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Occidente, Oriente, Animismo

di Guido della Casa - 12/06/2007

Fonte: concezionedelmondo


 


Noi crediamo che Dio sia in tutte le cose: nei fiumi, nell’erba, nella corteccia degli alberi, nelle nuvole e nelle montagne.
Espressione di una cultura africana

In Ani Yonwiyah, la lingua del mio popolo, c’è una parola per indicare il suolo: Eloheh. Questa stessa parola significa anche storia, cultura e religione. La ragione di ciò sta nel fatto che noi indiani Cherokee non possiamo separare il nostro posto sulla terra dalla nostra vita e neppure dalla nostra visione e dal nostro significato come popolo. Impariamo sin da bambini che animali, alberi e piante, con cui dividiamo il posto sulla terra, sono nostri fratelli e sorelle.
Quando dunque parliamo di suolo, non parliamo di una proprietà terriera, di un luogo e neppure del pezzo di terra su cui sorgono le nostre case e dove crescono i nostri raccolti. Parliamo invece di un qualcosa di veramente sacro.

J. Durham, indiano Cherokee

Potete visitare tutta la Terra, ma non troverete in alcun luogo la vera religione; essa non esiste che nel vostro cuore.
Ramakrishna

Non facendo nulla, non c’è nulla che non venga fatto.
Lao-Tze

E’ la storia di tutta la vita che è santa e buona da raccontare e di noi che la condividiamo con i quadrupedi e gli alati dell’aria e tutte le cose verdi: perché sono tutti figli di una stessa madre e il loro padre è un unico Spirito. Forse che il cielo non è un padre e la Terra una madre e non sono tutti gli esseri viventi con piedi, con ali e con radici i loro figli?
Alce Nero

Premesse
Molti modi di pensare, o idee-guida, diffusi nel pensiero corrente, sono recepiti come premesse evidenti e naturali o come tendenze proprie della natura umana: sono invece assai spesso soltanto cornici concettuali della cultura occidentale, cioè pregiudizi.

Il senso comune (o buon senso) designa il complesso dei pregiudizi della cultura in cui siamo stati allevati. Qui la parola “pregiudizi” non ha significato negativo ma è quel complesso di idee in cui inquadriamo ogni evento: si tratta però di un sottofondo variabile e relativo, non di una verità evidente.

Al solo scopo di una maggiore chiarezza, suddividerò le culture umane in tre gruppi:

- le culture di tipo occidentale, quelle che hanno come mito delle origini la Genesi dell’Antico Testamento, cioè in pratica le culture ebraico-cristiana e islamica, fiorite originariamente in Europa e nel Medio Oriente. Esse hanno in comune:
* l’idea dell’espansione: infatti vogliono convertire tutto il mondo al proprio sottofondo culturale;
* un atteggiamento di sopraffazione sul resto della Natura, considerata al servizio della nostra specie;
* una percezione lineare del tempo;
* la convinzione che esista un’unica verità.

- le culture di tipo orientale, fiorite soprattutto in Asia, con tre filoni principali: il Buddhismo, l’Induismo e il Taoismo. Esse sono caratterizzate da:
* l’idea dell’Essere come immanenza cosmica, tranne che nel Buddhismo dove si arriva al superamento di ogni dicotomia, comprese quelle di immanenza-trascendenza e di Essere-Nulla;
* l’importanza fondamentale attribuita all’idea di equilibrio sia interiore sia cosmico-naturale;
* la ricerca della serenità mentale come scopo essenziale;
* una percezione ciclica del tempo.

- le culture di tipo animista, fiorite in tutto il mondo per decine di millenni. Erano caratterizzate in genere da una integrazione completa nell’ambiente naturale e climatico in cui vivevano e di cui si sentivano parte inscindibile: elaboravano complesse metafisiche legate al mondo naturale. Le abbiamo chiamate anche civiltà tradizionali. Per le culture animiste il mondo è un flusso di forze psichiche: il ciclo vitale umano deve integrarsi nella più grande vita-morte dell’Universo.

