Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Grindhouse. A prova di morte

Grindhouse. A prova di morte

di Adriano Scianca - 11/06/2007

 


Nel 1984, il critico letterario marxista Fredric Jameson lanciava la sua scomunica della cultura postmoderna vergando queste frasi al vetriolo contro un linguaggio che «ha subito tutto il fascino di questo paesaggio "degradato" di kitsch e scarti, di serial televisivi e cultura da Reader's Digest, di pubblicità e motel, di show televisivi, film hollywoodiani di serie B e della cosiddetta paraletteratura con i suoi paperback da aeroporto, divisi nelle categorie del gotico e del romanzo rosa, della biografia romanzata e del giallo, della fantascienza e della fantasy: materiali che nei prodotti postmoderni non vengono semplicemente "citati", come sarebbe potuto accadere in Joyce o Mahler, ma incorporati in tutta la loro sostanza».


Ora, non sappiamo se Quentin Tarantino abbia mai letto Jameson. Improbabile, comunque: la cosa avrebbe sottratto tempo prezioso alla sua infaticabile bulimia cinefila. Sia come sia, rimane il fatto che se il linguaggio postmoderno ha un eroe, questo è sicuramente l'ex commesso del Manhattan Beach Video Archivies, videonoleggio di Los Angeles specializzato in B-movies.

"Grindhouse", l'ultima fatica del regista appena uscita nelle sale italiane, né da la conferma più radicale. La trama della pellicola stavolta si riduce all'osso: Stuntman Mike, alias Kurt Russel, (già tarantiniano ante litteram, per la sua partecipazione a film decisamente pulp come "Grosso guaio a Chinatown" e "1997: Fuga da New York") è un pazzo misogino in cerca di belle ragazze da speronare con la sua Dodge Charter truccata. Nel film ci proverà due volte, ma l'esito degli attacchi sarà decisamente diverso. Punto. Femminismo metropolitano e corse in macchina: non c'è quasi altro da dire sull'intreccio narrativo di quest'opera.

Kitch, casinista, sboccato e violento come non mai, volutamente vintage nella fotografia, "Grindhouse" è un film che ad occhi "razionali" non può che apparire totalmente folle ed insensato. Se Le Iene o Jackie Brown erano film buoni anche per un pubblico non fidelizzato preventivamente, l'ultimo uscito è invece un dono di Tarantino ai suoi fan e solo a loro. Non a caso Paolo Mereghetti, critico del Corriere della Sera, ha potuto evidenziare, pur tra qualche perplessità, la radicalità registica di quest'opera, la sua furia sperimentale ed "anticlassica".

Repubblica, al contrario, ancora stizzita per le recenti critiche tarantiniane al deprimente cinema nostrano, si è limitata a definire il regista "principe del riciclaggio". Il che suona come un'inutile e acidula tautologia, per uno che ha sempre affermato «io non cito, rubo». Sarà forse che il Tarantino che chiede consigli a Ruggero Deodato, che si inginocchia davanti a Michele Soavi, che fa il baciamano a Piero Vivarelli, che progetta remake dei film di Enzo Castellari, che invita a cena Edwige Fenech, che cita a memoria polizioteschi e commedie all'italiana imbarazza un po' una certa critica sofisticata che all'epoca certi film li schifava apertamente.

