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In Italia si muore di lavoro

di Daniela Gregorio - 12/06/2007

 

 

Oggi ospito sul blog il racconto di una cara amica. E’ una storia triste che riguarda l’ennesima tragedia consumatasi sul posto di lavoro, sette anno or sono, e in uno dei settori lavorativi più a rischio per assenza di controlli e violazione delle norme sulla sicurezza, quello dell’edilizia. Siamo a Laurino, in provincia di Salerno, un luogo bellissimo nel cuore del Parco Nazionale del Cilento. Laurino è un paesino difficile da raggiungere, con le strade che si abbarbicano sulle montagne e lo stomaco che ti si attorciglia ad ogni curva che lambisce i massicci.  Ma alla fine della salita ti si apre davanti un panorama meraviglioso con un paesaggio incontaminato che non è cambiato con il trascorrere del tempo. Da qui i giovani sono costretti fuggire perché non c’è lavoro, come per tante altre zone del sud, belle e tristi al contempo. Per questi ragazzi ci sono solo due possibilità: o emigrare in altre città d’Italia (ma anche all’estero) oppure sottostare alle pretese di chi controlla l’economia cittadina, a condizioni non sempre dignitose. Mentre passeggiavo tra le strade del paesino ho visto una scritta sul muro che diceva: “Suino tra noi”. Suino era un giovane di Laurino che, qualche mese fa, è morto in seguito ad un incidente sul lavoro in uno dei tanti cantieri edilizi del nord, aveva appena 22 anni. Una storia che si ripete in questo sud malandato che spinge i propri figli a fare fagotto. Certo, nulla a che vedere con gli emigranti che lasciavano queste terre nei primi anni del ‘900 o durante il boom economico. Ma oggi come ieri il capitalismo italiano svela le sue diverse velocità…

Storia triste, dicevamo, quella di Daniela (altri due fratelli entrambi emigranti, uno in Germania e l’altro in Emilia) perchè ha perso il papà in un cantiere edilizio del suo paese (dopo anni di lavoro  in Germania) dove, pare, che le norme sulla sicurezza non fossero affatto una priorità per i proprietari dell’impresa. Attualmente è ancora in corso l’ indagine della magistratura, ma le solite lungaggini giudiziarie e l’approssimarsi dei termini di prescrizione potrebbero lasciare impunito quello che, se le responsabilità dovessero essere pienamente accertate, sarebbe un omicidio in piena regola. Invece le chiamano morti bianche, come per mettere preventivamente le mani avanti e predisporre la gente al “gioco” della fatalità, ad un elemento soprasensibile che andando oltre la volontà umana sgraverebbe dalla colpa. Ma così non è. Daniela merita una risposta, così come la meritano tutte quelle famiglie che hanno perso dei congiunti a causa di una “malattia” sociale che colpisce le fasce più deboli della collettività, oggi come ieri. Dal 2000 al 2006 le morti bianche in Italia sono state più dei morti della guerra in Iraq, altro che fatalità e destino! Qui siamo ad un vero e proprio bollettino di guerra! Ma Lascio a lei la parola.

 

 

PER NON DIMENTICARE di Daniela Gregorio

 

 

Sono alle prese con l’unico mezzo a disposizione che rimane per denunciare ancora una volta una grave mancanza delle istituzioni che dovrebbero garantire prima il rispetto dei diritti sacrosanti che tutelano la vita umana, e poi, laddove si verifichino delle mancanze gravi e non totalmente governabili, assicurare la giustizia. Purtroppo quando si ci ritrova ad essere privati totalmente delle tutele contemplate nella tanto invidiata Costituzione, allora mi viene il dubbio che non sia totalmente vero l’assunto secondo il quale “siamo tutti uguali davanti alla legge”!! Ma entro nel merito della questione.

