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Intorno a Ragazza con paesaggio

di Claudio Ughetto - 07/06/2007

     
    

Ragazza con paesaggio, quarto libro di Jonathan Lethem, è del 1998 e segue il dickiano-chandleriano “Musica per archi e canguro”, l'apocalittico “Amnesia Moon”, il delilliano “Oggetto amoroso non identificato” e i racconti di “L'inferno comincia nel giardino”. In Italia è stato pubblicato nel 2006, dopo l'ardua traduzione di “Motherless Brooklyn” (del 1999) e in seguito all'uscita del monumentale “La fortezza della solitudine” del 2004, nel quale lo scrittore newyorchese crea il suo personale Once upon a time in America attingendo dai propri ricordi di ragazzino bianco cresciuto a Brooklyn negli anni 70 dello scorso secolo, nel quartiere nero di Gowanus, in un magistrale caleidoscopio di realismo e invenzione in cui l'immaginario fumettistico e musicale, la controcultura, i conflitti e le riconciliazioni di un'America brutale trasportano una miriade di personaggi, tutti colti all'apice di poesia e verità, fino alle soglie del nuovo millennio.
All'interno della vitale letteratura americana, Lethem si presenta come un'eccezione che in troppi vorrebbero classificare. Ogni suo romanzo potrebbe idealmente essere ingabbiato in un genere, dalla fantascienza al noir. E in questo egli assomiglia all'amato Stanley Kubrick, poi messo in discussione in quanto offriva “immagini la cui superficie era immune dal caos”[1] che da ogni lato circondava l'allora aspirante scrittore. Dichiaratamente influenzato da autori come Kafka, Cortazar, Borges, Calvino e Don DeLillo, per lungo tempo attratto da opere cui chiedeva di “dimostrarsi migliori della vita e in grado di redimerla”[2], Lethem non nasconde d'essere stato un ragazzo appassionato di fumetti e fantascienza, di amare anche gli iperprolifici Patricia Highsmith e Graham Greene, di idolatrare tuttora Philip K. Dick - autore apparentemente di genere ma dotato di una personalissima concezione dell'esistenza. In lui c'è una solida formazione artistica, ereditata dal padre pittore. In “Memorie di un artista della delusione”, parlando delle proprie passioni, Lethem usa spesso la parola arte, e senza esitazioni fa della propria ricerca letteraria l'atto artistico per eccellenza. Più che degli strumenti, i generi sono per lui gli elementi dell'immaginario collettivo, ed è perfettamente consapevole che nessun artista contemporaneo può sottrarsene. In “La fortezza della solitudine” l'esperienza dell'autore, tutta stupore e marginalità,  entusiasmi e umiliazioni, fino alle delusioni dell'età adulta, nelle quali le sofferenze passate acquistano un senso quasi leopardiano, tramutandosi in qualcosa d'irrimediabilmente perso, è un coacervo di vissuto e di immaginario. Eppure quell'immaginario di fumetti, musica soul e punk, atteggiamenti e linguaggi imprime alla storia e ai contesti il marchio della verità, e in maggior misura che in una narrazione realistica tradizionale.
Ne “La fortezza della solitudine” i generi si affollano fino a sublimarsi, ci spiazzano perché sono difficilmente riconoscibili. Talvolta rientrano nell'ipertesto in modo parodistico, insinuandosi in una quotidianità fatta di comics e rivalsa adolescenziale: ecco allora Aeroman, improbabile supereroe che permette a Lethem di giocare con le parole scatenando nel contempo riso e sottesa inquietudine per la crescente cultura dello “sballo”[3]; ecco Abraham Ebdus, padre pittore del protagonista Dylan, intento nel monacale atto di dipingere un interminabile film ma costretto a guadagnarsi il pane con le copertine dei romanzi di fantascienza, dichiarare ai fans del genere il suo disinteresse, al limite del disprezzo, e rimanere comunque adorato; ecco i topos del “prison movie” stemperarsi nel lirismo, quando i protagonisti del romanzo tornano a sfiorare le loro solitudini tra le mura carcerarie, con Dylan ridotto all'invisibilità e l'amico Mingus così dipendente dal crack da non poter esistere al di fuori di quelle mura.

