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Il primo italiano nel gulag

di Roberto Beretta - 07/06/2007

 

La figlia Luciana però non si è mai data per vinta e ha ritrovato negli archivi della Lubjanka a Mosca i verbali delle delazioni dei connazionali e compagni di partito contro suo padre

Il mostro rosso divora i suoi figli; e - nutrendosene - acquista forza e potere, in una ruota impressionante che macina e stritola chiunque si opponga. Non è il mito di Kronos, non è nemmeno la favola della Bella e la Bestia: è la storia tragica di mille esuli italiani andati a Mosca cercando il «sol dell'avvenire» e che vi trovarono invece bestiali persecuzioni e la morte.
Gabriele Nissim - saggista ormai specializzato nel documentare le storie di «giusti», siano essi attivi nel dissenso anticomunista o protagonisti della resistenza contro Hitler e a favore degli ebrei - ha scelto il taglio eroico di Una bambina contro Stalin (Mondadori, pp. 278, euro 18) per raccontare la storia dimenticata del primo comunista italiano nei gulag sovietici; ma - chiuso il volume che va in queste ore nelle librerie - ciò che impressiona è forse ancor più l'impietosa, inarrestabile efficienza di un sistema che, proprio mentre prometteva la nascita di un «uomo nuovo», otteneva all'opposto di annullare gli individui e le loro speranze.
Gino De Marchi è solo una delle tante vittime, probabilmente la prima italiana. La sua storia - ricostruita grazie alla figlia Luciana (l'irriducibile «bambina» del titolo) - non solo aggiunge un tassello alle ormai numerose testimonianze sugli orrori subiti dai connazionali comunisti in Unione sovietica (vedi i casi di Emilio Guarnaschelli, torinese deportato e morto in Siberia nel 1938, o di Dante Corneli, il «redivivo tiburtino» che raccontò in un libro i suoi vent'anni di gulag) o in altri Paesi socialisti (si pensi agli italiani internati nell'isola-lager jugoslava di Goli Otok, ricordati da Giacomo Scotti e di recente da Giampaolo Pansa), ma insieme ricapitola esemplarmente una prassi comune del totalitarismo rosso, documentando in un certo senso da sé il «peccato originale» dell'utopia comunista - e forse non solo di quella.
De Marchi era nato nel 1902 a Fossano: famiglia povera, madre vedova, a 15 anni s'innamora dell'ideal e comunista sulle barricate di una rivolta operaia a Torino e diventa attivista del Partito; è entusiasta e bravo oratore, partecipa a tutte le iniziative dell'Internazionale e ai congressi dei giovani comunisti all'estero. Ma nel 1921 commette un errore: fermato dalla polizia e sotto minaccia dell'arresto della madre, rivela il nascondiglio di un deposito di armi «rivoluzionarie» e denuncia un compagno.
È una macchia incancellabile: nonostante le successive auto-accuse e i tentativi di riabilitarsi, la taccia di spia lo accompagnerà sino alla fine. Anzitutto in Urss, dove i compagni italiani (la figlia lo scoprirà dopo la caduta del Muro, consultando gli scrupolosi archivi della Lubjanka a Mosca) lo spediscono formalmente per partecipare a un convegno ma in realtà perché venga punito dai funzionari della «casa madre».
E infatti, pochissimi giorni dopo il suo arrivo, De Marchi viene portato in un campo di detenzione; sono passati solo 4 anni dalla «rivoluzione d'Ottobre», ma il potere rosso ha già avviato il suo triste universo concentrazionario. Gino vi patisce la fame e contrae la tubercolosi, ma non smette di credere ai suoi ideali; il maggior cruccio è non riuscire a dimostrare al Partito la sua buona fede, a riscattare quell'errore di gioventù. Grazie all'impegno nel lavoro ottiene una sorta di semi-libertà e riesce anche a sposare una giovane russa, da cui ha una bambina.
Intanto, per chiederne la liberazione, la madre tenta l'impossibile: scrive una lettera a Lenin (esiste ancora la copia negli archivi) e nel 1924 affronta il lunghissimo viaggio fino a Mosca; vuole offrire il suo lavoro per «riscattare» il figlio. De Marchi riesce però a essere parzialmente riabilitato solo grazie all'aiuto di Antonio Gramsci, di cui era amico e che interviene a più riprese sui vertici del partito.
Comincia allora quella che sembra una resurrezione: Gino lavora prima come contabile, poi in un kolkhoz agricolo, quindi in uno studio cinematografico dove diventa uno dei pio nieri dei documentari di propaganda sovietica. È un funzionario scrupolosissimo, persino premiato per la sua dedizione, ma continua ad avere il difetto di pensare con la sua testa; vorrebbe tornare in Italia con la famiglia, tuttavia rivolgersi all'ambasciata vuol dire passare per fascista e lui al partito (almeno a quello di Gramsci) continua a crederci. Finché nel 1937 la polizia lo «preleva» di nuovo, durante le grandi purghe staliniane.
Non tornerà più a casa e solo nel 1996 la figlia - la quale, a differenza della madre (che divorziò quasi subito: del resto era davvero eroico reggere la condizione di familiare di un «nemico del popolo»), non smette di attenderlo e di cercarlo - saprà che il detenuto De Marchi era stato fucilato nel 1938 come spia; nei verbali del suo processo figurano le false delazioni dei compagni di lavoro, ma anche i rapporti infamanti rilasciati su di lui dai comunisti italiani a Mosca e una confessione estorta probabilmente col ricatto.
Tuttavia la storia di Gino continua a vivere, grazie al deputato comunista Giuseppe Biancani (che negli anni Settanta raccoglie pazientemente testimonianze per riabilitarne la memoria) e soprattutto grazie a Luciana: lei, inseguendo le tracce di un papà molto amato, è riuscita persino - in Russia - a farne un film e - a Fossano - a fargli dedicare nel 2004 una via. La prima in Italia per un italiano «vittima dello stalinismo».