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Bhagavadgita (recensione)

di redazionale - 12/06/2007

 

BHAGAVADGITA

166 pp. Feltrinelli, euro 7

(a cura di Anne-Marie Esnoul)

 

La battaglia sta per cominciare. “Vi sono

là tanti eroi, grandi arcieri”, pari

nel valore, nel combattimento. Nel campo

sacro due eserciti contrapposti. Le conche

risuonano, si battono i gong, con gran fragore

echeggia il ruggito del leone, il rumore

è assordante, la frenesia alle stelle. L’usurpatore

e il legittimo erede, Arijuna, si

fronteggiano. E questi riconosce nelle due

armate che s’affrontano parenti e amici.

Viene preso da una profonda pietà e rivolge

desolate parole a Krsna, l’arciere.

“Quando vedo i miei desiderosi di combattere,

pronti a farlo, mi vengono meno le

membra, la mia bocca si dissecca, un brivido

si impadronisce del mio corpo, mi si

drizzano i peli, il mio arco Gandiva mi cade

dalle mani, la mia pelle è tutta ardente,

non posso star dritto e la mia mente

sembra presa da vertigine”.

Il rumore selvaggio, la sensazione fisica

del dolore ricordano la poesia arcaica

greca, o i primi poemi cavallereschi, c’è

una concretezza, una realtà che la letteratura

successiva ha perso. Arijuna, sopraffatto

dal dolore, non aspira più alla vittoria,

alla regalità; assume un ruolo di assoluta

non violenza anche contro avversari

indegni che “col cuore ferito dalla cupidigia,

non vedono che è un errore distruggere

la propria famiglia, crimine mortale

tradire i propri amici”. E prosegue: con la

distruzione della famiglia perisce anche

l’ordine sacro, quando il disordine predomina

le donne della famiglia si corrompono

e si produce la mescolanza delle caste.

L’ordine sacro è sovvertito, antenati e dei

non avranno più offerte e l’amicizia tra

cielo e terra sarà infranta. A strapparlo

dall’angoscia che lo paralizza, che non gli

fa capire ciò che bene e ciò che è male, interviene

Krsna, ora nel ruolo di maestro

Yoga, dell’Assoluto personificato. I corpi

degli uomini vanno e vengono, come le vesti

usate. La morte è un fatto ineluttabile,

non si deve averne pietà. Eterna è l’anima,

le armi affilate non tagliano l’anima,

il fuoco non la brucia. È quindi un errore

“filosofico” indugiare difronte al nemico.

Ma non basta: “Considera anche il tuo dovere

di stato: non dovresti, tremando, appartarti,

poiché per l’uomo di guerra, secondo

la legge del suo stato, non vi è bene

superiore alla battaglia”. Date le premesse,

la conclusione con un inno alla guerra

del “Bhagavadgita”, il “Canto del beato

Signore”, appare sconcertante, anche se

inoppugnabile nella sua consequenzialità.

Il testo fa parte del “Mahabharata”, l’immenso

poema sacro indiano, ed è stato

scritto intorno al II o al I secolo a. C. e viene

considerata da tutte le correnti religiose

brahmaniche come un libro sacro.