Sia come sia, sembra che almeno al pubblico italiano, a differenza di quello statunitense, l'esperimento piaccia. Del resto, l'amore tra Tarantino ed il pubblico scocca già nel 1992, quando al Sundance Film Festival esce "Reservoir" Dogs (noto da noi come "Le Iene"), prima fatica del regista. In quell'affresco di esagerata violenza e volgarità, in quei dialoghi surreali tirati fino allo spasimo, in quel citazionismo inesausto gli spettatori intravedono già le stimmate del fenomeno di culto. Ma la gloria vera, mondiale, quella arriverà solo con "Pulp Fiction", vero film manifesto inscritto indelebilmente nell'immaginario collettivo degli anni '90. Le speranze residue di realismo vanno definitivamente a farsi benedire per lasciare il posto ad un lucido delirio che sembra creato appositamente per "fare tendenza". Cosa che puntualmente avverrà. Diverso il caso di "Jackie Brown", prima ed unica sceneggiatura non originale: tanti buoni spunti e qualche interpretazione eccelsa (De Niro su tutti), ma il ritmo appare un po' annacquato dalla lentezza logorroica di certi passaggi privi di mordente. Un film più raffinato ma anche più stanco, quasi una pausa introspettiva dopo la quale Tarantino sparisce per sei anni, salvo poi riapparire sulla scena con il suo capolavoro conclamato, in cui la sperimentazione pulp sfiora il manierismo, con un sapiente dosaggio di innovazione e continuità: parliamo di "Kill Bill", ovviamente. L'omaggio di Tarantino a se stesso. Un successo assoluto di pubblico e di critica, tale da consegnare al regista carta bianca per qualsiasi altro progetto, compreso questo amabile e sconclusionato "Grindhouse".

Film certo non privo di difetti ma sul quale sarebbe sbagliato dare un giudizio superficiale. In fondo anche l'eccesso, quando è dispensato a piene mani con lucida astuzia, finisce per costituire una poetica di cui bisogna tener conto. Nemico giurato dell'impegno ipocrita e moralista, del minimalismo sciatto e dello psicologismo all'amatriciana, Tarantino fa in effetti ricorso ad una grandiosità arcaica riproposta però in un contesto in cui l'innocenza è già definitivamente perduta. I suoi eroi, anche quando inforcano la katana dei samurai, non conservano più nulla di fiabesco, di incantato, di puro. Non sono i bravi marines portatori di civiltà di tanti film di propaganda. Ma non sono nemmeno più i cowboy céliniani di Peckinpah o i surfisti jüngeriani di Milius, in fondo ancora dipinti come detentori di autenticità, ultimi "uomini fra le rovine".

L'eroe tarantiniano, invece, non solo non ha più una morale; non ha neanche più uno stile. O meglio, ha un'estetica, ma è un'estetica che sa di asfalto e sigarette, che ricorda la parodia della caricatura di un fumetto. L'eroe tarantiniano è chi sa vivere fino in fondo l'eccesso: eccesso di violenza, eccesso di volgarità. Eccesso di comunicazione, anche, per vincere con le sue stesse armi il mondo dei segni debordanti. È il caso di Mister Orange/Tim Roth ne "Le Iene" e del suo estenuante allenamento da perfetto delinquente a base di aneddoti criminali: al giorno d'oggi è tutta questione di "raccontare storie". Non esistono fatti, esistono solo interpretazioni, diceva Nietzsche. Il quale, tuttavia, non ha mai detto che ogni interpretazione vale l'altra. Ci sono buone interpretazioni e cattive interpretazioni, buone storie e cattive storie. Sapersi calare nella parte, è ciò che conta. Trovare le parole giuste. Se vuoi essere un gangster, comincia a parlare da gangster. Ecco perché i personaggi di Tarantino parlano, parlano e parlano. Non per spiegarci come va il mondo, non per donarci una morale. Parlano perché è il ruolo che lo richiede. Ed il ruolo è tutto. Anche se poi, in Tarantino, non c'è ruolo che non diventi stereotipo. Ma anche in questo c'è una logica. Non si combatte la "società dello spettacolo" di cui parlava Guy Débord facendo psicanalisi a buon mercato, come nelle pellicole snob italiote. La si combatte dilatando la dimensione spettacolare fino a farne esplodere le contraddizioni. Ecco cosa fa Tarantino, creando film tanto eccessivamente hollywoodiani da risultare antihollywoodiani.

Magari raschiando il barile dei cosiddetti film di serie B, ripescando attori dimenticati da vecchie serie TV o omaggiando gli eroi senza nome del cinema d'azione, ovvero gli stuntman. Portare tutto questo sulla scena, dargli dignità artistica e magari avere pure successo significa tramutarsi nella cattiva coscienza del cinema contemporaneo, il che difficilmente può essere perdonato troppo a lungo dai mandarini del settore. I quali, in certe critiche sprezzanti, stanno forse cominciando a presentare il conto. Pazienza, va bene anche così. Provaci ancora Quentin.