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Una 'guerra globale' monoteistica

di Danilo Zolo - 09/12/2005

Fonte: Jura Gentium

 

1. La guerra antica

L'idea che la guerra possa essere non solo giusta ma 'santa' - combattuta per eseguire la volontà di Dio, secondo la sua rivelazione e sotto la sua guida - è antica quanto lo sono le religioni monoteistiche del Mediterraneo. Sono celebri le pagine della Bibbia, in particolare del Deuteronomio, dalle quali emerge la dottrina della 'guerra santa' - la 'guerra santa obbligatoria' (milhemit mitzva) - come guerra di annientamento dei nemici del popolo di Dio. La 'guerra santa' non è una guerra come le altre, combattuta per interessi e obiettivi particolari: è una guerra 'teologica' e 'salvifica' e come tale non è sottoposta a limiti di carattere morale o giuridico. La sconfitta del nemico, la distruzione delle sue città, delle sue mandrie e dei suoi campi, lo sterminio della popolazione, nessuno escluso, la mutilazione dei cadaveri, sono gesti sacri che adempiono un disegno divino. Lo spargimento del sangue dei nemici è il sigillo sacrificale che, attraverso la mediazione di Mosé e di altri capi ebrei, lega Jehovah al suo popolo e viceversa (1).

La dottrina ebraica della 'guerra santa', come è noto, ha influenzato le teologie della guerra elaborate da cattolici, mussulmani e cristiani riformati, sino ai nostri giorni (2). Il monoteismo cattolico - da Agostino di Tagaste al Decretum Gratiani, a Tommaso d'Aquino, agli scolastici spagnoli come Francisco de Vitoria, Francisco Suárez e Juan Ginés de Sepúlveda - ha in parte accolto e in larga parte rielaborato in chiave moralistica l'idea vetero-israelitica della 'guerra santa'. Ne è nata la dottrina del bellum justum, una dottrina che teologi e moralisti occidentali hanno riproposto per oltre un millennio e che il magistero della Chiesa romana ha costantemente confermato (anche in occasione della recente 'guerra umanitaria' della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava (3)).

La 'guerra giusta' non è una guerra direttamente voluta da Dio, una guerra che i fedeli conducono per obbedienza alla volontà divina. Più semplicemente, è una guerra lecita perché è condotta nel rispetto delle regole morali dettate dall'autorità religiosa. Messi bruscamente da parte i princìpi evangelici della mitezza e della carità, la teologia cattolica legittima lo spargimento del sangue. L'intenzione dichiarata è di autorizzare i cristiani a combattere le guerre giuste decise dalle legittime autorità politiche e, nello stesso tempo, di contribuire a limitare e addolcire la guerra, imponendo ai re cristiani di condurre solo guerre giustificate da buone ragioni e di combatterle con mezzi leciti.

La limitazione morale doveva riguardare anzitutto le 'cause' che potevano giustificare l'inizio della guerra (il cosiddetto jus ad bellum): ad esempio la difesa contro un'aggressione o la riconquista di territori sottratti ingiustamente, o la punizione dell'aggressore. Inoltre, la guerra doveva essere voluta e decisa dall'autorità competente con 'retta intenzione' ed avere finalità di pace. Anche la condotta delle ostilità doveva essere 'giusta' (jus in bello). I militi cristiani erano tenuti a risparmiare la vita e i beni dei non combattenti e a rispettare un criterio di proporzione fra i giusti obiettivi della guerra e il sacrificio di vite umane che essa inevitabilmente comportava (4).

La dottrina del bellum justum come eredità cattolica della dottrina ebraica della 'guerra santa' presenta tre aspetti fondamentali.

