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Il tradimento dei chierici, ovvero i sofisti della modernità

di Francesco Lamendola - 09/06/2007

 

 

 

 

 Nel 1927 appariva il libro del filosofo francese Julien Benda La trahison des clercs (tradotto in Italia solo nel 1976!), in cui sosteneva che gli intellettuali hanno tradito la loro vocazione alla ricerca pura e disinteressata per gettarsi nel fiume delle polemiche politico-sociali, abbandonando la loro funzione di guide spassionate dell'umanità, capaci di stare al di fuori e al di sopra della mischia e delle turbolenze contingenti. Oggi si potrebbe ancora parlare di "tradimento dei chierici", ossia degli intellettuali, ma con riferimento a un'altra e - secondo noi - più grave deviazione dalla loro missione culturale e spirituale: la diserzione dal loro impegno naturale di fornire dei punti di riferimento etici, estetici ed esistenziali per farsi "cattivi maestri" di un sapere sofistico e nichilista, dove tutto è uguale a tutto e dove l'uomo non riesce a scorgere alcun orizzonte di senso. Senza voler sopravvalutare la loro funzione in seno alla società (ma come non essere tentati di farlo? Platone ci parla ancora, a ventiquattro secoli di distanza, con forza prorompente), non possiamo non notare che coloro i quali dovrebbero costituire le guide ideali della società si sono auto-retrocessi al ruolo di spettatori o, al massimo, di testimoni di una crisi sempre più profonda e non priva di autocompiacimento. Si direbbe che, nel caos dei punti di vista soggettivi e nel senso di sgretolamento che è l'inevitabile conseguenza di una prolungata idolatria dell'esistente - volta a volta la scienza, la storia, il comunismo, il capitalismo, la tecnologia - gli intellettuali altro non sappiano fare che unire le loro voci spaventate, tremebonde e assai poco virili al coro di gemiti, imprecazioni, deliri e spacconate che la modernità ha prodotto e continua a produrre, in una specie di frenetico cupio dissolvi.

Ci piace citare a questo proposito un passo del bel romanzo di Vintila Horia, La settima lettera (Milano, Edizioni del Borghese, 1965, traduzione di Orsola Nemi), in cui Socrate si rivolge al giovane discepolo Platone, lamentando la decadenza morale della città di Atene e individuandone con lucida semplicità le cause: "Sai che cosa penso? Che la decadenza della nostra città viene dai cattivi medici che hanno avuto in cura le giovani anime, e che i tuoi colleghi sono quello che sono, ubriaconi, traditori, profanatori degli déi, perché ignorano tutto della saggezza, e i sofisti, loro maestri, fabbricando imitazioni e omonimi di esseri reali, li hanno spinti verso la ignoranza, e dunque verso la presente cattiveria. E a questo, amico mio, non v'è rimedio."

A noi, invece, piace pensare e credere che vi sia ancora un possibile rimedio: sferzare a sangue, se occorre, i sofisti; scacciare il coro dei cattivi maestri che seminano dubbio, angoscia e paura; rincuorare le giovani anime con un messaggio positivo di speranza, amore e fede nella bellezza, nella bontà e nella verità. I giovani 'esistenzialisti' parigini degli anni '50, che hanno fatto scuola in tutto il mondo, erano i portatori di un mondo decadente e desideroso di auto-distruzione, il mondo descritto dal loro maestro Sartre nel suo romanzo La nausea: dove tutto è nauseante, l'esistenza stessa non desta altro che disgusto e repulsione. Che brutta cosa essere al mondo, era il messaggio da essi raccolto e volonterosamente trasmesso; che maledizione, la libertà. E Heidegger, maestro - in un certo senso - di Sartre, non aveva forse insegnato che l'unica certezza data all'essere umano è il suo essere-per-la-morte? Quanto smarrimento, quanta confusione sono stati seminati dai chierici, sotto le apparenze di una cultura spregiudicata e anticonformista, insofferente dei valori tradizionali ma totalmente incapace di elaborarne di nuovi! 

