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Gli USA e la guerra in Iraq: la raccolta del consenso (I parte)

di Lorenzo Ansaloni - 11/06/2007


 
 
   
Nel 1973, Huynh Cong Út vinse il premio Pulitzer con una foto che sarebbe stata destinata ad imprimersi nella memoria collettiva come un'icona della guerra e delle sue efferatezze. È la foto di una bambina vietnamita, Kim Phuc, che corre nuda per la strada, terrorizzata e disperata dopo un attacco con bombe al napalm sul suo villaggio. La foto fece il giro del mondo e riportò alla coscienza dell'opinione pubblica la crudeltà di una guerra che (soprattutto a partire dal 1968) diventava via via sempre più impopolare.

Si sa che la guerra è sempre sporca ma finché agli spettatori ne viene risparmiata la diretta visione risulta più facile continuare le operazioni belliche incontrando minori resistenze. L'attenzione governativa per l'informazione in tempo di guerra non nasce certo con il conflitto vietnamita ma per molti versi quest'ultimo ha rappresentato una sorta di spartiacque. Non solo lo si può considerare la prima guerra autenticamente televisiva ma è stato percepito dall'establishment politico-militare e dagli stessi giornalisti come un conflitto i cui esiti e sviluppi furono ampiamente influenzati dai mass media. Sarebbe eccessivo addossare a quest'ultimi la sola responsabilità degli esiti finali del conflitto (molti altri fattori hanno concorso) cosi pure negarne ogni rilevanza, ma sta di fatto che la percezione generale attribui ai media il ruolo maggiore nel determinare la sconfitta statunitense. Conseguentemente, i successivi governi americani non lasceranno al caso la copertura mass mediatica di un'operazione bellica che entrerà a pieno titolo tra i molteplici aspetti della sua pianificazione (Kumar 2006. p. 50).

Un sistema di controllo dell'informazione di guerra è stato approntato e affinato nel corso degli ultimi trent'anni. Testato con l'invasione di Grenada (1983), Panama (1989) e nella Prima Guerra del Golfo, trova ora la sua piena e vincente applicazione nell'attuale conflitto iracheno.

L'intervento armato in Iraq è stato giustificato e legittimato dall'amministrazione Bush sulla base di due principali tesi:
  • Il possesso di "weapons of mass destruction" (WMD) (armi di distruzione di massa) da parte del governo iracheno.
  • Legami tra il regime di Saddam Hussein e al-Qaeda.
In Italia il dibattito ha preso direzioni leggermente diverse: si è parlato abbondantemente dei presunti armamenti non convenzionali iracheni e della brutalità del regime di Baghdad, molto meno di presunti collegamenti tra il governo iracheno e al-Qaeda.

A distanza di più di quattro anni dall'inizio delle ostilità non sono state ritrovate armi di distruzione di massa su territorio iracheno né si è avuta la prova dei presunti link tra Saddam e al-Qaeda. Potrebbe anche trattarsi di un grossolano errore di valutazione ma in realtà elementi per una più attenta e ponderata analisi del "pericolo" Iraq erano disponibili ben prima del 19 marzo 2003, data d'inizio della guerra. Il 7 marzo 2003 il Direttore Generale del IAEA (International Atomic Energy Agency), l'organo incaricato delle ispezioni in Iraq dall'ONU, rilasciava una nota in cui si legge:
"After three months of intrusive inspections, we have no date found no evidence or plausible indication of the revival of a nuclear weapons programme in Iraq".

(Dopo tre mesi di ispezioni intrusive non abbiamo nessuna prova o indicazione plausibile di una ripresa irachena di un programma di armamenti nucleari)

"There is no indication that Iraq has attempted to import uranium since 1990".

(Non c'è nessuna indicazione che l'Iraq abbia tentato di importare uranio dal 1990 in poi)
Non solo le motivazioni addotte a supporto della guerra si basavano su dati falsi (e falsati) ma anche le conseguenze sono state ben diverse da quelle pubblicizzate dalla propaganda interventista. Si doveva combattere il terrorismo ma un recente frammento declassificato del National Intelligence Estimate avverte quello che non solo era prevedibile ma che oggi è sotto gli occhi di tutti:
The Iraq conflict has become the "cause celebre" for jihadists, breeding a deep resentment of US involvement in the Muslim world and cultivating supporters for the global jihadist movement.

