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La tirannia del mercato ci ruba l'anima

di Massimo Fini - 12/06/2007

Pur essendo stato, credo, chiarissimo, non sono stato ugualmente compreso, anche da chi ha voluto darmi ragione (con l’eccezione, in parte, di Gennaro Malgieri). La questione che ho posto, sia pure in termini paradossali e necessariamente sintetici, non riguarda né i Talebani, né i kamikaze, né i bolscevichi d’antan, né i fascisti, né i nazisti, né qualsivoglia altro totalitarismo o fanatismo di tipo esotico. Riguarda noi, lo spaventoso vuoto di senso che si è man mano venuto creando nel cosiddetto Occidente, termine che già di per sé fa venire i brividi perché ricorda l’Eurasia e l’Estasia, giganteschi aggregati geopolitici, anonimi e totalitari, del 1984 di Gorge Orwell.
Purtroppo, dopo “la morte di Dio”, assassinato dal razionalismo illuminista, la cultura laica, sia nella sua versione liberale che marxista, finché è esistita, non ha saputo colmare quel vuoto se non col più sfrenato individualismo e mercantilismo, con valori puramente quantitativi, cioè con dei “non valori”. (...)
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massimo fini
(...) «Non si vive di solo pane» non l’ho detto io ma qualcuno che ha pur contato qualcosa nella storia degli uomini e che spero non sia ora accusato di essere stato un frequentatore di salotti. Ed è curioso, ma nient’affatto privo di significato, che nell’attuale, affannoso, tentativo di recuperare “valori cristiani”, indeterminati e mai meglio specificati, ci si dimentichi sempre di questa frase, detta in un tempo in cui di pane non c’era abbondanza. Come si dimentica che Cristo entrò nel Tempio e prese a frustate i mercanti (oggi sarebbe tacciato di terrorismo o, quantomeno, di antiamericanismo) e concluse l’happening con queste terribili parole: «Voi fate della casa di Dio una spelonca di bari e di ladri». Come ci si dimentica del pur famoso: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco varchi le porte del paradiso», (in seguito, con una traduzione filologicamente più accurata, si è scoperto che non di un cammello si trattava, ma comunque di qualcosa si sufficientemente grosso). Come ci si dimentica che San Francesco, figlio di un mercante, predicava la povertà e l’armonia con la natura. Come ci si è dimenticati che la Chiesa medioevale ha condotto una lunga, generosa e, per molto tempo, vincente battaglia non solo contro l’usura ma contro l’interesse e il profitto (sottile è la motivazione con cui la Scolastica spiega il no all’interesse: «Il tempo appartiene a Dio ed è quindi di tutti, perciò non può essere oggetto di mercato»). Ma si sottace perfino quanto ha detto un cardinale che poi è diventato Papa, Joseph Ratzinger, che a suo tempo ha scritto: «Il Progresso non ha partorito l’uomo migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano».
I “valori cristiani”
Come mai questa parte importante della storia e della dottrina della Chiesa viene sistematicamente ignorata proprio da quegli stessi che si dicono vogliosi di un ritorno dei “valori cristiani”? È ovvio. Perché questo pauperismo andrebbe dritto contro il modello di sviluppo imperante, basato su una concezione che ne è l’opposto. E nessuno osa disturbare il manovratore. Ma allora è inutile, anzi patetico, cercare di recuperare “i valori cristiani” se non si ha il coraggio di mettere in discussione radicale il nocciolo duro e vero della questione (di cui quella truffa ben congegnata che è la democrazia rappresentativa è solo l’involucro legittimante), vale a dire l’attuale modello di sviluppo economico-tecnologico, il meccanismo produzione-consumo, anzi, ormai, consumo-produzione (noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre: «bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione»…), che ha messo l’uomo al suo servizio, togliendogli la propria centralità, degradandolo a “consumatore”, il “terminale uomo” dell’intero processo. Da una società centrata sul mercato, che è uno scambio di oggetti inerti, non possono nascere valori, né cristiani né religiosi né di qualsiasi altro tipo.
Come esiste un radicalismo del senso - che è, poniamo, quello talebano - esiste anche un radicalismo del non senso. Che è quello in cui viviamo noi e contro il quale io mi batto da quando, nel 1985, pubblicai “La Ragione aveva Torto?” che, ai tempi, divenne un cult per tutti i Marcello Veneziani della “Nuova Destra” poi perdutisi in qualche Consiglio di Amministrazione Rai.