Atteggiamenti verso l’ecologia profonda
Perché i fondamenti dell’ecologia profonda possano farsi strada nell’animo umano, occorre sottoporre a critica le concezioni derivate dal racconto biblico della Genesi e che sono divenute “evidenti” per la cultura occidentale, cioè capovolgere l’atteggiamento di aggressione verso la Natura e di indifferenza per la bellezza del mondo.
E’ evidente che ci sono molti occidentali con visioni del mondo diverse, almeno a livello intellettuale e cosciente, ma i modi del pensiero e l’atteggiamento inconscio possono differire non poco da quanto consegue dai ragionamenti.
Comunque qui non intendo parlare del pensiero individuale.
Per dare poi un piccolo sguardo al secondo gruppo di culture, riportiamo questo brano tratto da un testo ispiratore della cultura indù:

I fiumi, o caro, scorrono gli orientali verso oriente, gli occidentali verso occidente. Venuti dall’Oceano celeste, essi nell’Oceano tornano e diventano una cosa sola con l’Oceano. Come là giunti non si rammentano di essere questo o quest’altro fiume, proprio così, o caro, i viventi, che sono usciti dall’Essere, non sanno di provenire dall’Essere. Qualunque cosa siano qui sulla Terra - uomo, tigre, leone, lupo, cinghiale, verme, farfalla - essi continuano la loro esistenza come Tat (30). Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’Universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l’Atman. Essa sei tu, o Svetaketu. (31).

E’ chiara la profonda differenza di concezione rispetto alla Genesi.
In queste concezioni metafisiche manca il rapporto dualistico, né si trova quella contrapposizione uomo-natura propria dell’Occidente. Anziché tre piani ben distinti come Dio-uomo-natura (nel materialismo restano gli ultimi due, ma sempre contrapposti), troviamo il Dio-Natura onnipresente e indistinguibile dall’universale.
Assai semplice poi è la prima indicazione dell’etica buddhista: “Non danneggiare alcun essere senziente”. Con il termine “senziente” si può anche indicare una specie, un ecosistema, o entità di quel tipo, in quanto dotate di una forma di mente.
Solo alcune filosofie orientali raccomandano di diventare quasi-vegetariani; ma in generale chiedono di rispettare la Vita in tutte le sue componenti. Invece le morali delle tradizioni giudaico-cristiana e mussulmana, in accordo con le posizioni espresse nella Genesi, si occupano esclusivamente di valori e rapporti interni alla nostra specie, come se tutto il resto fosse solo un palcoscenico, o “l’ambiente”.
Per quanto riguarda poi le varie forme di animismo che sono state presenti nell’umanità un po’ dovunque, è abbastanza evidente che in queste visioni del mondo non siamo gli unici esseri dotati di “spirito”: una dicotomia di questo genere sarebbe probabilmente impensabile per chi ha vissuto a contatto con gli oranghi o i gorilla. Ma dovrebbe essere inconcepibile anche per chi conosce la natura dei fenomeni vitali e il quadro unitario fornito dall’evoluzione biologica.
Comunque, anche presso di noi, possiamo notare che l’animismo è spontaneo nei bambini: sono i condizionamenti culturali che lo cancellano.
Facciamo ancora qualche esempio:
I Lapponi considerano l’orso re degli animali, forse perché riesce a stare ritto sulle zampe posteriori prendendo atteggiamenti quasi umani, ma anche perché nell’antichissima tradizione del popolo, all’orso si guarda come ad una specie di antenato lontanissimo. Si dice dell’orso in Lapponia quello che in certe zone dell’Africa si dice del gorilla, cioè che sono uomini; lo stesso accade nelle isole della Sonda per gli oranghi e in Guinea per gli scimpanzè bonobo.

