Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Vita quotidiana all’ombra del Muro

Vita quotidiana all’ombra del Muro

di Chiara Zappa - 13/06/2007


 
   
Da Ramallah:
La coda al metal detector è lenta, ma i "pendolari del check point" sono abituati a pazientare. Nessuno si scompone neanche quando un’anziana signora – velo nero in testa e una piccola borsa in mano – comincia ad alzare la voce: «Ho tutti i documenti in regola, ho il permesso che mi avevate chiesto: perché ancora non mi lasciate passare dall’altra parte?» Questa è la routine al check point di Qalandiya, e l’"altra parte" è quella di Gerusalemme, quella che, dopo la costruzione del muro di separazione in Cisgiordania, per la maggior parte dei palestinesi è diventata una specie di miraggio. Per muoversi tra i territori israeliani e i villaggi palestinesi dei dintorni – ma soprattutto per andare e venire da Ramallah, la capitale de facto dell’Autorità nazionale palestinese, la roccaforte-prigione di Yasser Arafat negli ultimi tre anni di vita – bisogna passare da qui. Ed è sempre una scommessa, attraversare il muro.

Il muro, da vicino, è un alto serpentone grigio che taglia in due la terra. Da una parte quasi pulito, dall’altra pieno di murales, scritte che ne invocano l’abbattimento, stencil con la celebre immagine di Morwan Barghouti con le braccia ammanettate sollevate. La barriera di cemento che corre lungo tutta la Cisgiordania, sezionandola più volte per includere gli insediamenti israeliani nei territori, è diventata l’incubo quotidiano di qualunque cittadino di queste parti. Tutti la citano raccontando come si vive, oggi, in Palestina. Oggi, mentre a Gaza domina il caos e qui, invece, regna una relativa calma. Simile a quella del fuoco che cova sotto la cenere.

«Studiare? Certo che i giovani studiano, ma in una situazione completamente anormale». Labib Eid è il responsabile della biblioteca alla prestigiosa Università di Bir Zeit, pochi chilometri fuori Ramallah. «Le difficoltà di spostamento hanno ripercussioni su tutti gli aspetti dell’offerta formativa e hanno reso la vita impossibile agli studenti fuori sede». Una categoria che arriva a comprendere chi abita a pochi chilometri dall’ateneo. «Un check point è un check point, e se non si ha il permesso non si passa e basta», spiega Saàdeh Saàdeh, segretario della sezione universitaria della Gioventù palestinese cristiana, che qui riunisce circa duemila studenti. Ma, una volta laureati, i giovani che prospettive hanno? «Il lavoro non c’è – spiega ancora Labib –, quindi bisogna arrangiarsi: c’è chi si cerca un’occupazione qualsiasi e chi, per sopravvivere, è obbligato a vendere la propria terra. Se molti scelgono consapevolmente di resistere, perché non vogliono lasciare il loro Paese, tanti altri decidono di emigrare negli Stati Uniti, o in Canada, perché si rendono conto che qui non potranno mai avere un vero futuro».

La drammatica situazione economica è rimarcata da abuna Aziz Halaweh, giovane sacerdote cattolico di Bir Zeit, cinquemila abitanti di cui la metà cristiani. «Da mesi i dipendenti statali non ricevono il loro salario a causa dell’opposizione del mondo ad Hamas – spiega abuna Aziz, trentatré anni e due fratelli in carcere per motivi politici –. Il fatto che si siano tenute elezioni democratiche non conta nulla». Nonostante tutto, abuna Aziz continua a lavorare con i "suoi" ragazzi, quattrocento studenti, dai tre ai sedici anni, che frequentano la scuola cattolica Regina della pace. Il trenta per cento sono musulmani. «Una cosa normalissima da queste parti». Durante la lezione di catechismo, gli alunni quindicenni parlano dei loro sogni. Gorge spera di avere un giorno una piccola rivendita di auto, Sara vorrebbe fare il chirurgo plastico, Maya invece sogna di «diventare presidente della Palestina, per renderla come gli Stati Uniti». Ma, intanto, anche loro conoscono le storie di ordinaria follia ai tempi del muro, come quella del contadino che, dopo innumerevoli fatiche, ottenne il permesso di andare a lavorare il suo campo, ma fu bloccato perché il suo asino quel permesso non l’aveva. Sarebbe addirittura buffo, se non fosse vero.

Il problema è la di screzionalità nel decidere chi fare passare – spiegano i monaci della comunità di Ain Arik, fondata da don Dossetti una trentina d’anni fa –. Chi si trova alla frontiera, di solito ragazzi giovanissimi, ha il potere assoluto di decidere sulla tua vita». Paradossi denunciati con forza anche da B’tselem, organizzazione israeliana che vigila sulle violazioni perpetrate dal proprio governo nei territori palestinesi. «Un altro vero dramma umanitario sono le famiglie divise in seguito al recente congelamento di tutti i ricongiungimenti familiari», racconta la portavoce, Sarit Michaeli.

E i problemi non riguardano solo la gente comune. Muhib Awwad, deputato cristiano per la zona di Ramallah, racconta di quando, qualche settimana fa, fu bloccato per tre ore in aeroporto, anche se aveva in mano una lettera formale di invito da parte dell’Unione europea. «Fare politica in queste condizioni è impossibile – racconta –. I lavori del Parlamento si tengono in videoconferenza con Gaza, con il telefono che va e viene e una quarantina di deputati in carcere». Parlare di "Autorità" palestinese, francamente, è quasi ridicolo, quando a decretare lo stesso diritto a risiedere nei territori è il governo israeliano. Ma ci sarà pure qualcosa che è in mano vostra, o no? Il vicepremier Azzam el-Ahmad, uomo di al-Fatah, diventato il numero due di Haniyeh dopo gli accordi della Mecca da cui è uscito il fragile governo di unità nazionale, ha un’espressione disillusa: «L’esecutivo potrà resistere solo se avremo la collaborazione internazionale, e con questo intendo i Paesi arabi, l’Europa e il Quartetto. È necessario che venga tolto l’assedio politico ed economico e che si collabori con questo governo per riprendere le trattative». Ma come è possibile trattare, mentre imperversa la guerriglia tra le stesse fazioni palestinesi? «All’interno di Hamas c’è una corrente più estremista, che fa di tutto per far saltare l’accordo raggiunto con al-Fatah, un estremismo che si tocca con quello israeliano , e che fa comodo a molti. Ecco perché bisogna sostenere chi lavora per il compromesso, prima che sia troppo tardi».