La verità è che, specialmente oggi, nulla vi è di più piattamente conformistico di questa arte d'avanguardia, che odia e detesta l'estetica del bello e del naturale (l'art brut); di questa poesia che sa cantare solo il male di vivere (Montale, Pavese); di questa filosofia che esalta solo la rivolta il furore (Nietzsche, Camus); di questa musica che vuol buttare nel cestino un'intera civiltà musicale (dodecafonia); di questa scienza o pseudo-scienza che, nell'uomo, non vede altro che un animale (Darwin) in preda a pulsioni selvagge e inconfessabili (Freud); di questa cultura, in una parola, che esalta solo l'azione, la tecnica, il profitto e deride tutto ciò che è ascolto, disinteresse, contemplazione. Siamo caduti veramente in basso: sguazziamo come rane nello stagno, scambiando l'acqua fangosa per il limpido cielo sopra di noi. Ci siamo reclusi volontariamente nella più buia e maleodorante delle cantine, benché abbiamo a disposizione uno splendido palazzo circondato da un magnifico parco verdeggiante, ove risuona il canto d'innumerevoli uccelli. L'uomo - è questa una grande verità - finisce per diventare quello che pensa di essere. Se si guarda allo specchio e si vede come un lupo feroce per i suoi simili (Hobbes), o come un profeta di giustizia senza amore e senza misericordia (Marx), o come una scimmia evoluta a caso e destinata a sparire per caso (Darwin) o, ancora, come un grande organo sessuale in perenne eccitazione e sconvolto da desideri vergognosi d'incesto e parricidio (Freud), tale finirà per diventare. Se invece pensa a se stesso come a una persona, sostanza spirituale fatta di socialità e individualità originariamente unite (Rosmini), a un essere singolo, unico e irripetibile e perciò sommamente prezioso (Kierkegaard), che opera non per la sua propria gloria, ma a maggior gloria di Dio (Bach) e che al Cielo aspira a ritornare dopo essersi purificato con una vita generosa e volta al bene (Platone, Agostino, Tommaso d'Aquino, Dante), allora tenderà a diventare tutto questo.

L'uomo è quello che mangia, dice il materialista; sì, ma l'uomo non si nutre solo di alimenti sensibili: egli ha anche fame di qualcos'altro, ha fame di spiritualità: e, se riesce a nutrirsi di buoni cibi spirituali, può conquistare la salute dell'anima; ma dipende solo da lui.

Ecco perché vivere all'insegna della Bruttezza (che Elsa Morante descriveva come il grande peccato della modernità), nelle brutte città rumorose e inquinate, nei brutti palazzi di acciaio e cemento che sono altrettante torri di Babele, circondati da odori sgradevoli, da rumori incessanti e cacofonici, istupiditi da uno stile di vita consumistico che rasenta il masochismo (le torture della moda, della cosmesi, della chirurgia estetica), abbrutiti da una vita sedentaria e in buona parte consumata davanti alla TV o allo schermo del computer, esasperati dalla ripetitività e dagli 'effetti collaterali' dello sviluppo, imprigionati dal conformismo, sovreccitati dalla pornografia, manipolati da una politica demagogica, assuefatti a dosi sempre più massicce di violenza…, ecco perché tutto questo significa retrocedere, giorno per giorno, dalla condizione di persone a quella di cose, di oggetti utili come consumatori, contribuenti, utenti, elettori, spettatori, tutto tranne che soggetti di libere scelte, con una propria individualità e una propria dignità insopprimibile.

È questo un discorso troppo generico, troppo velleitario, troppo rozzo nel suo rifiuto di eleganti giri di parole per descrivere la presente degradazione dell'essere umano? Può darsi: ma sta di fatto che il re è nudo, è in mutande, e da un bel pezzo: e siamo stanchi di sentire i nostri chierici-sofisti che servilmente ripetono: "Ma come è bello il vestito nuovo dell'imperatore! Ma come è sfarzoso, ma come gli sta bene!". Basta, signori chierici; basta. Ne abbiamo udite fin troppe di sciocchezze e di piaggerie, in questi ultimi anni. Voi, maestri di menzogna e di compromesso: voi, che avete inventato espressioni repellenti come lo sviluppo sostenibile per poter continuare a devastare e inquinare la terra senza sensi di colpa, o come peace-keeping per la democrazia, per poter scatenare sporche guerre di puro dominio, camuffandole da nobili crociate del Bene contro il Male! Basta, signori chierici: così non va. Ci aspettavamo qualche cosa di meglio da voi. In fondo, siete una parte della classe dirigente (la parte più nobile e attenta ai valori dello spirito, vi vorrebbe dire). E che razza di classe dirigente è quella che, invece di dirigere, si mette a rimorchio di tutte le mode, di tutte le follie, di tutte le viltà, di tutte le menzogne?