1.1. Per un verso essa fa riferimento al modello empirico della 'guerra antica', un modello che è stato recentemente ricostruito da Franco Cardini (5). E' lo scontro diretto fra due eserciti che si affrontano su un campo di battaglia. E' una guerra terrestre, con rare eccezioni rappresentate da battaglie navali in prossimità della costa e mai in mare aperto o negli oceani. Lo scontro si svolge entro uno spazio geografico e demografico ben delimitato, dove è in gioco esclusivamente la vita dei combattenti che si sfidano 'eroicamente' l'uno contro l'altro, talora rispettando precisi rituali cavallereschi. Il sussidio di protesi belliche è marginale rispetto alla forza fisica, al coraggio e all'abilità tattica (manca per molti secoli la polvere da sparo). Le distruzioni sono circoscritte entro l'area dello scontro, mentre la perdita di vite umane è limitata. Talora, soprattutto quando nel tardo medioevo verranno introdotte le milizie mercenarie, potrà accadere che una lunga battaglia si concluda senza alcuna vittima.

1.2. In secondo luogo la dottrina della 'guerra giusta' rinvia al quadro politico-religioso della respublica christiana e suppone la presenza di una stabile auctoritas spiritualis, dotata di una potestà politica e giuridica tendenzialmente universale e universalmente riconosciuta come superiore a quella dei re e dei prìncipi cristiani: è l'autorità del capo della Chiesa cattolica romana. E' un'autorità monoteistica e 'imperiale', se è vero che al pontefice spetta anche la funzione di legittimare, consacrandolo, il potere temporale dell'Imperatore. E' chiaro, insomma, che la dottrina della 'guerra giusta' comporta, come è manifesto già in Agostino, l'integrazione della Chiesa cattolica e del suo messaggio religioso entro le strutture temporali dell'Impero romano e, dopo la sua caduta, dei sistemi politici 'universalistici' che gli sono succeduti nel corso del medioevo. Di più, come ha sottolineato Carl Schmitt (6), la dottrina del bellum justum non doveva soltanto limitare la guerra: doveva distinguere le guerre condotte fra cristiani, cioè fra avversari sottomessi all'autorità della Chiesa e dell'Imperatore, dalle 'faide'. Queste erano le guerre fra i re e i popoli che si sottraevano ostinatamente all'autorità della Chiesa, come i turchi, gli arabi e gli ebrei.

1.3. Il terzo, fondamentale aspetto della dottrina della 'guerra giusta' riguarda il fatto che le crociate e le guerre di missione, incoraggiate dai pontefici romani, erano ipso jure 'guerre giuste'. Nell'immaginario cristiano queste guerre svolgevano una funzione analoga a quella delle guerre di conquista combattute dagli israeliti per ordine di Jehovah, il loro unico Dio. Erano giuste e sante indipendentemente dalla circostanza che fossero guerre di aggressione o di difesa, preventive o successive rispetto ad un eventuale attacco da parte degli infedeli saraceni. Simmetricamente, qualsiasi guerra condotta contro la cristianità era per definizione una guerra ingiusta. Oltre a ciò - e questo è un punto fondamentale - in una guerra condotta dalla cristianità contro gli infedeli, i nemici non potevano essere considerati justi hostes, nel senso che successivamente sarebbe stato definito dai fondatori del diritto pubblico europeo. Erano dei banditi o dei criminali, che potevano essere torturati e uccisi senza alcun rispetto di regole morali o giuridiche. Il versamento dello loro sangue non dispiaceva a Dio. In altre parole, all'interno della dottrina cattolica della 'guerra giusta' - come entro la dottrina islamica della 'grande jihad' - sopravvive il nocciolo della dottrina ebraica della 'guerra santa'. Non a caso alla guerra contro i turchi, gli arabi e gli ebrei veniva dato l'appellativo di bellum justissimum, e talora anche quello di bellum sacrum.