Narrativa di travestimento e mescolanza, mimetica - per dirla con coloro che vedono in Lethem un esponente della cultura Avant Pop[4]. Lethem, invece, trasforma l'Avant Pop in qualcosa di più personale e lirico. Non accorgersene significa sottrargli l'aspetto più importante, poiché egli non ricombina soltanto i detriti della società dei consumi, ma da artista punta a fare dell'immaginario collettivo qualcosa che ci tocca nel profondo.
Molto più del romanzo maggiore, Ragazza con paesaggio presenta un'evidente matrice Avant Pop, e proprio per questo sarebbe fuorviante ridurlo solo al genere fantascientifico o western, inglobati dal bildungsroman. E se è vero che l'immaginario in esso rappresentato è maggiormente riconoscibile per il lettore americano, in quanto è difficile per un europeo lasciarsi coinvolgere dalla sfaccettata mitologia di The Searchers[5], il capolavoro fordiano del 1956 che rischia d'essere frainteso più per gli aspetti razzisti, anziché valutato per la complessa e innovativa costruzione, e soprattutto per  ciò che restituisce della cultura e dei miti statunitensi (basti pensare alle riletture che ne fecero grandi registi come Scorsese o Schrader, i miti che ne ha colto un cineasta discusso come John Milius e le citazioni di Lucas in Star Wars), è altrettanto evidente che il romanzo tocca tematiche e sentimenti appartenenti alla letteratura di ogni tempo.
Pur narrando il futuro, Ragazza con paesaggio ci parla del presente: di un'America che si rifiuta di riconoscere l'altro da sé, considerandolo negletto se non è in grado o non intende condividere la sua cultura progressista o i suoi assiomi prometeici. Il carismatico, violento e contraddittorio Efram Nugent, preso a modello dell'Ethan Edwards[6] fordiano, che nel romanzo si presenta alla protagonista Pella come nella sequenza finale del film, cappello in testa, silhouette contro lo sfondo rosa e un braccio incrociato davanti alla vita, l'altro lungo il fianco[7], sembra speculare a Clement, il padre della ragazza. Questi è un candidato democratico e progressista che ha perso le elezioni in una Brooklyn ormai arrostita dal sole, invivibile per l'inquinamento. Dopo la morte per cancro della moglie si è trasferito con i figli su un pianeta in fase di colonizzazione, abitato dagli Archisti, ultimi residui e paria di una civiltà che forse lo ha abbandonato lasciandovi delle affascinanti costruzioni ad arco su un deserto straniante. Accolto come una promessa dalla piccola comunità, Clement si scontra ben presto col fallimento: impossibile persuadere un'umanità precaria e diffidente che preferisce alimentarsi dei propri pregiudizi anziché mandare i figli a scuola ad apprendere la tolleranza e la democrazia. L'altro, invece, fa del fallimento la propria forza, disorientando e attraendo Pella con ambigue argomentazioni e sentenze sprezzanti, persuadendo la comunità come un leader mai consacrato, eppure riconosciuto e legittimato. Efram abita questo cartoonesco pianeta da anni, ma si rifiuta di mangiare le patate che vi crescono in molteplici forme; conosce bene il carattere e i comportamenti degli Archisti lì rimasti, parla una qualche forma dialettale della loro complessa lingua, eppure è contrario ad assimilarli nella comunità; probabilmente conosce i segreti dei cervi domestici, animaletti simili ai topi che scorrazzano dal deserto fin nelle case degli umani e si divertono a osservarli, e proprio per questo vorrebbe ucciderli. Eppure anche Efram è progressista a suo modo, e la sua rabbia è alimentata dalla consapevolezza che gli Archisti autentici, quelli vincenti, hanno lasciato il pianeta trasportando altrove la loro civiltà, lasciando ai loro parodistici simili e ai colonizzatori solo rovine. Perché, sembra dire, ho lasciato un pianeta al collasso, devastato dalla mia razza, per trasferirmi su questo scarto?  Perché non posso apprendere la saggezza di una civiltà scomparsa, invece di sopportare la presenza di coloro che i fuggitivi non hanno voluto?
