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Magico dialetto il linguaggio che unisce l'uomo alla natura

di Andrea Zanzotto - 08/06/2007

"La forza del dialetto. Autobiografie linguistiche nel Veneto d'oggi". È il volume di Gianna Marcato presentato nei giorni scorsi a Padova. Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo il testo-memoria del poeta Andrea Zanzotto, raccolto da Francesco Carbognin.

La mia prima parola è stata, presumibilmente, quella di tutti: un puro e semplice vagito. E che cosa si potrebbe dire, ancora, di nuovo o di diverso da ciò che ognuno sarebbe in grado di affermare di se stesso, limitatamente a quell'età preistorica della propria vicenda umana, linguistica e esistenziale a un tempo, cui siamo soliti assegnare il nome di "infanzia"? In quali inauditi termini è possibile pronunciarsi ulteriormente, in merito a quell'infans divenuto - sillaba dopo sillaba, gesto dopo gesto - fans, ma solo al termine di una lunga, interminabile serie di microscopici, microtattili, microfonici collaudi della realtà, di tentativi, sempre più protratti, sempre più sfacciatamente arditi, di notificare la propria esistenza in forma di sorriso o di spavento, di eco, di stasi o di urto, di brivido o di colore, per constatarla di rimando, riflessa dalle cose che generalmente ostacolano il goffo incedere carponi d'un bambino?

Forse, a ben vedere, quel primo vagito - prossimo com'è al farsi indocile, insistente lallazione (pa... pa... pa...; ma... ma... ma...; ta... ta... ta...) universale idioma, condiviso da tutti i cuccioli d'uomo al di qua e a prescindere da qualsiasi differenziazione di lingua, di appartenenza etnica e geografica - non è così innocente come può apparire di primo acchito.

A questo proposito, Jacques Lacan affermava, addirittura, come un vagito si collochi in perfetta sincronia con tutti i vagiti del mondo, facendo "sistema" con essi: valutato in tale prospettiva, un vagito risulta costituire, un segno di richiamo, decidendo, con il suo effettivo o mancato verificarsi, della presenza o dell'assenza di una madre. Ma se di una "struttura appellativa" si deve parlare, in riferimento al vagito come a una forma intrinsecamente "dialogica" di richiamo, occorrerebbe anche sottolinearne la risolutezza, la non transigenza, relativamente alla positività della risposta da esso reclamata, l'incontrovertibilità del diritto all'esistere in quanto tale di cui esso si impone come testimonianza prima, con un'energia argomentante che nessuna propensione retorica adulta sarebbe in grado di eguagliare.

Un appello - lo si ripete - articolato nel medesimo modo da tutti i piccoli d'uomo del pianeta: una volta tanto ci siamo ritrovati tutti semblables, frères, in questo. Almeno in questo...

Da parte mia, mi è capitato più volte di soffermarmi su un qual "piacere" che l'essere ha di essere, nel momento del suo aprirsi alla vita: su una sorta di piacere del principio, posto al di qua del "principio di piacere" di freudiana memoria, da cui sgorgherebbero le più disparate pulsioni, tendenti ad affermare minimi, ma indistruttibili, nuclei di fortificazione e di resistenza attraverso un'ostinata, cocciuta, riottosa ripetizione.

Per questa minima-massima auto-giustificazione, o auto-approvazione, che si genera dalla stessa meschina pusillanimità dell'infans, più o meno dolcemente, cullato dall'esistenza, il rischio connesso al collaudo del reale sfuma nella lode della realtà, confondendosi con essa: e vano risulterebbe il tentativo di separare quanto, di quest'animaletto ormai prossimo al logos, si deve alla paura piuttosto che a quell'eroe che, così gagliardamente, si agita in lui.

In un certo senso, è proprio da qui che prende forma, per quanto mi riguarda, la più antica, pur rarefatta e inafferrabile, idea di poesia di cui io conservi il ricordo: da una percezione del mio "nido" solighese come di un materno rifugio ("cui gl'insoliti/fiumi cingono il grembo", scrivevo nel 1951) e, indissolubilmente, come di una dimensione di straordinaria bellezza, tanto degna di lode per tutto ciò che esiste, quanto fonte ispiratrice di vita, di amore, e di poesia.