Il permanere del nucleo ebraico della 'guerra santa' nel cuore della dottrina cattolica della 'guerra giusta' conferma una regolarità di lungo periodo che ha contraddistinto le relazioni fra i popoli nell'area mesopotamica, mediorientale, mediterranea ed europea. E' il carattere 'spazialmente discriminatorio' dell'ordine internazionale: una discriminazione che convive senza problemi con l'ideale universalistico e umanitario - stoico, cristiano, illuministico - dell'unità morale dell'umanità e dell'eguale dignità dei suoi membri. (Questa idea, come è noto, verrà solennemente proclamata con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, a conclusione della seconda guerra mondiale). Dagli ordinamenti antichi allo jus gentium romano, al sijar islamico e alla dottrina cattolica del bellum justum, la disciplina giuridica dei rapporti fra i popoli - e la regolazione della guerra - è stata applicata soltanto entro lo spazio della 'civiltà' (israelitica, greca, imperiale, cristiana, arabo-islamica, moderna, liberal-democratica, etc.), con l'esclusione rigorosa dei 'barbari' (gentili, idolatri, infedeli, turchi, mori, neri, selvaggi, cannibali, pirati, etc.) (7). Si tratta di uno 'spazio' ideologico che, in particolare nell'area mediterranea, si trascrive direttamente sul terreno geografico e politico-militare, disegnando confini invalicabili fra terra e terra, e fra terra e mare. I 'barbari' e gli 'infedeli' sono considerati estranei allo spazio della civiltà e del diritto, e perciò estranei al consorzio umano: la loro vita, i loro beni e le loro istituzioni non meritano alcuna tutela. L'universalismo umanitario, ribadito infinite volte in linea di principio, si arresta sul piano giuridico ai confini ideali del 'monoteismo' - oggi potremmo dire 'fondamentalismo' - di una religione o di una civiltà.

A questa regola di 'discriminazione spaziale' non ha fatto eccezione la Seconda scolastica cattolica, incluso il tanto celebrato universalismo umanitario di Francisco de Vitoria. Lo sterminio di milioni di nativi americani nel corso della conquista del 'nuovo mondo' è stato giustificato dai teologi cattolici o riproponendo, come fa de Sepúlveda, la dottrina aristotelica del carattere naturale della schiavitù (8) o, come fa Vitoria, qualificando come justa causa belli il diritto degli imperi iberici di diffondere la verità cattolica nel 'nuovo spazio' americano (9).

Anche nel contesto della espansione coloniale europea, a cavallo fra Ottocento e Novecento, non sono mancati teologi cattolici che si sono impegnati a legittimare come 'giuste' le guerre di aggressione contro i popoli 'idolatri' e 'incivili' degli altri continenti. Negli anni trenta del secolo scorso, ad esempio, 'La civiltà cattolica', organo autorevolissimo della Compagnia di Gesù, si distinse nel sostenere che il popolo etiope, incapace di un'adeguata coltivazione delle sue terre e dotato di scarso potenziale demografico, si era macchiato di una grave violazione del diritto naturale non avendo spontaneamente ceduto le sue terre al popolo italiano e avendolo così costretto ad usare la forza delle armi per affermare un proprio diritto di espansione (10)

2. La guerra moderna

Soltanto con l'abbandono delle premesse etico-teologiche e universalistiche della dottrina del bellum justum si sarebbe affermato in Europa, a partire dal Seicento, il 'diritto internazionale moderno, e cioè il diritto interstatale. La premessa di questa evoluzione sta nella rottura dell'unità monoteistica dell'Europa e nella nascita, a conclusione della Guerra dei Trent'anni, del sistema 'vestfaliano' degli Stati moderni europei. Sulle ceneri dell'universalismo politico-spirituale della Chiesa romana e del Sacro Romano Impero, nasce il primo ordinamento internazionale veramente 'moderno'. Esso si fonda sul pluralismo ('politeismo') degli Stati nazionali, territoriali e sovrani. La 'sovranità' dello Stato si esprime sia all'interno, come esclusiva potestà di comando da parte degli organi statali nei confronti dei cittadini, sia verso l'esterno, come assoluta indipendenza internazionale di tali organi (11).