Rispetto a Ethan Edwards, Efram non ha un degno alter ego come Scar, occhi feroci e i modi altrettanto speculari. Pella Marsh ha 13 anni, non sa se compatire o disprezzare suo padre ed ha già conosciuto la morte in due occasioni, a Brooklyn e a distanza di poco tempo: prima vedendo un bagnante arenato sulla spiaggia riarsa, piena di transenne atte a impedire la bagnazione; poi, con i suoi due fratelli, ha trovato sua madre priva di sensi nella doccia, l'ha soccorsa e contribuito a portarla in un ospedale da cui non è uscita viva. E qui Lethem dimostra la sua particolare sensibilità nel tratteggiare una situazione spiazzante: Pella disorientata che cerca di spostare la madre nuda e incosciente, il fratellino David “seduto davanti al televisore, rapito, come se il televisore potesse rimediare al baratro che si era spalancato”. Sul pianeta degli Archisti, Pella rifiuta di assumere i farmaci che immunizzano da dei misteriosi virus e dopo prende a guardare il deserto e gli umani con gli occhi di un cervo domestico, accorgendosi ben presto che può essere liberatorio scorrazzare raso terra, appollaiarsi in cima alle torri e agli archi stando contemporaneamente in due posti, ma anche che osservare le nefandezze degli uomini, i loro i vizi e le loro debolezze, è un esercizio insostenibile. Certe verità sono insostenibili anche ai cervi domestici, al punto che quando coglie il pittore Hugh Merrow  e l'Archista Verità Nota intenti in strane effusioni preferisce distogliere lo sguardo e rientrare in Pella, nel suo giaciglio in una torre interrata ai piedi degli archi.
Pella, come il Dylan Ebdus de “La fortezza della solitudine”, approfitta dell'invisibilità ma ha segreti da condividere, difendere all'occorrenza. La mimesi e l'invisibilità permettono d'intrufolarsi nelle vite altrui, cogliere verità parziali, giungere all'empatia, narrare le storie di chi amiamo, pensiamo di aver tradito o semplicemente lasciato al suo destino. È indossando l'anello dell'invisibilità che Dylan può accedere nel carcere e narrarci la vita adulta di Mingus Rude, dal delitto che li ha separati fino alla deriva di tossicodipendente. Nutrirsi di vite altrui aiuta a crescere? No, se al privilegio dell'invisibilità e della mimesi non segue un atto, l'affermazione di stare al mondo saldando in conti con un passato tanto vero quanto inventato. “Hai mai accalappiato qualcuno?”, chiede d'un tratto Dylan all'amico, mentre li separano le sbarre della cella. Accalappiare. Prendere alle spalle, per il collo, un ragazzino bianco ed estorcergli un dollaro tra gli sfottò dei fratelli neri. Dylan l'ha provato parecchie volte, su di sé. E l'umiliazione l'ha accompagnato fino all'età adulta. Mingus, nero, non ha mai accalappiato l'amico bianco, ma questo non significa che non l'abbia fatto con altri. C'è anche un Mingus diverso, sconosciuto a Dylan. E c'è, nello stesso carcere, un compagno d'infanzia che accalappiava Dylan. Amico di Mingus. Nei suoi confronti, Dylan compirà una scelta che esclude l'invisibilità. Nello stesso modo, Pella dovrà rinunciare alla mimesi per dare un senso alla morte della madre e all'incapacità del padre, ricorrendo all'astuzia nello scontro con un  Efram che sembra al corrente di ogni suo segreto.
Ipersensibili, Dylan e Pella sono dei solitari che si difendono dai traumi costruendosi un mondo su misura, caratterizzato da passioni e mancanze e a suo modo doloroso nella gestione degli affetti. Nel contempo non possono sottrarsi al contatto e all'esistenza, attratti come sono da ciò che un po' li assorbe e un po' li respinge. Ed è forse l'ipersensibilità dell'autore stesso, non priva di ironia e mimesi, a trasformare la sua scrittura in uno strumento tanto emozionale quanto sapientemente controllato. Grazie ad un lirismo che non rifugge la realtà, aiutandoci semmai a conoscere gli aspetti più veritieri dei rapporti umani, “La fortezza della solitudine” non è un esercizio barocco che permette a Lethem di lanciare nel suo tritacarne letterario i sentiti di un trentennio e una babele di slang giostrati con arte. Ragazza con paesaggio sarebbe solo un abile pastiche letterario, apprezzabile esercizio AvantPop, se non fosse costituito da una scrittura semplice ma mai facile, cortocircuitata, tutta stop e brevi voli, “particolarmente attenta a cogliere le sfumature minime dei rapporti umani (tanto corposi quant'è stralunato il mondo in cui vivono)”[8].
Una scrittura mutevole di romanzo in romanzo, corpo del testo stesso, eppure sempre vitale nel plasmare storie e personaggi.

