione irachena e quella

afghana hanno dimostrato che

ciò non è sempre sufficiente

per consolidare l’egemonia.

Gli Stati Uniti rimangono la

nazione della quale tutte le

altre devono tenere conto nelle

proprie strategie, ma il sogno

di fondare un impero, sia pure

con caratteristiche inedite, si è,

speriamo definitivamente,

insabbiato.