La “domanda delle domande”
Un sottofondo culturale non appare tanto nelle risposte che vengono date alle domande considerate fondamentali, ma soprattutto da come vengono formulate le domande stesse. Le risposte sono sempre relative e mutevoli: sono soprattutto le domande a rendere interessanti le questioni.
Quella considerata basilare, detta anche “la domanda delle domande” è “Dio esiste?”. Ma questa formulazione richiama una figura di Dio come Essere personale e distinto dal mondo (cioè il Dio dell’Antico Testamento) e presuppone che sia chiaro il concetto di esistenza.
Vedremo in un prossimo capitolo che l’idea di esistenza è tutt’altro che evidente. Nel modo di formulare le domande sono impliciti tutti i pregiudizi di una cultura.
La “domanda delle domande” presuppone già una risposta binaria (SI-NO), cioè sottintende le concezioni dell’Occidente, in cui si dividono le persone in due categorie (credenti-atei). Tale spaccatura ha ben scarso significato in altri modelli culturali. Inoltre, come si è visto, la divisione è meno profonda di quanto si creda, almeno per quanto riguarda il comportamento verso il resto della Natura.
Nella domanda è già dato per scontato un dualismo di fondo dell’Occidente (Dio-il mondo). La nostra cultura attuale ha comunque altri tipi di divinità, qualifica che si può attribuire ad alcuni concetti astratti cui viene sacrificato molto, come libertà, democrazia, efficienza, produttività, senza parlare del denaro, al quale viene attribuito un potere magico. Si tratta sempre di concetti astratti, scarsamente esprimibili in lingue non-occidentali.
Se cambiamo le premesse filosofiche e ci portiamo in culture di tipo orientale, la superdomanda si può dividere in due:

- Può l’Universale essere suddiviso in parti autonome e indipendenti?
- L’Universale ha, o è, uno psichismo (cioè una struttura psicofisica globale)?

Se l’Universale non può in alcun modo essere suddiviso, allora è appunto unico e a questa Totalità diamo il nome di Dio, che può significare anche Equilibrio Cosmico (Tao). E’ chiaro che noi stessi non possiamo esserne separati e che - sul piano metafisico - il concetto di “individuo” è superato.
Ad esempio, la proposizione occidentale “non cade foglia che Dio non voglia” diviene l’affermazione che ad ogni processo, o fenomeno, partecipano tutte le forze dell’universo, fatto confermato - come vedremo - anche da alcune correnti della scienza moderna.
Nel Buddhismo poi il rapporto col metafisico assume aspetti ancora più generali dato che l’Essere-Nulla o Vacuità (in sanscrito sunyata) supera anche l’idea di immanenza, cercando di fondere l’immanente-trascendente in una specie di vuoto-pieno pulsante e permanentemente creativo.
Nel Buddhismo è comunque essenziale l’idea di karuna o compassione universale verso tutti gli esseri (non solo umani), il cui scopo è superare ogni tribolazione nel divenire (samsara) per raggiungere la serenità totale al di fuori di ogni dualismo (nirvana).
Per quanto riguarda le culture animiste, in esse non viene separato il fisico dal metafisico: si trova spesso l’idea del Grande Spirito immanente nel mondo (o Grande Mistero): l’idea di ambiente “esterno” è pressochè incomprensibile. Quello poi di ambiente “ostile” è un concetto tipico delle culture ispirate all’Occidente. I Boscimani e gli Eschimesi, secondo le concezioni europee, vivono in ambienti ostili, ma questo non ha senso per loro, che non si distinguono dal mondo che li circonda: i Boscimani sono il Kalahari, gli Eschimesi sono l’Artide.
Sempre come esempio, fra gli Algonchini il segno che veniva usato per denotare il Grande Spirito era anche il segno per la parola “mondo”: in tal modo Dio e il mondo venivano identificati.
Gli Algonchini certo non avevano un Dio tanto remoto dal mondo delle cose materiali quanto lo era Allah o il Signore dell’Antico Testamento, ma il Grande Spirito poteva essere senz’altro identificato con il mondo. Per gli Algonchini il mondo era un segno del Grande Spirito, così come lo era il circolo suddiviso in quattro parti. Non era al mondo che rivolgevano le loro preghiere, ma al Grande Spirito.
In una lingua amazzonica il termine che significa il massimo livello di Mente significa anche “tutto” nel linguaggio corrente.