Accusare chi mette in discussione l’Occidente di viverci, invitandolo quindi a smammare, come fa Parente, ma in fondo anche Veneziani quando mi consiglia amabilmente di farmi esplodere invece di scrivere in poltrona, è espressione del più puro totalitarismo, indegno di chi si dice, o si crede, liberale. Ogni sistema ha il dovere di essere coerente con i propri presupposti, altrimenti diventa un’altra cosa. In una democrazia liberale si ha il diritto di contestarla anche in modo radicale. L’unico discrimine è che qualsiasi idea, giusta o sbagliata che appaia, non può essere fatta valere con la violenza. In un regime talebano questo diritto non lo avremmo, ma, come spiega Lévi-Strauss, ogni cultura è un insieme di elementi coerenti strettamente legati fra di loro, con i suoi pesi e contrappesi, le sue compensazioni, per esempio quella di vedere soggetti come Previti ridotti a un troncone, perché da quelle parti a tipi del genere tagliano la mano destra e, se del caso, anche il piede sinistro, o di non dover sopportare ogni giorno le lezioni di morale di Adriano Sofri che è stato un esteta e un pratico della violenza.
A ciascuno il suo. Io sono, e resto, un occidentale (meglio: un europeo) e rivendico il diritto di mettere in discussione radicale la piega che ha preso la nostra storia, la nostra cultura, la nostra vita con la Modernità, cioè a partire dalla Rivoluzione industriale. Intendiamoci, io non ce l’ho con gli illuministi dei tempi loro, con gli enciclopedisti, con Voltaire, con Adam Smith o con Marx, con gli scienziati di allora, con Watt, ma con gli epigoni. Comprendo benissimo come, dopo le grandi scoperte scientifiche del Seicento, quegli intellettuali fossero convinti che si aprissero delle formidabili possibilità per sottrarre l’uomo alle faticosissime condizioni, più fisiche che psicologiche ed esistenziali per la verità, in cui era fino ad allora vissuto, che fossero spinti a reagire a duemila anni di immobilismo, di conformismi, di Aristotele, di “ipse dixit”, di dogmi cristiani e musulmani. Ma, a due secoli e mezzo da quando questo movimento si è messo in marcia, io chiedo, anzi pretendo, che sia fatto un conto dei costi e dei ricavi, che si verifichi, dati alla mano, se il promesso benessere non si sia trasformato in uno straordinario malessere, se nell’ansia di creare “il migliore dei mondi possibili”, basato sull’inesausto inseguimento del futuro invece di accontentarsi del più quieto presente e dell’equilibrio in ciò che c’è già, noi non si sia finiti per costruirne, con l’ottuso e pericoloso ottimismo di Candide, uno ancora peggiore di quello che abbiamo voluto lasciare. Un mondo indubbiamente iperefficiente, ma privo di equilibrio, di armonia, di un minimo di serenità. Un mondo disumano. Anzi anti-umano.
E chiedo che questo conto sia fatto con gli strumenti della ragione. Non ho nulla a che vedere con gli irrazionalismi alla Guénon, alla Evola, alla Jünger che affascinarono un tempo tanti Marcello Veneziani. Io contesto gli esiti del razionalismo industrialista e illuminista con gli strumenti della ragione. Tenendo però presente che la Ragione illuminista (“la Dea Ragione”) non è l’unica, che prima di lei ne sono esistite altre, a cominciare da quella greca, tanto più profonda (Eraclito, nel VI secolo a.C., aveva già detto e capito tutto o quasi).