Quante menzogne avete detto finora, signori chierici. Ad esempio, che la tecnica è solo un mezzo e che basta usarla bene perché tutto vada a posto. Andatelo a dire ai bambini di Hiroshima, andatelo a dire ai bambini di Chernobyl, che la tecnica è solo un mezzo. Voi sapete di mentire, signori chierici: sapete che la tecnica, quando supera una certa soglia di potenza e quando viene messa sul mercato a disposizione di tutti, ma proprio di tutti, ci strappa le redini e ci trascina là dove lei vuole: cioè verso una sua potenza sempre maggiore, senza limiti, all'infinito… E la cosa più triste è che tutte queste menzogne le dite per il più sordido dei motivi: l'interesse. Sì, perché dicendo queste menzogne voi ci guadagnate. Vi pagano bene, e vi chiamano anche in televisione a pontificare, ad affollare i salotti del piccolo schermo, dove schiere di tuttologi impettiti a tanto il chilo blaterano e dissertano di tutto un po', ma - alla fine - di una cosa sola: evviva la moda del momento, i gusti del momento, gli umori del momento, i potenti del momento! E domani, quando il vento sarà cambiato (il vento dell'audience, per esempio), ecco sarete lì di nuovo, a dire esattamente il contrario di quel che dicevate oggi; e a dire  - ecco l'impudenza, ecco il peccato che non vi verrà perdonato - che voi lo avevate sempre detto che le cose stanno così: e vi chiamerete a testimoni l'uno dell'altro, l'uno a coprire la menzogna spudorata dell'altro. Senza pudore, senza dignità, senza senso della decenza e del ridicolo: bandiere al vento, buone per tutte le stagioni, purché vi paghino bene, vi stampino i vostri libri, vi offrano prestigiose carriere universitarie, o politiche, o… d'altro genere.

Quando la nave è in pericolo, sballottata dai marosi, i passeggeri tremano e guardano il capitano, smarriti. Guardano il timoniere, guardano i marinai: da loro si aspettano qualche motivo di speranza. Ma oggi non è più così: il capitano è un mercenario, che ha già abbandonato la nave di soppiatto per mettere in salvo la sua preziosa pelle (vedi l'emblematico Lord Jim di Joseph Conrad); il timoniere è un incapace e un ubriacone, i marinai si contendono ferocemente le scialuppe di salvataggio: hanno altro da fare, che preoccuparsi della salvezza dei passeggeri! E allora? E allora bisogna che i passeggeri ritrovino un soprassalto di dignità e di coraggio, prendano il timone nelle loro mani, traccino la rotta con le loro forze. Forse non tutto è perduto; forse, sbarazzatisi di un equipaggio di vili parassiti, sapranno evitare gli scogli a fior d'acqua, pur non essendo degli esperti di navi e di navigazione. Forse si accorgeranno che guidare la nave non è poi cosa impossibile, anche senza goniometro e senza carte nautiche: con un po' di buon senso e con molto coraggio, tenendosi al largo dalle secche e lasciandosi guidare dall'istinto di sopravvivenza, che raramente fallisce, ce la faranno. Se non altro, ci avranno provato: ora come ora, stipati sul ponte come un  gregge di pecore condotte al macello, non hanno la benché minima probabilità di cavarsela.

Coraggio, facciamo un tentativo da uomini. Se affonderemo sugli scogli, almeno periremo con onore. Altrimenti, c'è perfino il rischio di scoprire che, nella navigazione della vita umana, è giusto e doveroso tracciare da sé la propria rotta, guardando il sole e le stelle, respirando l'aria libera e il salmastro del mare, dritto incontro alla meravigliosa avventura cui siamo chiamati a collaborare: ma da uomini liberi, non da servi drogati e smidollati dalle graziose catene d'oro.