Intermediari col metafisico
Le culture occidentale e islamica hanno in genere delle istituzioni che si proclamano intermediarie con il divino; anche in alcune culture orientali si sono formate istituzioni di questo tipo.
Poiché le concezioni metafisiche di ogni modello culturale sono diverse e non c’è alcuna valenza “oggettiva” o “assoluta”, non si capisce la necessità dell’intermediazione. L’unica che potrebbe avere un senso sembra quella di persone predisposte che si pongono in uno stato di coscienza ampliata, o comunque diverso dallo stato di veglia ordinario, cioè in una condizione di contatto mistico con la Natura. Si tratta in sostanza dello sciamanesimo, diffuso in moltissime culture animiste, dove gli altri animali e la Natura stessa sono una parte importante delle visioni mistiche. Si tratta spesso di un’intermediazione semi-inconsapevole, di uno stato di coscienza ampliato oltre i confini dell’ego, ben lontano dall’essere un’istituzione e soprattutto senza alcuna gerarchia. Lo sciamano o la sciamana (attuale Corea) si portano in un altro livello di percezione. Nella società tradizionale, espressione di un modo complesso e unitario di intendere la vita, l’attività dello sciamano comprendeva quella di tanti specialisti dell’Occidente: sacerdoti, medici, poeti, studiosi, ecc. La vitalità cosmica si manifestava in lui o lei con eccezionali poteri paranormali.
Come esempio di atteggiamento di culture diverse, citiamo anche il seguente episodio:

Durante un incontro interreligioso, mentre i rappresentanti delle tre religioni teiste (cristianesimo, ebraismo, islam) avevano recitato preghiere al Dio Personale, un monaco buddhista aveva preparato una “preghiera al Nulla”.
Se si considera l’Essere, non si può evitare di considerare il Nulla come polo complementare e necessario. La Totalità contempla anche il superamento del dualismo Essere-Nulla: la preghiera al Nulla ha significato come le altre e si imprime anch’essa nell’inconscio collettivo.
Non si capisce come sia possibile disegnare una figura senza lo sfondo: le due modalità sono intercambiabili.
(32).

La lotta
In Occidente tutto è visto come “lotta contro qualcosa”, e questo prova ancora una volta che non viene dato alcun valore alla serenità mentale. Anche le istituzioni con le finalità più nobili amano presentare la propria azione come lotta contro forze negative. La medicina occidentale si presenta come lotta contro le malattie, naturalmente oggettivate e personificate come un “nemico”. Non è così in tante altre culture, soprattutto in Oriente.
La competizione, propagandata dall’Occidente come una specie di molla del progresso ed evidenziata in tutti i campi, ma soprattutto in quello economico-industriale, non è presente naturalmente nell’animo umano ma è un modo di vivere di qualche modello culturale.
Così pure la nostra civiltà considera come “vinta” negli ultimi secoli la lotta dell’uomo contro le forze della natura.
Le culture animiste non si consideravano mai in lotta contro la Natura, ma in una rete interconnessa di “spiriti”, cioè in una spiritualità diffusa che a volte si concentra in entità apparentemente singole, ma in realtà legate nell’Entità Totale, chiamata appunto il Grande Spirito o il Grande Mistero.