(Il conflitto iracheno e diventato la "cause celebre" per gli jihadisti, generando un profondo risentimento per il coinvolgimento degli Stati Uniti nel mondo mussulmano e alimentando il numero di sostenitori del movimento globale jihadista.)
Il rapporto prosegue identificando nell'intervento militare una delle cause che hanno alimentato il radicalismo e portato ad una nuova generazione di terroristi dotati di una rete più decentralizzata e difficilmente individuabile.

Sul piano del bilancio delle vittime, un rapporto ("The Human Cost of the War in Iraq") dell'università di Baltimora e Baghdad, prendendo in considerazione il periodo 2002-2006, parla di un totale di 655.000 vittime dall'inizio dell'invasione (cifre ben distanti dalle 30.000 vittime dichiarate dalla Casa Bianca per lo stesso periodo) mentre il numero dei soli militari americani morti dall'inizio delle ostilità ha superato abbondantemente quota 3000 (grossomodo lo stesso numero di persone che persero la vita negli attentati del 11 settembre). Anche sul piano della stabilità il bilancio non è certo roseo: Il New York Times (1/11/2006 "Military Charts Movement of Conflict in Iraq Toward Chaos") entra in possesso e pubblica una parte di un documento classificato del Commando Centrale degli Stati Uniti. Un'unica slide, parte di un documento dedicato ad un breefing interno in cui da un grafico si evince facilmente come la situazione interna irachena sia prossima al caos. Risultato anche in questo caso non sorprendente se si pensa che l'attuale territorio iracheno non ha nessuna legittimazione dal punto di vista storico e culturale risultando, almeno in parte, un'invenzione dell'imperialismo britannico che con confini tracciati a tavolino, sancì l'attuale forma dello stato nazione comprendente tre distinte culture (Curdi, Sciiti e Sunniti) che storicamente non avevano molto a che spartire. (Cfr. Strika 1993. p. 36 e successive).

Un recente rapporto del Comitato Internazionale della Croce Rossa insiste sugli stessi punti denunciando lo stato drammatico di un paese gravemente minato nelle sue infrastrutture (sistema sanitario, acqua e elettricità in particolare) e di una popolazione civile che sta pagando il prezzo più alto del protrarsi del conflitto.

Cercherò di dimostrare nelle sezioni che seguono come i media americani abbiano fallito nel loro ruolo di controllore (watchdog) della democrazia rendendosi in buona parte responsabili degli esiti funesti dell'invasione e aggregando il consenso interno alla politica dell'amministrazione Bush.

Project for the New American Century (PNAC): il movente.


Il Project for the New American Century (PNAC) (Progetto per un nuovo secolo americano) è un'associazione no-profit fondata nel 1997 "whose goal is to promote American global leadership" (il cui scopo è di promuovere la leadership americana a livello globale).

Espressione del conservatorismo americano, la PNAC conta (o contava) tra le sue fila molti nomi illustri dell'attuale amministrazione Bush e del partito repubblicano in generale: Dick Cheney (vice presidente), Donald Rumsfeld (ex-segretario della difesa), Paul Wolfowitz (ex-sottosegretario della difesa) sono probabilmente i nomi più conosciuti. Dopo l'elezione di Bush alla Casa Bianca nel 2000 circa una ventina di membri della PNAC trovarono posto all'interno dell'amministrazione Bush a testimonianza, almeno, di una comunanza di vedute tra i principi della PNAC e le linee del governo. I primi sono stati definiti, e non senza ragione, espressione di un nuovo imperialismo americano. Negli statement of principles (dichiarazioni di principio) dell'organizzazione, leggiamo:
We need to strengthen our ties to democratic allies and to challenge regimes hostile to our interests and values.

(Dobbiamo rinforzare i nostri legami con gli alleati democratici e sfidare regimi ostili ai nostri interessi e valori.)
Più in generale, nella PNAC trovavano una realizzazione compiuta le idee che diversi falchi dell'amministrazione repubblicana erano venuti maturando dalla fine della Guerra Fredda. Già nel 1992 Wolfowitz e Libby, nel documento classificato del Pentagono Defense Planning Guidance, gettarono le basi di quella che da allora sarebbe stata conosciuta come "Dottrina Wolfowitz". Ripresa dalla PNAC, la dottrina Wolfowitz, teorizzava il ritorno ad una politica estera aggressiva sul modello reaganiano che avrebbe dovuto mirare a sbarrare la strada ad ogni potenziale sfida all'egemonia statunitense impedendo a poteri ritenuti ostili o contrari agli interessi americani di esercitare un controllo su risorse strategiche (Cfr. Ryan 2002). E che questa posizione comportasse come corollario anche una risoluzione del "problema" Iraq sembra evidente dalla lettera pubblica inviata al presidente Clinton il 26 gennaio 1998 (firmata tra gli altri da Wolfowitz e Rumsfeld):
We urge you to seize that opportunity, and to enunciate a new strategy that would secure the interests of the U.S. and our friends and allies around the world. That strategy should aim, above all, at the removal of Saddam Hussein's regime from power. We stand ready to offer our full support in this difficult but necessary endeavor.