Lo Stato si qualifica come superiorem non reconoscens, non attribuendo più alcuna autorità politica o giuridica a soggetti esterni al proprio ambito territoriale e normativo. Come è noto, questo modello è divenuto universale agli inizi del Novecento grazie all'espansione della comunità internazionale ed è rimasto sostanzialmente immutato sino alla conclusione della seconda guerra mondiale, subendo una profonda revisione soltanto con la Carta delle Nazioni Unite del 1945. Pur proclamando solennemente l'"eguale sovranità degli Stati" la Carta ha dato vita ad un organo come il Consiglio di Sicurezza che dispone di poteri sovranazionali molto ampi ed è egemonizzato - di diritto e non solo di fatto - dalle cinque potenze vincitrici del conflitto mondiale.

Sotto un profilo giuridico il modello di Vestfalia, nella sua iniziale purezza, si caratterizza per il fatto che nessuna soggettività internazionale è riconosciuta a entità collettive diverse dagli Stati o ad essi superiori. Non esistono a livello internazionale né un legislatore né un governo che abbiano il potere di emanare norme e di applicarle con validità erga omnes. Fonte esclusiva del diritto internazionale è l'autorità sovrana degli Stati in quanto essi sottoscrivano trattati bilaterali o multilaterali o in quanto riconoscano la vigenza di norme consuetudinarie o di principi generali. Non è prevista alcuna giurisdizione obbligatoria che abbia il potere di accertare la violazione del diritto, né alcuna 'polizia internazionale'. Oltre a ciò, il diritto internazionale non si occupa delle strutture politiche interne ai singoli Stati, né ha competenza a giudicare i comportamenti che le autorità statali tengono nei confronti dei loro cittadini. Nessuno Stato e nessuna organizzazione internazionale possono ingerirsi negli affari interni - la domestic jurisdiction - di uno Stato sovrano (12).

In questo quadro normativo radicalmente mutato rispetto all'ordine antico e medievale, il fenomeno della guerra e gli strumenti della sua legittimazione-limitazione cambiano profondamente. Dato ormai per scontato che, in assenza di un'autorità superiore e universale, ogni contendente è in grado di sostenere la legittimità etica e giuridica della propria guerra - bellum utrimque justum -, il diritto internazionale moderno abbandona il tema della 'giustizia' della guerra. Si concentra invece sulla definizione di regole e di procedure formali per la disciplina delle condotte belliche. Ritualizzando l'uso delle forza si tenta di intervenire sugli effetti più distruttivi dei conflitti fra gli Stati. E come obbiettivo finale si disegna un sistema pattizio di sicurezza collettiva che, pur non rinunciando all'uso della forza a garanzia dell'ordine internazionale, metta al bando la guerra, intesa come ricorso 'privato' all'uso della forza da parte di un singolo Stato.

Questo processo conosce due fasi nettamente distinte.

2.1. In una prima fase, che si prolunga sino alla conclusione della prima guerra mondiale, agli Stati viene riconosciuta la titolarità di un proprio sovrano jus ad bellum. A questo fine ciascuno Stato europeo si considera e viene considerato persona moralis e quindi justus hostis, portatore di un diritto originario di ricorrere all'uso della forza, prescindendo dalle sue 'cause'. Si afferma dunque il paradosso che il primo tentativo di limitare la guerra con strumenti propriamente giuridici - non più etici o religiosi - passa attraverso il riconoscimento, in testa ai soggetti dell'ordinamento internazionale, del diritto di usare la forza militare per l'affermazione dei propri interessi nazionali.