C'era una volta, infatti, la Cal Santa, la via in cui abitavo, bambino, con la mia famiglia, che portava all'istituto di Maria Bambina, gestito da una comunità di suore secondo l'avveniristico metodo Montessori. Spesso, per motivi di salute di mia madre, risiedevo presso la nonna paterna, che abitava a metà strada tra casa mia e l'istituto, da me frequentato fin dal 1924. La Cal Santa era il cuore pulsante del mio mondo, e tale è rimasta, a pensarci bene: un "esile mito" (direbbe Sereni), sprofondato in una natura pressoché incontaminata e di cui ho assistito, con immenso dolore, alla progressiva distruzione nel corso degli anni, per via di una vorace industrializzazione che ne ha stravolto l'originaria bellezza. Era una contrada brulicante di voci, di familiari e quasi numinose presenze: tali erano la nonna, la zia Maria, il Toni-oci "basso e nero / ma con gli occhi di fatato ghiaccio" e la Neta, "altissima in nero", di cui ho parlato in Pasque.

D'estate, gli abitanti di quel mondo da fiaba, ormai scomparso si sedevano lungo la via improvvisando filò all'aperto; e il dialetto correntemente parlato dai suoi abitanti, sortiva l'incanto di un continuum che fondeva armoniosamente il linguaggio della natura al linguaggio umano, il frusciare delle foglie al rumore dei passi, i diversi suoni delle stagioni ai diversi idiomi con cui mi trovavo a venire a contatto: il toscano illustre dei poemi del Tasso e dell'Ariosto, per esempio, di cui mia nonna mi recitava larghi frammenti a memoria, alternandoli con filastrocche per bambini e con frammenti di tedesco minimo, da lei appreso a Vienna. Zia Maria, invece, da "letterata" qual era, esibiva, di tanto in tanto, la sua brillante competenza in un latino pseudomaccheronico, che non aveva nulla da invidiare al latino ecclesiastico rimodellato sul sostrato dialettale dalla fertile ignoranza delle donnette; da lei ereditai la passione per la lettura di settimanali e giornaletti (quali il "Corrierino", che mi teneva aggiornato sulle vicende del signor Bonaventura). A casa, poi, era facile imbattersi nel francese, dal momento che mio padre aveva vissuto, da emigrante, a Parigi e a Annoeullin, nei pressi di Lille, e a Royan, nel sud della Francia.

Numerose e vive, insomma, sono le sensazioni indissolubilmente connesse alla memoria della mia infanzia; tanto che ancor oggi mi può capitare, letteralmente, di naufragare in quella lontananza, in quella dolce, albuminosa e vaga atmosfera di sogno pervasa di vico, di nenie cantilenanti, di ipnotiche alternanze di ritmi e di suoni in cui precocemente prese forma, in me, un desiderio di espressione, di "liberarmi" e di "liberare", quanto mi stava attorno, in un'armoniosa espressione: "Rhmen, das ists!" ("Lodare è questo!") - come dice Rilke - "Ein zum Rhmen Bestellter..." ("Chiamato a lodare...")...

Ma la mia infanzia ha dovuto fare i conti, precocemente, con "la réalité rugueuse" del dolore: per la morte di Marina e di Angela, le mie sorelle gemelle nate nel 1923, causa della prostrazione fisica e psicologica di mia madre; per il conseguente senso di impotenza, di fragilità, di inappartenenza, che mi hanno indotto, fin da bambino, a immaginarmi prossimo alla morte; e per gli anni di vera e propria povertà dovuti all'antifascismo dichiarato di mio padre, costretto all'esilio per trovare di che lavorare.

Era, nuovamente, la poesia della natura (genitivo soggettivo, prima ancora che oggettivo) a offrirmi un riparo, attraverso le parole, questa volta, di Hölderlin: "Da ich ein Knabe war, / Rettet' ein Gott mich oft / Vom Geschrei und der Ruthe der Menschen..." ("Da fanciullo / spesso un Dio mi salvò / dalle grida e dalla frusta degli uomini...")...

Nel "nido" sonoro e fabuloso della mia infanzia - culla di natura, di linguaggio, di armonia - ho imparato a parlare, lodando e collaudando. Da questo ininterrotto collaudare, nella lode, il mio paese natale, ha avuto origine la mia "poésie ininterrompue".