(La incoraggiamo a cogliere questa opportunità e a enunciare una nuova strategia che garantirebbe gli interessi degli Stati Uniti e dei nostri amici e alleati nel mondo. Questa strategia dovrebbe mirare soprattutto alla rimozione del regime di Saddam Hussein dal potere. Siamo pronti a fornirle il nostro pieno supporto in questo difficile ma necessario compito.)

It hardly needs to be added that if Saddam does acquire the capability to deliver weapons of mass destruction, as he is almost certain to do if we continue along the present course, the safety of American troops in the region, of our friends and allies like Israel and the moderate Arab states, and a significant portion of the world's supply of oil will all be put at hazard.

(Non c'è bisogno di aggiungere che se Saddam acquisisse la capacità di distribuire armi di distruzione di massa, come quasi certamente farà se continuiamo nell'attuale linea politica, la sicurezza delle truppe americane nella regione, dei nostri amici e alleati come Israele, degli stati arabi moderati e di una significativa porzione delle scorte mondiali di petrolio verrebbe messa a rischio.)

We believe the U.S. has the authority under existing UN resolutions to take the necessary steps, including military steps, to protect our vital interests in the Gulf. In any case, American policy cannot continue to be crippled by a misguided insistence on unanimity in the UN Security Council.

(Crediamo che gli Stati Uniti abbiano l'autorità d'intraprendere i necessari passi (incluse azioni militari) conformemente alle esistenti risoluzioni ONU al fine di proteggere i nostri interessi vitali nel Golfo. In ogni caso, la politica americana non può continuare ad essere bloccata da una fuorviante insistenza sull'unanimità [di voto] nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU.)
Già nel 1998, la PNAC identificava nell'Iraq il principale obiettivo di quella che sarebbe dovuta essere la politica americana. Nessuna menzione del rispetto dei diritti umani, né del carattere dittatoriale del governo iracheno. Circa un mese dopo i membri della PNAC furono tra i principali sostenitori del "Iraqi Liberation Act" con cui il Congresso autorizzava lo stanziamento di 97 milioni di dollari di aiuti ai gruppi dell'opposizione irachena (ivi incluso l'Iraqi National Congress: in una certa misura una creazione artificiosa sponsorizzata con aiuti statunitensi). La volontà di occuparsi di Saddam Hussein era dunque ben presente prima degli attacchi del 11 settembre e fu ulteriormente ribadita in una successiva lettera inviata al presidente Bush il 20 settembre 2001 (9 giorni dopo l'attacco):
It may be that the Iraqi government provided assistance in some form to the recent attack on the United States. But even if evidence does not link Iraq directly to the attack, any strategy aiming at the eradication of terrorism and its sponsors must include a determined effort to remove Saddam Hussein from power in Iraq.

(Potrebbe essere che il governo iracheno abbia fornito una qualche forma di assistenza ai recenti attacchi agli Stati Uniti. Ma anche se non c'è nessuna prova che colleghi l'Iraq all'attacco, ogni strategia tesa ad eradicare il terrorismo e i suoi sponsor deve includere un deciso sforzo indirizzato alla rimozione di Saddam Hussein dal potere.)
Documento interessante nella misura in cui testimonia la propensione per un intervento armato in Iraq anche in assenza di una diretta evidenza di connessioni tra Baghdad e al-Qaeda (Cfr. Calabrese 2005). Nel meeting del 12 settembre 2001 (il giorno dopo l'attacco terroristico al World Trade Center) del National Security Council (NSC), Rumsfeld e Cheney si dichiararono a favore di un'immediata azione nei confronti di Saddam Hussein incontrando però l'opposizione di Powell che ammonì il presidente ricordando come ogni azione necessiti dell'appoggio dell'opinione pubblica (Altheide and Grimes 2005, Foyle 2004). L'intervento in Iraq fu rimandato al fine di guadagnare il tempo necessario per organizzare e raccogliere il consenso necessario.