La verità
Per le culture di tipo occidentale la ricerca della verità è considerata un nobile scopo: una volta trovata, la verità deve essere spiegata e imposta a tutti gli altri. Così in genere è andata avanti anche la scienza, almeno fino alla metà del ventesimo secolo. Tutto ciò presuppone innanzitutto l’esistenza di una verità, di qualcosa di reale e oggettivo; altrimenti la verità diventa un concetto pericoloso, fonte di fanatismo.
Come vedremo, recentemente sono sorte nella scienza stessa correnti di pensiero - sia pure di minoranza - che mettono in dubbio questo paradigma della “verità” e non ritengono più di scoprire qualcosa di reale ed esterno che, una volta provato, verrebbe acquisito “definitivamente” alla conoscenza umana.
Molte culture ritengono la verità qualcosa di relativo, una creazione della mente: pertanto non nascono lotte per affermarla.
Un aneddoto racconta di un colloquio fra uno studioso occidentale, di cultura giudaico-cristiana, e uno studioso orientale, di cultura buddhista, sugli eventi che si potevano attendere dopo la morte.
Il primo sosteneva che avrebbe visto San Pietro, o il diavolo, che gli avrebbero assegnato la destinazione. Il secondo avrebbe incontrato Cenresig, o il Buddha Amithaba, o qualche divinità “terrificante”. Il primo considerava ovvio che entrambi avrebbero fatto lo stesso tipo di incontro, quello “vero”, ma dopo qualche spiegazione riuscì a comprendere che per l’orientale ciascuno avrebbe incontrato le “sue” divinità.
Per l’orientale l’attenzione non era centrata su quale delle due versioni fosse quella vera, ma sul fatto che entrambe erano creazioni della mente e prive di realtà, quindi relative al soggetto sperimentante. Il suo consiglio era soltanto di tenere presente che si trattava di creazioni della mente - qualunque immagine fossero - e di fissare l’attenzione sulla “luce incolore al centro”, che significa l’assenza delle impurità mentali. Cioè l’essenziale non era di fissarsi sulla “verità” ma di liberarsi dai condizionamenti.
La differenza era dunque la concezione di realtà o di verità e non di sapere quali “divinità” si sarebbero incontrate, cioè chi fosse “nel giusto”.
Per l’occidentale invece il problema era scoprire quale fosse la verità, e se fossero “esistenti oggettivamente” la figura di San Pietro o la figura del Buddha che si presentavano ai due soggetti. La differenza era di concezione filosofica e non di credenza religiosa.

La caccia
Esaminiamo ora l’atteggiamento dei tre gruppi di culture nei riguardi della caccia:

- Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno “uccidere per divertimento”: spesso l’uccisione è addirittura considerata un “merito” da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti. Nell’Occidente c’è chi spende soldi per poter uccidere, il che è addirittura il contrario del “procurarsi il cibo” indispensabile all’idea di caccia in tanti altri modelli.

- In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come “il genio della specie”: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza. Spesso l’animale più cacciato era considerato anche un totem, aveva una sua sacralità. L’eventuale uccisione fatta “per divertimento” o “senza scopo” era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto e poneva il cacciatore nella posizione di chi attende la punizione del dio, che potremmo anche chiamare “conseguenza del complesso di colpa”. Di solito poi questa punizione arrivava puntualmente, attraverso le misteriose vie dell’inconscio e gli indissolubili legami fra mente e corpo.
Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molte migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.