Giugno 2000- mio padre svolgeva, come era solito fare da 43 anni, il proprio lavoro in un cantiere edile con la dedizione e la precisione che lo contraddistingueva da sempre, e con la competenza acquisita da 25 anni di lavoro all’estero. Ma in una giornata di apparente serenità svanisce per sempre il suo desiderio di veder realizzati i propri figli e di continuare ad essere il solido ed instancabile riferimento della sua famiglia. A causa della superficialità altrui mio padre perde la vita perché lavorava. È  stato calpestato in un attimo il diritto sacrosanto alla vita, e solo perché non c’è stata né la competenza, né, soprattutto, la volontà di adoperare tutte le misure di sicurezza  indispensabili per tutelare l’incolumità dei lavoratori. Bastava mettere in pratica quello che i dettati legislativi prevedono, ma è ormai una prassi consolidata predisporre i piani di sicurezza solo su carta, adempiendo così a quello che la legge impone e nella pratica risparmiare tempo e denaro, lavorando ai limiti della sopravvivenza. Il problema di eludere il controllo non si pone proprio perché i controlli non avvengono nell’ottanta per cento dei casi, e i soggetti preposti allo svolgimento degli stessi spesso non hanno le competenze necessarie. Quindi per tutta una serie di mancanze, mio padre è diventato una delle migliaia di “morti bianche” che ogni giorno affollano notiziari e giornali. Stando ai dati INAIL negli ultimi cinque anni si sono verificati quasi 7.000 morti: 1280 solo nel 2006! Una media di 4 “caduti” al giorno, che nei primi mesi del 2007 arriva addirittura a 8 vittime! L’85% degli incidenti mortali avviene nell’ambito degli spudorati meccanismi dei sub-appalti. Sono morti annunciate, eppure non tanto eclatanti da determinare delle reazioni incisive e di svolta. Ci si limita a parlarne, a fare qualche spot quando il picco si alza, ma non si affronta mai seriamente il problema.

Ma dopo la tragedia non ci restava che affidarci alla giustizia per trovare delle risposte a quanto accaduto e per appurare le responsabilità. È cosi che ci dichiariamo parte civile nel processo penale che vede come indagati i titolari della ditta presso cui lavorava mio padre. La voglia di giustizia era, ed è, un mezzo per veicolare la nostra rabbia che sembrava inascoltata. In questi sei anni di processo, un’udienza all’anno, è stata una corsa contro il tempo: aspettare ogni volta per un intero anno per ascoltare pochi minuti di udienza. Ma proprio un anno fa sembrava che si stesse avvicinando la fine, doveva essere sentito l’ultimo teste per avviare cosi la fase dibattimentale, ma ci giunge, come una doccia fredda, l’annuncio che il giudice aveva chiesto e ottenuto il trasferimento. Risultato: è un anno che aspettiamo l’udienza con il nuovo giudice e molto probabilmente il processo dovrà essere rifatto. In termini concreti il reato se commesso andrà in prescrizione, e mio padre e noi non avremo giustizia!!! Quindi siamo doppiamente vittime, di un sistema che non è stato in grado di tutelare l’incolumità di un lavoratore, e delle istituzioni che non riescono nemmeno a garantire dignità alle vittime dando loro giustizia. Ma come è possibile che si verifichino queste vergognose mancanze? Ci sarà un modo per fare ascoltare le nostre voci? Perché come me, sono a migliaia le vittime inascoltate. In questo modo i caduti sul lavoro continueranno a essere considerati, dalla maggior parte del popolo, vittime del fato e della sfortuna, come purtroppo avverto ogni qualvolta si annuncia una nuova vittima, e dai “padroni” solo normali incidenti di percorso, quasi da mettere in previsione, perché rispettare la prassi è più conveniente. Morale della storia: da tutti i fronti c’è un induzione alla rassegnazione, al silenzio, all’impotenza....ma solo per chi non ha voglia e voce per urlare contro l’indifferenza, e forza per difendere chi una voce non c’è l’ ha più.