In conclusione, l'invasione del Iraq e il cambiamento di regime erano già stati pianificati e messi in agenda prima degli attacchi terroristici e prima della vittoria repubblicana alle elezioni del 2000. Bush in in certo senso ha ereditato o sposato una linea di politica estera che aveva avuto la sua gestazione tra le fila della PNAC.

Lo studio di Kull sulle Misperceptions

Steven Kull (insieme a Clay Ramsay e Evan Levis) dell'Università del Maryland hanno pubblicato un articolo su Political Science Quarterly che ha avuto molta risonanza in ambiente accademico. Avvalendosi di una serie di sondaggi, Kull ha condotto una studio finalizzato a rintracciare la presenza di tre principali misperceptions (false credenze) nel pubblico americano mettendole di volta in volta in correlazione con i mass media a cui i soggetti erano esposti e con la decisione finale di accordare o meno il loro supporto all'intervento militare in Iraq. Sono state prese in considerazione tre misperceptions:
      1- È stata trovata una chiara evidenza di una collaborazione tra il governo di Saddam Hussein e al-Qaeda.
      2- Armi di distruzione di massa (WMD) sono state trovate in Iraq.
      3- L'opinione pubblica mondiale, nel suo complesso, supportava la decisione degli US di una guerra in Iraq.
Tutte queste credenze sono false e contrarie ai fatti. Prima dell'inizio della guerra la credenza che l'Iraq possedesse WMD, propriamente parlando, non poteva considerarsi una credenza falsa perché mancavano prove della sua falsità. In analoga misura, mancando prove a sostegno della sua validità, andava considerata semplicemente come una credenza infondata e non supportata da nessuna evidenza, solo probabilmente falsa dati i resoconti degli ispettori dell'IAEA. Diverso è il caso della credenza "Sono state ritrovate WMD in Iraq": dopo l'inizio del conflitto ad oggi, questa affermazione è semplicemente falsa e contraria ai fatti. Misperception è da intendersi in quest'ultima accezione. Le tre credenze sopra elencate sono quindi da considerarsi tutte allo stesso modo false (per un quadro sugli andamenti dell'opinione pubblica mondiale sull'intervento armato in Iraq si veda Goot 2004).

Il primo risultato, se vogliamo il meno interessante, è una diretta proporzionalità tra la presenza di false credenze in un campione di riferimento e la sua propensione a dichiararsi favorevole ad un intervento armato in Iraq. I soggetti il cui giudizio era inficiato da una o più delle misperceprions prese in esame si è dimostrato 4,3 volte più favorevole alla guerra rispetto a soggetti che non presentavano nessuna di queste misperceptions (Kull, Ramsay, Lewis 2003-04 p.580). Il passo successivo consisteva nell'investigare la possibile fonte delle false credenze: il campione (3334 soggetti) preso in esame ha dichiarato per il 19% di informarsi principalmente attraverso i quotidiani e per un 80% attraverso telegiornali televisivi. I risultati mostrano come i soggetti che seguivano e ottenevano le loro informazioni attraverso alcuni network erano più soggetti al formarsi di false credenze rispetto ad altri. Una classifica globale delle tre misperceptions in questione assegna la maglia nera dell'informazione a Fox News: l'80% dei suoi ascoltatori presentava una o più false credenze, seguita da CBS (71%), ABC (61%), CNN (55%), NBC (55%), quotidiani e carta stampata (47%), NPR/PBS (23%) (Kull, Ramsay, Lewis 2003-04 p.582). Sfortunatamente Fox News è il più seguito mentre i due network pubblici NPR e PBS sono il fanalino di coda in termini di ascolti.


Sorprendentemente, quando si è passati all'analisi del livello di attenzione nel guardare o leggere le news, si è notato come non vi fosse nessuna significativa correlazione tra esso e la probabilità di sviluppare false credenze con una singola eccezione: Fox News. In questo caso all'aumentare del grado di attenzione con cui i soggetti seguivano le news, si è riscontrato un aumento percentuale delle false credenze (sull'atteggiamento parziale di Fox News si veda anche Ryan 2006 e Kellner 2004a). Lo studio di Kull identifica nella presenza delle false credenze il fattore più importante nel predire il supporto alla guerra (Kull, Ramsay, Lewis 2003-04 p.596) tallonato a breve distanza dall'intenzione di votare per il presidente Bush e il fatto che i media americani siano la principale fonte di queste false credenze non può non risultare preoccupante.