Nella transizione al regime statale e pluralistico del diritto internazionale moderno l'antica dottrina del bellum justum non scompare del tutto. Scompare il registro delle 'giuste cause' della guerra, assieme all'arcaico dispositivo relativo alle intenzioni morali dei belligeranti. Cade l'idea moralistica e semplicistica ('monoteistica') che sia sempre possibile, in presenza di un conflitto armato fra due contendenti, stabilire con argomenti etici universalmente validi chi sia nel giusto e chi nel torto. Alla perentorietà dei giudizi morali si sostituisce la flessibilità delle mediazioni diplomatiche. E scompare del tutto la motivazione 'sacra' o 'santa' della guerra, anche se non scompare affatto, come si è accennato, la 'discriminazione spaziale' fra popoli 'civili' e popoli 'barbari'. Verso quest'ultimi le guerre - in particolare le guerre coloniali a cavallo fra Ottocento e Novecento - verranno condotte senza limiti e con ogni mezzo, incluso l'uso di armi chimiche, come l'iprite, che sarà l'Italia ad usare per prima in Africa orientale anche contro le popolazioni civili.

Ciò che invece rimane in vita e viene anzi largamente sviluppato, sia pure in una versione laicizzata e statalizzata, è il registro dello jus in bello. Come è noto, è stato in particolare Carl Schmitt a mettere in luce i pregi del sistema pluralistico dello jus publicum europaeum, per la sua natura di ordine giuridico internazionale impegnato a 'mettere in forma' la guerra, pur senza pretendere di negarla e di bandirla giuridicamente. Anzi, a giudizio di Schmitt, il diritto di guerra europeo è efficace proprio perché non è velleitariamente orientato a negare giuridicamente la guerra o a condannarla sul piano morale (13). La guerra viene ritualizzata da una serie di procedure diplomatiche, come la dichiarazione di guerra e la pattuizione della pace. Viene formalmente riconosciuto, grazie all'abbandono dell'idea della possibile 'giustizia' unilaterale della guerra, il diritto alla neutralità di Stati terzi, e quindi alla loro inviolabilità. E, soprattutto, vengono sottoscritti numerosi trattati bilaterali e multilaterali per la protezione delle vittime di guerra - i feriti, i prigionieri, i malati, i civili in generale - e per la messa al bando di armi ritenute inutilmente distruttive e pericolose, come, recentemente, le mine antiuomo.

Il problema del numero crescente delle vittime civili della guerra moderna - e quello della sproporzione fra i suoi obiettivi militari e l'ampiezza delle stragi e delle distruzioni - si fa sempre più rilevante. Le conseguenze umane e sociali della guerra si prolungano ben oltre il conflitto armato, in termini di mutilazioni permanenti, scomposizione della vita familiare, miseria, corruzione, violenza, odio, inquinamento ambientale. Il vecchio modello della guerra terrestre fra eserciti che si affrontano sul campo di battaglia è del tutto superato. La guerra fra Stati si estende al mare, agli oceani e al cielo, e fa uso di strumenti di distruzione di massa sempre più sofisticati e micidiali. Le vecchie norme dello jus in bello che impongono la discriminazione fra civili e combattenti e la proporzione fra i vantaggi e le devastazioni belliche risultano sempre meno applicate e applicabili.

2.2. In una seconda fase, che segue ai due conflitti mondiali e coincide con la creazione delle grandi istituzioni internazionali del secolo scorso - in primis la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite -, la guerra moderna viene concepita come un illecito internazionale tout court. La tragedia della prima guerra mondiale, con i suoi milioni di morti e le sue immani devastazioni, provoca un drastico mutamento dello scenario giuridico mondiale. La guerra viene concepita, in particolare da giuristi statunitensi ed europei, come una radicale negazione del diritto, una negazione che il diritto internazionale deve a sua volta radicalmente negare. Alla fine, sotto l'influenza del wilsonismo politico e giuridico, la guerra moderna verrà addirittura qualificata come un crimine penale, di cui saranno ritenuti responsabili non solo gli Stati ma anche i singoli individui, implicitamente assunti a soggetti (passivi) del diritto internazionale. Scaturirà da questa idea la controversa esperienza dei Tribunali penali internazionali, dal Tribunale di Norimberga a quelli di Tokyo, dell'Aja e di Arusha (14). L'incriminazione, alla fine della prima guerra mondiale, del Kaiser Guglielmo II di Hohenzollern come criminale di guerra, perché responsabile di "oltraggio supremo alla morale internazionale e alla santità dei trattati", è la prima, clamorosa espressione di questo nuovo orientamento. E il Patto Briand-Kellogg, del 1928, è la formale consacrazione di questa tendenza normativa che intende bandire la guerra dall'ordinamento giuridico internazionale (ma senza abrogare per questo l'apparato garantista del diritto bellico).

