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Chi ha paura di Paolo Mieli? Il bluff dei falsi oligarchi e gli incubi della politica morente

di Claudio Lanti - 12/06/2007

Fonte: La Velina Azzurra

Ognuno alimenta i propri miti e i propri  mostri. L’uomo che  ha fatto scattare il panico di D’Alema  e che agita i sonni di Fassino  e  Berlusconi, è un certo Paolo Mieli, oggi direttore del Corriere della Sera, additato  come il vero leader dei “poteri forti”, l’ispiratore delle sortite di Mario Monti,  lo stratega di una  seconda decapitazione dei partiti dopo Mani Pulite.   Dicono in Via Solferino che Mieli  sta lavorando a breve per  mettere Veltroni  al posto di Prodi ma che le sue ambizioni a medio termine sono  anche più audaci e personali:  un super governo di ottimati guidato da lui stesso, e magari domani il Quirinale.   Un dato incredibile è certo: la situazione italiana è al punto che un direttore di giornale può interferire negli alti giochi della politica e riuscire a intimidire l’intera dirigenza del Paese.   E la cosa più grave è che nessuno ha il coraggio di denunciare quest’anomalia.

 

Avuto sentore di nuovi intrighi contro se stesso e il  suo partito, Massimo D’Alema ha gridato terrorizzato:  “Ci vogliono far fare la fine di Craxi”.  E tutti concordano sulla provenienza di questa presunta minaccia: è la psicosi collettiva basata sull’equivoco dei cosiddetti “poteri forti”,  che invece da tempo  sono debolissimi, infinitamente più deboli della stessa politica,  che appare dal canto suo morta o moribonda. Tanto che in un Paese normale, invece di tremare,  D’Alema potrebbe schiacciare Mieli in un batter d’occhio.  

 

All’inizio c’erano  Enrico Cuccia, Gianni Agnelli,  Cefis, Pirelli, Pesenti, Romiti e gli altri leader dello striminzito  capitalismo nazionale che hanno retto fino alla globalizzazione e  all’avvento dell’Euro.  Erano il  “salotto  buono” del quale Berlusconi  trovò sbarrate  le porte.  Ma pensare a  Montezemolo  o agli avventurieri bresciani  come ai  nuovi oligarchi è offensivo per quelli che lo furono davvero. In quindici anni quella piccola galassia del  potere economico nazionale si è  di colpo svuotata  seguendo le grandi trasformazioni dell’economia e della politica.   Il dato aggiornato è che, mentre il potere finanziario mondiale  si è ingigantito,  la cupoletta delle “elite”  nostrane si è dissolta.  I banchieri come  Bazoli, Profumo e Geronzi    si muovono per vie autonome guardando ben oltre i confini.  I  veri “poteri forti” da noi non esistono più, sono una leggenda dei giornali,  un caso di virtualità  orwelliana.    I DS,  che sono i politici di ossa più robuste, ci credono ancora perché sono cresciuti dai tempi dall’asilo  con lo spauracchio dei padroni.  D’Alema quando pensa a Paolo Mieli  lo vede ancora come il portavoce di un gruppo di signori  barbuti con ghette, cilindro e bavero di pelliccia. 

 

L’attuale “partito del Corriere della Sera  o “clan  Giavazzi” è  ben altra cosa:  è un   piccolo ma presuntuoso circolo di economisti e  manager d’impresa,   con  qualche direttore e opinionista di giornale. Ma è l’unico indirizzo di cui dispongono in Italia  i trafficanti di private equity della City di Londra e  i teorici del mercato selvaggio della London School of Economics.   Attualmente c’è  anche il coordinamento con gli uffici di Confindustria  che  cesserà tra un anno insieme al mandato di Luca di Montezemolo.   Nulla  di più.   Mario Monti,   ex commissario europeo all’antitrust  ed ex rettore della Bocconi, è semplicemente un ex, un pensionato. Il governatore di Bankitalia Mario Draghi,  che è il vero guardiano delle istituzioni finanziarie mondiali,  ha il compito di starsene immobile nel ruolo di osservatore.  

 

Il risultato non cambia di molto se a questo quadro aggiungiamo le personali  referenze  di Paolo Mieli.  Va bene.  Mieli è il rampollo di un’importante famiglia ebrea sfuggita alle leggi razziali italiane che da Alessandria d’Egitto aiutò le armate inglesi nella campagna in Nord Africa.   Quando da “Potere Operaio”  entrò timidamente all’Espresso era scontato che avrebbe fatto un carrierone giornalistico.   Il suo eloquio modesto rivela una cultura storica e politica di livello medio.  Nel tratto fisico è tutt’altro che affascinante,  sebbene decine di giovani colleghe  abbiano ammirato il suo cranio pelato, sempre ricambiate.  Il collasso del sistema lo ha ulteriormente ringalluzzito: approfittando della polverizzazione della proprietà del Corriere della Sera, ne è diventato alla fine l’unico padrone.    Più di altri,  vanta certi affidamenti esteri:   tutti immaginano che quando Rothschild,  George Soros  e Goldman Sachs s’interessano all’Italia  pensano anche a Mieli. Lui stesso sta alimentando questa reputazione.  Tutto bene, ma con ciò?

 

Figurarsi se sottovalutiamo certo i rischi di interferenze internazionali sull’Italia. Ma va detto che  in base a un’analisi seria questo “partito del Corriere della Sera” non sembra  neppure strutturato per influenzare il corso degli eventi  nazionali.   Le purghe di Tangentopoli  furono appoggiate dal Corriere ma gestite da una magistratura  ambiziosa e rampante; mentre quella  di oggi,    a parte qualche caso di attivismo individuale (Clementina Forleo, Woodcock),  appare inerte e rinunciataria, schiacciata dall’illegalità sociale.     Il governo-ombra  del Quirinale,   ormai vis a vis con la propria  nuda impotenza,   ha esaurito il credito morale e politico.  Le angosciate prediche di Napolitano  valgono ancor meno delle manovre di Ciampi.  

 

E allora? Le rivoluzioni  non si fanno  certo con le cene di Paolo Mieli e le  reprimende del professor Francesco Giavazzi sul mercato.  La domanda da porsi è con  quale reale  deterrente questi fantomatici “poteri forti”, i Montezemolo, Monti e compagnia,  dovrebbero liquidare un ceto politico sia pure ormai finito?   E’ ora di dire che questi scalcinati bluffeur sono un nemico che fa ridere.  Se pure riescono a suscitare gli incubi di  D’Alema  significa che questa classe dirigente è proprio arrivata al capolinea.  Anche se per ora sembra insostituibile.  Una  nuova ghigliottina politica potrebbe scatenarsi solo in una fase di violente tensioni sociali, come all’inizio del  ‘900 e nei due dopoguerra. Questo è l’unico possibile scenario di svolta.  I tumulti di piazza che continuano a ripetersi e l’odio manifesto per le forze dell’ordine in quanto simbolo di questo Stato iniquo e inetto rivelano di sicuro  la rabbia profonda nella gente. Ma per ora si tratta di fenomeni  limitati e marginali, piccole valvole di sfogo.   All’orizzonte non si vede altro, tranne la lenta agonia del Paese.   

 

 

La Velina Azzurra N. 19 del  12.6. 2007

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