NOTE
[1] La critica italiana si è abbondantemente occupata di Lethem, compreso lo scrittore Dario Voltolini che ha scritto una bella recensione di “La fortezza della solitudine”. Informazioni sull'autore sono rintracciabili nel lungo servizio dedicatogli da Umberto Rossi sul n. 51 di PULP (settembre-ottobre 2004), con accattivante bibliografia.
Per chi volesse approfondire consiglio la bella raccolta di scritti autobiografici “Memorie di un artista della delusione”, uscita quest'anno da Minimum fax, in cui Lethem tratta dei propri autori in relazione alla morte della madre e del difficile rapporto col padre.

[2] Memorie di un artista della delusione.

[3] Nel romanzo “Aeroman”, il nome del supereroe, è sempre mal pronunciato da chiunque non sia Dylan e Mingus, con sarcasmo o innocenza. Più frequentemente diventa Errorman, in riferimento alle sue brutte figure, o Arrowman. Arrow , “freccia”, in gergo indica una persona in preda agli stupefacenti.

[4] Per maggiori informazioni sull'AvantPop, movimento letterario più ventilato che riconosciuto, rimando a Schegge d'America, antologia curata da Larry McCaffery  e pubblicata da Fanucci nel 1998.

[5] Si tratta, naturalmente, di Sentieri selvaggi, il capolavoro western di John Ford. Flop nelle sale, il film fu gradualmente rivalutato da registi come Godard, Scorsese e Cimino e inserito dai Cahiers du cinema tra i migliori film di tutti i tempi. Oggi è conservato nel National Film Registry praticamente la filmoteca ideale dei capolavori americani.
Lethem ha fatto di questo film una delle sue ossessioni. Per saperne di più: “In difesa di Sentieri selvaggi”, ora in A ovest dell'inferno, Minimum Fax 2002.

[6] Il personaggio di Ethan Edwards, un reduce sudista che è stato probabilmente un fuorilegge dopo la guerra, razzista e misogino, dai comportamenti aberranti, residuo di una cultura di frontiera destinata all'estinzione, riesce tuttora disturbante agli spettatori. Forse adesso più degli anni 50 dello scorso secolo, quando ancora il western non stava dalla parte degli indiani e “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, “Piccolo Grande Uomo” e “Balla coi Lupi” erano lontani a venire. Interpretato da uno straordinario John Wayne, Ethan è in realtà più complesso di quanto sembri: pur odiando gli indiani che sembra conoscere benissimo, arrivando a pensare di uccidere la nipote che è stata rapita da loro e quindi “contaminata”, egli è ben lontano dalle convinzioni patriottiche e retoriche del Reverendo, suo compagno di caccia, che Ford riduce a macchietta. Oltre ad assomigliare fin troppo all'odiato Scar, Ethan è profondamente nichilista, sembra non credere in nulla: cava gli occhi ai defunti indiani perché non raggiungano il paradiso, ma altrettanto relativizza il dio biblico divulgato dal Reverendo.
Ecco perché trovo più appropriato ricondurre Efram Nugent a Ethan Edwards e non a John Wayne, come invece hanno fatto alcuni critici italiani. Pur rappresentando un modello di eroe americano, Wayne ha interpretato questo modello a vari livelli: Ethan Edwards non è Ringo, il fuorilegge romantico di “Ombre rosse”, né “Il Pistolero” di fine carriera. Ed è per questo che Edwards riesce a inquietare tuttora. 

[7] Wayne posò così in omaggio a Harry Carey jr, leggendario cowboy del cinema muto che nei suoi film era solito stringersi l'avambraccio destro all'altezza del gomito.

[8] Umberto Rossi, PULP n. 61, maggio-giugno 2006.