Infine, dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, appena spenti i bagliori delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki, la Carta delle Nazioni Unite definisce la guerra come un 'flagello' (scourge) che la comunità internazionale deve impegnarsi a cancellare per sempre dalla storia umana. L'uso della forza sarà consentito solo al Consiglio di Sicurezza e soltanto a garanzia della pace e per la repressione delle sue violazioni da parte di eventuali aggressori. Nel dicembre 1946, per volontà dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, i princìpi applicati dal Tribunale di Norimberga contro i criminali nazisti sono assunti a princìpi generali di diritto internazionale. Vengono così solennemente confermate le norme, presenti nella Carta, che qualificano come aggressione, indipendentemente da ogni possibile justa causa, l'uso (e la minaccia dell'uso) della forza militare da parte di uno Stato. Responsabile del crimine di aggressione è qualsiasi Stato che usi per primo la forza o minacci di usarla. E' prevista una sola eccezione, quella dell'art. 51 della Carta delle Nazioni Unite: è l'ipotesi che uno Stato sia costretto a resistere a un attacco militare in atto contro il suo territorio. In caso di self-defense lo Stato può usare legittimamente (ma solo provvisoriamente) la forza in attesa dell'intervento del Consiglio di Sicurezza.

3. La guerra globale

I due paragrafi che precedono - è il momento di svelarlo al lettore che ci abbia volenterosamente seguito sin qui - non sono che una lunga premessa della tesi centrale di questo saggio: nell'ultimo decennio del secolo scorso, dopo la fine della guerra fredda e il tramonto dell'ordine bipolare del mondo, sia il fenomeno della guerra, sia gli apparati retorici della sua giustificazione sono radicalmente cambiati. Questo cambiamento - è la seconda tesi, implicita, del presente saggio - può essere adeguatamente interpretato solo nel quadro dei processi di trasformazione economico-finanziaria, informatica, politica e giuridica che vanno sotto il nome di 'globalizzazione'. La trasformazione della guerra e delle sue protesi ideologiche è stata accelerata, non 'causata', dall'attentato terroristico dell'11 settembre 2001, che ha portato alle guerre degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati contro l'Afghanistan e contro l'Iraq. In questa cornice analitica l'11 settembre presenta un rilievo marginale. E' bene sottolinearlo perché recenti interpretazioni filosofico-politiche - penso ad esempio al libro di Carlo Galli, La guerra globale (15) - lo assumono invece come uno spartiacque cruciale, addirittura come il discrimine fra età moderna ed età globale.

In questi ultimi anni, in altre parole, si è sviluppato un processo di transizione dalla 'guerra moderna' alla 'guerra globale'. Questa transizione non riguarda soltanto la morfologia della 'nuova guerra', e cioè la sua dimensione strategica e la sua potenzialità distruttiva, che hanno assunto entrambe una misura globale. Strettamente connessa è una vera e propria eversione del diritto internazionale moderno, e una regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusi importanti elementi della dottrina 'monoteistica' del bellum justum e del suo nocciolo teologico-sacrificale di ascendenza biblica: la 'guerra santa' contro i barbari e gli infedeli. Queste retoriche sono diventate oggi, nel contesto della globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, uno strumento bellico di eccezionale rilievo.