Il Sessantotto
Giampiero Mughini, che peraltro ha la tendenza a «parlare di sé fra sé e sé» come «il finto pittore e il finto scrittore» del “Trani a gogò” di Gaber (peccatuccio mughiniano, veniale), invita a diffidare degli Assoluti e degli “idealisti”, di cui ha fatto parte per un periodo non breve, quello del lunghissimo Sessantotto italiano, della «gente che voleva raddrizzare le gambe ai cani, moltiplicare i pani e i pesci, espellere il Male dall’esperienza della vita quotidiana, “convincere” il prossimo con le buone o con le cattive che non c’era Dio o partito migliore di quello in cui credeva l’idealista». E non si rende conto di fare una spietata fotografia proprio di quell’Occidente che intende difendere. È l’Occidente, oggi, a voler estirpare, con le buone o le cattive, il Male dal mondo, ovunque si presenti e a noi sembri tale («l’asse del “male”» non l’ho inventato io), a credersi il Bene, a voler imporre i propri valori, dichiarati “universali”, le proprie istituzioni, i propri schemi mentali, la propria “way of life” a popoli e culture che hanno storia, tradizioni, socialità, economie, concezioni della vita e della morte, della libertà e dei legami, insomma vissuti profondamente diversi dai nostri. Ed è l’Occidente che, con lo stesso furore ideologico della Santa Inquisizione, invade, occupa e bombarda, come ha sempre fatto ma con la pretesa, del tutto inedita, di farlo “per il bene” degli invasi, degli occupati, dei bombardati.
Se difendo i Talebani non è perché condivida la loro ideologia e vorrei che la portassero da noi. In essi difendo il diritto elementare dei popoli a filarsi da sé la propria storia, senza la pelosa supervisione di chi si crede, appunto, il Bene, portatore di Assoluti e di valori universali. Noi a Kabul vogliamo, con un’estrema protervia, sostituire a una storia afgana una storia occidentale. È tragicomico che la signorina Margherita Boniver sia coestensore dei Codici penali e civili afgani, che sarebbe come se un mullah redigesse i nostri codici e le regole della leadership. A ciascuno il suo. Agli afgani il Mullah Omar, a noi Renato Schifani. Detto in altre e più serie parole: nei Talebani io difendo il diritto, fino a ieri mai messo in discussione da nessuno, di ogni popolo a battersi contro l’occupazione dello straniero, comunque motivata. Oppure buttiamo tutta la Resistenza italiana nel cesso. Siamo noi oggi, i liberali e democratici occidentali, i veri totalitari del pianeta. Perché non siamo più in grado di accettare, ma nemmeno concepire, “l’altro da sé”. Se è diverso è in peccato mortale e va al più presto redento e omologato. E questo avviene proprio nel momento in cui l’Occidente attraversa la più grave crisi della sua storia, crisi di valori e di sistema.
No agli assoluti
Quanto a me diffido, come Mughini, degli assoluti, religiosi e laici. Sono convinto che tutti i monoteismi (cristianesimo, islamismo e giudaismo il quale, tra l’altro, con la pretesa del “popolo eletto” fonda quel razzismo di cui in seguito rimarrà così tragicamente vittima) e tutti gli universalismi laici, come l’attuale e omnicomprensivo modello di sviluppo occidentale, siano dei totalitarismi.
I valori di cui vorrei rivedere la rinascita in Occidente non sono ideologici, ma prepolitici e per nulla eversivi (o forse, in una società come questa, tremendamente eversivi ma nient’affatto terroristici). E si chiamano dignità, lealtà, onore, coraggio, onestà, controllo di sé , silenzio, coscienza che l’affermazione della propria identità passa per il rispetto di quella altrui, pietas nei confronti del nemico, del vinto, del debole. Valori che erano ancora vivi nell’Italia degli anni Cinquanta, quando ero ragazzino, e che abbiamo completamente perduto. Perché la libertà è un bene difficile da gestire (per questo altre culture, e la stessa nostra un tempo, le preferiscono i legami, familiari, clanici, etnici) e noi non lo abbiamo saputo fare. Con la libertà in mano agli imbecilli, bisogna pur dirlo, ai cinici, ai sofisti, ai mascalzoni si finisce per prospettare “reality” in cui una disgraziata mette in palio un rene per altri disgraziati. Si finisce nel suo opposto. Scrive Platone, che so benissimo che quello criptozdanovista liberale di Karl Popper ha ficcato, insieme, e con migliori ragioni, ad Hegel, nel girone infernale dei padri di tutti i totalitarismi: «Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quanta ne vuole fino ad ubriacarlo, accade che… in questo clima di libertà, e in nome della medesima, non vi è più riguardo né rispetto per nessuno. In mezzo a tanta licenza nasce e si sviluppa un mala pianta: la tirannia».
Per Massimiliano Parente. Quando si attacca una persona (oltretutto senza minimamente conoscerla) invece che le sue idee vuol dire che non se ne hanno.