- In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico. Ciò dava luogo a morali del tipo “Non danneggiare alcun essere senziente”. Anche qui l’eventualità di divertirsi ad uccidere era vissuta come un grave delitto.
Nelle concezioni orientali le altre specie viventi sono composte di esseri che vivono in modi diversi la nostra stessa avventura, con pieno diritto a una vita libera e autonoma. Invece, nel nostro mondo, i cosiddetti “movimenti per la vita” ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, senza neanche il bisogno di precisarlo. Dell’equilibrio e dello stato di salute della Vita, cioè del Complesso dei Viventi, non si preoccupano affatto.
In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno “caccia”, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale.
Occorre comunque fare attenzione ai permessi di “caccia tradizionale” accordati da alcuni governi, e quindi dall’Occidente, alle culture tribali con il pretesto di mantenerle in vita, perché spesso questa caccia si traduce in un massacro con armi da fuoco per vendere pellicce a grosse compagnie commerciali e avere così il denaro per comprarsi il televisore. Gli eschimesi o i siberiani a caccia con l’elicottero non hanno niente di tradizionale: quando imbracciano un fucile sono già l’Occidente. Le civiltà tradizionali non esistono più dal momento in cui arriva un’arma da fuoco e vengono persi i valori della cultura originaria.
L’Occidente è contagioso e seduce facilmente con i suoi nuovi miti. Con questa caccia si ottiene solo un’ulteriore degradazione della Natura ed un massacro “occidentale” anche se compiuto da ex-appartenenti ad altre culture umane.
C’è una grande confusione fra razza e cultura: un eschimese che uccide la foca con un fucile o comunque con lo scopo di vendere la pelle a una compagnia commerciale non è un eschimese, ma è l’Occidente.
La caccia integrata nelle culture animiste è una cosa del tutto diversa dalla caccia commerciale o industriale, anche se effettuata da persone o collettività di etnìe non europee. La sostanza è data dall’intenzione, lo scopo e il modo, non dall’origine etnica del cacciatore.

L’individuo
L’Occidente diffonde l’idea che tutto sia composto da unità che interagiscono fra loro, ognuna con uno spiccato carattere individuale ed egoico. Le tradizioni religiose talvolta provano ad attenuare il senso dell’ego, considerando però il non-ego come “il prossimo”, “gli altri”, il sociale, limitando così l’attenzione ai componenti della nostra specie, individuali o collettivi.
Invece nelle tradizioni orientali e animiste il non-ego è una totalità che comprende tutti gli esseri viventi, le montagne, i fiumi, gli alberi. L’altro-da-sé è degno di rispetto, ammirazione e venerazione.
Anche una certa idea dell’immortalità risente di questa concezione. In Occidente si cerca una forma di “immortalità” esaltando l’ego, con grandi opere individuali, “passando alla storia” e simili. Le strade portano nomi di persone, perfino le montagne ricordano individui.
Invece i nomi di fiumi e montagne dell’Oriente e delle civiltà tradizionali ricordano la natura del luogo o qualche “divinità” che vi dimora, cioè richiamano una sacralità naturale. L’immortalità viene cercata identificandosi con la Natura e annullando l’ego mortale, aumentando la percezione e la sintonia con il ritmo vitale del cosmo, superando il dualismo vita-morte, visto come un ripetersi di cicli che si alimentano uno dall’altro.
L’Occidente vuole far persistere anche l’ego delle opere, cercando di renderle permanenti, insieme ai loro autori, esaltati come individui. E’ sintomatico invece quanto avviene in una festa buddhista, dove uno splendido mandala (33), realizzato con finissime sabbie di molteplici colori e frutto del lavoro di un mese di monaci attentissimi, viene subito disperso nel vento come simbolo dell’impermanenza universale: la sua esistenza ha lo stesso valore della sua non-esistenza.
Ma oggi anche la scienza ci dice che tutto è destinato comunque a dissolversi e a ricrearsi in un fluire incessante. Non c’è alcuna entità stabile nell’Universo.
Quindi, anziché cercare di lasciare una traccia nella storia, cosa destinata comunque al fallimento, sarebbe meglio “non lasciare mai orme così profonde che il vento non le possa cancellare”.

Il progresso
Il concetto di progresso è un modo di interpretare il fluire degli eventi, è il paradigma dell’Occidente moderno, non è affatto una constatazione “oggettiva” di come si svolgono i fatti. Discende solo dal considerare come ovvia e propria di tutta l’umanità la scala di valori della civiltà industriale.
Vediamolo nei tre gruppi di culture:

- Nella cultura occidentale è visto come incremento indefinito di beni materiali e diminuzione del lavoro fisico. Ciò è reso possibile dall’idea che dobbiamo “manipolare il mondo” data l’assoluta supremazia della nostra specie; per questo l’Occidente è dominato dal dèmone del fare, cui sacrifica il vivere e l’essere.
Ogni generazione si pone come scopo di lasciare un mondo “migliore” di come l’ha ricevuto. Naturalmente non ci riesce affatto.