Per cogliere il senso profondo di questa trasformazione è necessaria una minima dilatazione analitica dell'arco temporale dell'ultimo decennio del Novecento. Occorre includervi la riflessione strategica che negli Stati Uniti ha fatto prontamente séguito alla conclusione della Guerra fredda e al crollo dell'impero sovietico. E' una riflessione nel corso della quale la superpotenza americana prende piena coscienza del fatto che ha vinto l'ultima guerra mondiale, e che si tratta della vittoria più importante di tutta la sua storia. Gli Stati Uniti sono ormai la sola superpotenza politica e militare del pianeta, in grado di presidiarlo con il suo potenziale bellico e le sue tecnologie informatiche in continuo sviluppo.

Quattro sono a mio parere le tappe fondamentali del processo di 'mutazione globalistica' della guerra di cui occorre tenere conto, corrispondenti a quattro eventi bellici: la guerra del Golfo del 1991, la duplice guerra nei Balcani, svoltasi a più riprese dal 1991 al 1999, la guerra in Afghanistan iniziata nel 2001 e mai finita, la guerra contro l'Iraq, iniziata nel 2003 e anch'essa formalmente non conclusa. Si tratta di eventi bellici che si sono svolti tutti - la circostanza non può essere considerata casuale dal punto di vista geopolitico e geoeconomico - in un'area relativamente ristretta del pianeta, che include i Balcani, il Medio Oriente e l'Asia centromeridionale, dalle regioni caucasica e caspica sino ai confini occidentali dell'India e della Cina.

Alla nozione di 'guerra moderna' assegno qui il duplice significato che ho sopra enunciato. La guerra moderna è, per un verso, una guerra fra Stati sovrani che accettano per via pattizia di sottoporre le proprie attività belliche a disciplina giuridica, dando vita al diritto internazionale di guerra nelle forme inizialmente previste dal jus publicum europaeum e accordando notevole rilievo alle attività diplomatiche. Per un altro verso la guerra moderna è la guerra che, in quanto uso unilaterale della forza militare da parte di uno Stato, viene bandita dal diritto internazionale. Essa viene sostituita dalla competenza di un organo sovranazionale - il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite - cui è attribuito il monopolio dell'uso della forza a garanzia della sicurezza collettiva, dell'ordine e della pace. La proscrizione della guerra come atto di aggressione (salvo l'uso della forza a puro scopo difensivo) e la sua 'messa in forma' giuridica convivono di fatto in un regime di doppio registro normativo - che ricorda da vicino la giustapposizione canonica di jus ad bellum e jus in bello -, non privo di gravi incongruenze, come è emerso clamorosamente sia dall'attività del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia (16), sia dalla recente pretesa delle forze di occupazione angloamericane in Iraq di processare leader politici e militari iracheni per crimini di guerra.

All'espressione 'guerra globale' attribuisco un significato complesso che non può che rinviare ad una teoria generale della 'nuova guerra' nel contesto dei processi di integrazione globale oggi in corso: una teoria che è in gran parte ancora da scrivere. Per mio conto propongo, in chiave puramente congetturale, le seguenti determinazioni concettuali.

3.1. Globalismo geopolitico

'Globale' la nuova guerra è anzitutto in senso geopolitico, trattandosi di un evento bellico despazializzato e senza limiti di tempo. La guerra antica, come abbiamo visto, era una guerra rigidamente ancorata ad uno spazio territoriale, anche a causa della scarsa mobilità dei suoi attori, ed aveva un inizio ed una fine temporalmente definiti. Anche la guerra moderna, pur con la sua notevole dilatazione geografica e temporale, resta una guerra nettamente riferita alla spazialità territoriale (che nelle due guerre mondiali tende a includere sempre più anche gli oceani e il cielo), poiché uno dei suoi obiettivi principali è la conquista di aree territoriali (statali) ben definite. E ben definiti sono i soggetti internazionali del conflitto, che sono sempre Stati nazionali sovrani, giuridicamente qualificati come tali e rappresentati dalle proprie autorità politico-militari e diplomatiche. La guerra viene formalmente dichiarata e la pace altrettanto formalmente sottoscritta entro un quadrante temporale trasparente e internazionalmente controllabile.

