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Il Malawi e il marketing della saggezza

di J.C. Chakanza - 11/06/2007

Nei negozi del Paese africano briciole di sapienza tradizionale e proverbi hanno preso il posto delle usuali insegne commerciali. Scritte che rivelano la concezione che si ha della ricchezza e della povertà, riflettono le aspirazioni più profonde e nascoste del cuore umano e della cultura locale

 

«Presa la decisione d’iniziare un’attività, la discussione si focalizza sul nome da dare all’impresa. Un nome che viene scritto a lettere cubitali sul frontone del negozio, sulla lastra di vetro che racchiude la vetrina, sul muso del pulmino, sul carter della bicicletta, sul cartello appeso al collo del venditore ambulante... In questo, la cultura orale africana non ha per nulla faticato ad assimilare la scrittura, o meglio la scritta, l’emblema, il simbolo, il segno, l’insegna»

Grazie alle crescenti opportunità offerte dalla nuova economia di mercato all'iniziativa privata, in Malawi si assiste a una sempre maggiore propensione da parte delle imprese - pubbliche e private, familiari e individuali - a investire denaro in attività commerciali. Sempre più persone partecipano a questo boom di attività commerciali. Frotte di donne e giovani uomini sono in costante movimento - spingendosi fino in Sudafrica - per acquistare beni da commerciare. La gente comune non deve più percorrere decine di chilometri per comprare beni di consumo, divenuti oggi indispensabili: li trova nel negozietto vicino o al mercatino zonale.
La creazione di associazioni di venditori e di operatori di minibus (il trasporto è ancora quasi del tutto privato) è la prova provata della serietà con la quale la gente è ormai entrata decisamente nell'arena commerciale.
In Africa, anche nell'ambito del commercio vale il principio secondo cui nel nome (nomen) è racchiuso un presagio (omen), quando non addirittura l'intero destino. Presa, pertanto, la decisione d'iniziare un'attività, la discussione si focalizza sul nome da dare all'impresa. Un nome che viene, poi, scritto a lettere cubitali sul frontone del negozio, sulla lastra di vetro che racchiude la vetrina, sul muso del pulmino, sul carter della bicicletta, sul cartello appeso al collo del venditore ambulante... In questo, la cultura orale africana non ha per nulla faticato ad assimilare la scrittura, o meglio la scritta, l'emblema, il simbolo, il segno, l'insegna...
Mi ha sempre interessato lo studio dell'azione esercitata sull'opinione pubblica per diffondere idee o per far conoscere determinati prodotti commerciali, quell'arte, cioè, che in Occidente è denominata "pubblicità". Anche durante le ultime vacanze, mi sono divertito a raccogliere le "scritte" poste in bella vista su un'ottantina di negozi dei centri commerciali rurali di Liwonde, Mangochi Turn-Off, Chiendausiku, Balaka, Zalewa Turn-Off, Phalula e Zalewa.
La mia ricerca è stata interessante e entusiasmante, proprio perché tutti - nessuno escluso - m'hanno raccontato "le storie" che si celavano dietro le scritte scelte come insegne. Non ho incontrato la minima difficoltà a farmi dire da ciascuno la propria affiliazione religiosa: cristianesimo tradizionale (cattolici e presbiteriani), cristianesimo post-classico (avventisti del settimo giorno e battisti), musulmani, seguaci delle religioni tradizionali e - un paio soltanto - "appartenenti a nessun gruppo". La conoscenza del loro retroterra religioso mi ha consentito di notare come le "insegne" riflettevano sorprendentemente la concezione che ogni fede o denominazione ha dei beni terreni e le particolari esperienze interiori vissute dai proprietari nell'acquisire ricchezza. Non sono mancati, qua e là, espressioni di una visione più moderna della ricchezza e di un'etica del lavoro.
Gli 80 "nomi" raccolti possono essere suddivisi in tre categorie. Ci sono parole o espressioni che riconoscono la benevolenza di Dio ed esprimono riconoscenza per il dono ricevuto: Mulungu sakonda m'modzi (Dio non privilegia solo una persona); Mulungu ali nafe (Dio è con noi); Timuyamike Mulungu (Noi lodiamo/ringraziamo Dio); Yesu Wabwino (Gesù è buono); Tidalitseni (Benedicici [oh Signore!]); Zodabwitsa (Meraviglioso); Mpumulo (Il riposo [promesso da Dio]).