I media (in buona parte) hanno fallito nel loro ruolo di watchdog della democrazia assumendo posizioni in alcuni casi schiettamente filo governative (es. Fox News) e abbandonando ogni pretesa di obbiettività e ogni spirito critico. Noi ci basiamo su informazioni nei nostri processi decisionali più semplici: se dobbiamo sbrogliare una certa pratica burocratica cerchiamo di informarci preventivamente sugli orari di apertura dell'ufficio preposto e pianifichiamo la nostra agenda di conseguenza. Se questa informazione dovesse risultare falsa rischiamo di trovare l'ufficio chiuso. Una decisione come quella di accordare o meno il supporto all'intervento armato in Iraq non è sotto questo rispetto molto differente: le informazioni ottenute dai media (semplificando) andranno a costituire gli assiomi o le premesse dei ragionamenti che addurremo pro o contro una tale decisione ma se queste premesse sono false è ovvio che la correttezza della conclusione non può più essere garantita.

Manipolazione dell'informazione e propaganda: Gli arnesi del mestiere

Senza quanto accaduto l'11 settembre nessun intervento armato (in Afghanistan o in Iraq) sarebbe stato possibile (Cfr Foyle 2004). L'opinione pubblica americana è tradizionalmente contraria a interventi armati contro altri stati ammenoché non vi sia una minaccia diretta per la sicurezza nazionale.

Nei giorni immediatamente seguenti l'attacco, il supporto interno per un intervento armato era molto alto: il 15 settembre (quattro giorni dopo l'attacco) un sondaggio condotto per Gallup/CNN/USA Today indicava in Osama bin Laden il principale responsabile dell'attacco (64%) seguito dall'Iraq (41%) mentre parte del campione nominava anche i palestinesi (35%) e il Pakistan (31%) (Foyle 2004). L'opinione pubblica, nonostante identificasse come primo responsabile bin Laden, era per certi versi pronta a supportare una reazione contro l'Iraq (Cfr. Althaus, Largio 2004). Data la volontà dell'amministrazione di occuparsi della questione Iraq (preesistente agli attacchi del 11 settembre: vedi sezione sulla PNAC) rimane aperta la questione del perché il governo non abbia colto la palla al balzo e attaccato immediatamente Baghdad. A questo proposito va detto che scegliere di non occuparsi di al-Qaeda e attaccare direttamente l'Iraq avrebbe suscitato molte perplessità: se è vero che il supporto per un'azione militare fu molto alto nei giorni seguenti all'attacco terroristico alle Twin Tower è altrettanto vero che il principale responsabile venne individuato in bin Laden. Un attacco diretto all'Iraq sarebbe risultato incomprensibile non solo per gran parte dell'opinione pubblica americana ma anche e soprattutto per l'opinione pubblica mondiale. Non ultimo sarebbe risultato estremamente problematico ottenere una qualche forma di legittimazione dall'ONU. In un sondaggio (del 12/8/2002) dell'ABC News/Washington Post il 75% del campione ritenne che Bush dovesse ottenere il consenso del Congresso prima di intraprendere un'azione militare contro l'Iraq e in un altro sondaggio commissionato da Gallup/CNN/USA Today, il 68% degli intervistati ritenne necessaria un'approvazione dell'ONU (Foyle 2004, p.278). Un'azione unilaterale contro Baghdad nelle prime settimane o mesi seguenti l'attacco dell'11 settembre sarebbe quindi risultata estremamente problematica dal punto di vista della raccolta del consenso sia interno che internazionale e un attacco simultaneo ad entrambi gli obiettivi (Afghanistan e Iraq) troppo dispersivo e rischioso (Foyle 2004, p.275). Nell'amministrazione americana ha prevalso quindi una tattica più prudente e accurata: nelle parole di Colin Powell: "Any action needs public support. It's not just what the international coalition supports; it's what the American people want to support. The American people want us to do something about al Quaeda" (Foyle 2004, p.275) (Ogni azione necessita del supporto dell'opinione pubblica. Il punto non è solo cosa la coalizione internazionale sia disposta ad appoggiare ma anche cosa gli americani vogliano appoggiare. Gli americani vogliono che si faccia qualcosa per al Quaeda).

La raccolta del consenso attuata dall'amministrazione Bush non è stata quindi lasciata al caso ma ha assunto la forma di un piano particolarmente curato che possiamo riassumere nei seguenti punti:
  • Uso di artifici retorici o di vere e proprie fallace logiche nei discorsi ufficiali
  • Uso di giornalisti embedded
  • Uso di informazioni false, parziali o decontestualizzate
Fonte: http://asfalto_bagnato.blog.tiscali.it/
Link: http://asfalto_bagnato.blog.tiscali.it/gm3289987/