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Terra e violenze per produzioni disutili

di redazionale - 11/06/2007

La Coca Cola made in India ci ricasca. Come riferisce www.oneworld.net, una missione in loco dell'associazione India Resource Center con base negli Usa ha trovato che nello stato indiano dell'Uttar Pradesh diversi impianti di produzione del noto bibitone utilizzano terre comunitarie come discariche per gli scarti chimici solidi e riversano acque reflue non depurate nei canali che alimentano il fiume Gange. Già nel 2003, l'ente statale Central Pollution Control Board of India controllò otto impianti di imbottigliamento in giro per il paese e trovandovi livelli elevati di metalli pesanti - piombo, cadmio, cromo - ordinò alla compagnia di trattare scarti e acque reflue.
Pochi giorni fa la multinazionale di Atlanta ha annunciato il sostegno a un piano ambientale di 20 milioni di dollari per proteggere sette dei bacini fluviali più a rischio al mondo. Il solito green washing, l'ha definito l'India Resource Center: «Coca Cola deve riconoscere di essere parte del problema e non della soluzione, quanto a insostenibilità idrica in India e altrove». La multinazionale dell'effimero zuccherato, con l'acqua ha molto a che fare: non solo quella necessaria a produrre la bibita (soprattutto nell'irrigazione della canna da zucchero da cui si estrae uno dei suoi componenti), ma anche perché è ormai fra le regine dell'acqua in bottiglia, il gigantesco business che ogni anno a livello mondiale assorbe - secondo l'Earth Policy Institute - incredibili 100 miliardi di dollari, quando con una somma molto inferiore si potrebbe assicurare l'accesso all'acqua potabile a mezzo miliardo di persone.
La nota bevanda è sotto pressione: negli ultimi sei mesi 25 università anglosassoni l'hanno estromessa dalle onnipresenti macchinette, in seguito alle denunce di furto dell'acqua comunitaria nei villaggi nel Kerala (India del Sud) e di repressione antisindacale in Colombia.
E passando dalla Coca Cola alla coca e dall'India alla Colombia ecco che, come informa il quotidiano inglese Guardian, le immagini satellitari riprese dall'ufficio della Casa Bianca per il controllo delle droghe danno un brutto colpo al Plan Colombia patrocinato dagli Usa per la sedicente lotta alla droga: la coltivazione della materia prima della cocaina è cresciuta dell'8 per cento l'anno scorso, e del 27 per cento da quando, nel 1999, fu varato il Plan Colombia inizia con l'obiettivo di dimezzare la produzione di coca colombiana entro cinque anni, con operazioni militari (e paramilitari) e fumigazioni aeree - più volte denunciate da organizzazioni contadine, ambientaliste e per i diritti umani per il loro impatto sulla salute e sulle coltivazioni.
Ma per i villaggi colombiani tartassati dalla violenza negli ultimi anni si è profilata un'altra tragedia: gruppi paramilitari stanno estromettendo indigeni e coltivatori dalle loro terre per far posto alle piantagioni di palma da olio, materia prima per i «carburanti verdi» la cui domanda estera cresce. Quattro anni fa il paese non produceva un solo litro di agrodiesel, oggi è arrivato a 1,2 milioni al giorno, si è vantato il presidente Alvaro Uribe. Ma lo stesso governo ha dichiarato che in certe aree l'80 per cento della terra a palma da olio ha titoli irregolari. Secondo le denunce delle organizzazioni indigene, di Christian Aid e della stessa Fedepalma, federazione nazionale dei produttori di olio di palma, il nuovo business fa gola a grosse compagnie, ai paramilitari di destra e forse anche a gruppi armati di diverso e opposto schieramento. A differenza della coca, finora il principale introito dei gruppi armati, la palma da olio è perfettamente legale anzi incoraggiata e al riparo dal Plan Colombia e dalle sue fumigazioni. Ogni anno, secondo l'Alto Comm.Onu per i rifugiati, dalle zone in cui si coltiva sempre più palma (sulla costa caraibica) fuggono dalle minacce e dalle aggressioni 200 mila persone, aggiungendosi ai tre milioni di colombiani che nei decenni hanno lasciato le loro case.