- Nelle culture orientali il progresso consiste nell’aumento della percezione e della serenità mentale, è interpretato come un avanzamento sulla via del non-ego e della serenità (nirvana).

- Nelle culture animiste non c’è alcun bisogno dell’idea di progresso: manipolare la Natura significa alterare il sacro e sé stessi e perdere l’armonia del mondo.
Nelle civiltà tradizionali ogni generazione si pone come scopo di lasciare il mondo il più possibile uguale a come l’ha ricevuto, perché l’Anima del mondo non si deve e non si può modificare.

Queste culture non sono affatto prese dai problemi della sopravvivenza materiale, cui non dedicano più di poche ore al giorno. Tutto il resto del tempo è dedicato all’aspetto magico-spirituale della vita, a dare un senso all’esistenza. La civiltà moderna non ci ha regalato il “tempo libero”.
I popoli tribali dipendono dalle loro terre come nessun altro. Da esse infatti traggono i cibi, i medicinali, i materiali da costruzione e i contenuti spirituali e culturali. Invadere la fragile foresta amazzonica significa impedire agli indios di vivere della caccia e della raccolta tradizionali e costringerli, nella migliore delle ipotesi, a lavorare per gli invasori come manovali.
Aprire una miniera in una delle terre sacre dell’Australia equivale a conficcare un coltello nel cuore del patrimonio culturale di una popolazione aborigena e recidere le radici, vecchie di quarantamila anni, che alimentano la sua anima.
Paragoniamo la vita degli indios dell’Amazzonia con quella dei poveri che vivono nelle città, ai margini della cosiddetta civiltà: gli indios vivono serenamente in abitazioni confortevoli, in comunità dove la solitudine è sconosciuta, e hanno un’alimentazione variata e sana. Provvedono a tutti loro bisogni lavorando solo tre o quattro ore al giorno riuscendo, quindi, a dedicare molto tempo ai bambini, alla filosofia, alla religione e ai riti.
Per contro, i poveri del Terzo Mondo, che dovrebbero beneficiare della “civiltà”, diventano ogni giorno più poveri a dispetto delle ingenti somme spese in aiuti. La morte e la malattia, l’abuso di droga e alcool sono per loro fatti consueti. E questo perché lo sviluppo, la costruzione di dighe, l’industria mineraria, ecc. non apportano benefici alle popolazioni tribali, le cui terre vengono invece distrutte, con tutta la Natura in esse vivente.
Infine, ecco come alcune culture amerindiane poeticamente scandivano il ritmo quasi-mensile:
- la luna quando le anatre tornano e si nascondono (febbraio);
- la luna quando appare l’erba (aprile);
- la luna quando fioriscono i gigli rossi (giugno);
- la luna quando i cervi perdono le corna (agosto);
- la luna degli alberi colorati (ottobre);
e così via (34).

Note al Capitolo 6
(30) Termine sanscrito che significa letteralmente “Quello”. E’ usato per indicare la sostanza primordiale, immanente in tutte le cose, che può manifestarsi come psiche, materia, energia.
(31) Chandogya Upanishad, 10° khanda, da Upanishad, Ed. UTET, 1976.
(32) Notizie tratte da alcuni quotidiani e dal periodico Paramita – Quaderni di Buddhismo.
(33) Rappresentazione simbolica universale in un finissimo e complicato disegno colorato, denso di particolari carichi di significato.
(34) Queste espressioni sono tratte dal volume: Dee Brown - Seppellite il mio cuore a Wounded Knee - Ed. Mondadori, 1972.