Emerge in modo evidente la convinzione che l'acquisizione della proprietà è un dono gratuito di Dio e, come tale, dovrebbe essere accolto e riconosciuto con gratitudine. Questo atteggiamento religioso spicca soprattutto nelle insegne scelte da coloro che si professano cristiani o musulmani. Alcune insegne alludono a particolari rapporti o atteggiamenti sociali richiesti nel contesto di una transazione commerciale: Tiyanjane (Rimaniamo amici); Ulemu (Sii rispettoso); Chifundo (Sii magnanimo); Ana akapata, akulu sakondwera (Quando i giovani comprano qualcosa, i vecchi non sono soddisfatti). Altre accennano a tecniche di vendita, come Ale keni anene (Lasciamoli parlare; prima o poi si arriva a un accordo sul prezzo) o agli ostacoli che sempre si frappongono in un'attività di commercio: Ndaziona (Ho incontrato difficoltà). Per tutti vale la regola: Jelasi siyapindula (Non serve essere gelosi).
Le spiegazioni che mi sono state date hanno sottolineato il fatto che la ricchezza è sempre acquisita in un contesto comunitario e non dovrebbe favorire solo il proprietario, ma la comunità tutta. Molti mi hanno parlato di "gelosia". Un macellaio: «Alcuni membri della tua stessa comunità, in particolare parenti stretti, non sembrano riuscire a essere felici quando ti vedono migliorare la tua posizione sociale. Devi cercare di tenerli buoni, mostrando loro generosità». Il proprietario di una ferramenta: «Un imprenditore deve essere deciso e non lasciarsi mai scoraggiare dalle maldicenze degli altri».
Molti sono i riferimenti a quella che può essere definita un'«etica del lavoro»: Mwai kusowa (la fortuna è rara; devi darle una mano); Kusowa kupusitsa (la mancanza di proprietà fa sembrare stupidi); Chibwana chilanda (la puerilità ti deruba); Umodzi ndi mphamvu (l'unione fa la forza); Osauka satopa (i poveri non devono mai stancarti); Zonse ndi moyo (tutto [il successo] dipende dalla vita); Khama langa ([tutto quello che vedi] è dovuto al mio zelo). L'enfasi viene posta sull'atteggiamento che ognuno ha verso il lavoro e il conseguimento della ricchezza. Ogni persona deve lavorare sodo per migliorare la propria condizione. La pigrizia è sempre controproducente e disumanizza.

Nella società tradizionale il divario tra ricchi e poveri non era mai molto grande e la povertà era, più o meno, data per scontata. Anche il "ricco", in realtà, possedeva poco più degli altri. Grazie alla prospettiva comunitaria dettata dal clan o dalla famiglia estesa, non si eccedeva mai nel possesso di beni: la condivisione obbligatoria militava contro l'eccessiva (quindi, ingiusta) ricchezza. Nella vita moderna malawiana, invece, la ric chezza è cercata come "valore primario" ed è invidiata quando la si vede in mani altrui. D'altra parte, il divario tra ricchi e poveri si allarga ogni giorno di più. I maggiori sforzi sembrano convogliati nell'accumulare denaro e beni materiali. La competizione, avvertita come un valore irrinunciabile, sta prendendo il posto della cooperazione.
Le espressioni raccolte rivelano la concezione che una persona ha di ricchezza e riflettono le sue aspirazioni, i suoi desideri più profondi e nascosti, ma anche i suoi timori. La ricchezza è difficile da mantenere: com'è venuta, così può andarsene . Oggi è qui, domani non c'è più. Emblematica la chilometrica espressione letta su un'insegna: Kulemera ndi mchira wa khoswe, suchedwa kupululuka (I beni sono come la coda di un ratto: non ci vuole molto perché si stacchi).

I ricchi spesso si sentono bersagli di odiose pratiche, quali l'estorsione e il sequestro a scopo di lucro, o vittime di calunnie, pettegolezzi e forze malefiche scatenate contro di loro con arti magiche. Sanno anche che i poveri li considerano vanitosi, presuntuosi, orgogliosi, amanti delle adulazioni e, nel contempo, sospettosi degli stessi amici. Da qui, il loro desiderio di prendere posizione contro tutto ciò, servendosi di messaggi che mirano a neutralizzare possibili atteggiamenti negativi nei confronti di chi ha fatto fortuna con il lavoro e l'iniziativa privata, o addirittura passano all'attacco, descrivendo la povertà come originata dalla stupidità e dalla pigrizia. L'attuale partito al potere, del resto, sembra dare loro ragione. I nuovi leader, dopo aver ribadito il proprio impegno per "la riduzione e lo sradicamento della povertà" (è lo slogan più ripetuto oggi), si affrettano ad aggiungere, rivolgendosi ai poveri: «Se non vi rimboccate le maniche, sarà tutto inutile».
Contro la gelosia - un atteggiamento che è radicato nel popolo e può essere molto distruttivo, perché strettamente legato alla "stregoneria" - un pescivendolo ha fatto ricorso al proverbio Nkhuku ya njiru siyiswa ("un pollo geloso non cova i pulcini"). M'ha spiegato: «Spesso il pollo geloso è un pollo povero, che vorrebbe impedire a un altro pollo povero di migliorare la propria posizione». La moglie, comunque, ha controbilanciato l'opinione del marito: «Chi ha, tende a diventare avido. Dovrebbe, invece, ricordare che non può avere l'intero mondo ai propri piedi. Dovremmo imparare tutti ad accontentarci di quello che abbiamo e farne buon uso».