Al contrario, la guerra globale non è una guerra fra Stati sovrani. E' condotta all'insegna di una strategia che il suo attore principale - gli Stati Uniti d'America - orienta verso obiettivi universali come la sicurezza globale (global security) e l'ordine mondiale(new world order), e non verso la conquista di spazi territoriali da occupare stabilmente e annettere in qualche forma al proprio territorio. Nel caso dell'attacco della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava si assiste addirittura ad una 'guerra dal cielo' nella quale gli attaccanti si servono di una rete di monitoraggio satellitare e di vero e proprio spionaggio informatico che fa da contrappunto elettronico della guerra. Essi possono così ignorare totalmente la dimensione territoriale, limitandosi a bombardamenti selettivi da una quota così elevata da evitare la minima perdita di vite umane (statunitensi).

Come mostrano documenti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, sin dal fondamentale Defense Planning Guidance del 1992 (17), l'interesse che viene perseguito con la forza delle armi è la stabilità dell'ordine mondiale in un quadro di accresciuta interdipendenza dei fattori internazionali, e di elevata vulnerabilità degli interessi dei paesi industriali. Si tratta di garantire agli Stati Uniti e ai loro alleati il libero e regolare accesso alle fonti energetiche, anzitutto al petrolio e al gas combustibile, l'approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza dei traffici marittimi ed aerei e la stabilità dei mercati mondiali, in particolare di quelli finanziari, impedendo nello stesso tempo la proliferazione delle armi biologiche, chimiche e nucleari. Si tratta insomma di garantire lo sviluppo dei processi di globalizzazione in un quadro di elevata e crescente asimmetria politica ed economica delle relazioni internazionali. La stabilità globale deve essere garantita senza toccare i meccanismi di distribuzione mondiale della ricchezza che scavano un solco sempre più profondo fra i paesi ricchi e i paesi poveri.

In particolare dopo l'11 settembre la guerra globale non viene rivolta contro uno Stato o una alleanza militare fra Stati, e neppure contro un nemico precisamente individuato. A più riprese gli Stati Uniti individuano e minacciano una serie di nemici, in parte identificati con le organizzazioni (non statali) del global terrorism, in parte denunciati come appartenenti ad una lista di 'Stati canaglia' (rogue states) - Somalia, Sudan, Libia, Siria, Iran, Corea del Nord, etc. - da considerare meritevoli di un attacco militare per ragioni insindacabili. Si tratta di Stati ai quali la massima potenza mondiale, sostituendosi all'intero complesso delle istituzioni internazionali, nega di fatto la sovranità o riconosce al più una sovranità residuale, da concedere o negare ad libitum. E' naturale che questo tipo di guerra globale non si esaurisca in un singolo evento bellico - con un inizio ed una fine nel tempo -, ma si sviluppi in un continuum di interventi militari destinati a durare indefinitamente nel tempo e in parte a sovrapporsi fra loro (come è il caso - siamo nel giugno 2003 - delle guerre parallele contro l'Afghanistan e contro l'Iraq, e delle simultanee minacce rivolte dagli Stati Uniti a paesi come l'Iran, la Siria e la Corea del Nord).

Globali in senso geopolitico sono le nuove guerre anche per l'entità delle devastazione ambientali, provocate dalla eccezionale quantità di esplosivo che viene usato, spesso altamente tossico e radioattivo.E' stato calcolato, ad esempio, che nel corso dei quarantadue giorni della Guerra del Golfo del 1991 è stata utilizzata una quantità di esplosivo superiore a quella impiegata dagli Alleati durante l'intera Seconda guerra mondiale. A giudizio degli esperti, le contaminazioni del terreno, dell'acqua, dell'aria, del mare e dell'alta atmosfera hanno provocato a livello planetario, anche a distanza di molti anni, migliaia di perdite di vite umane, di animali e di organismi vegetali (18).

E si può aggiungere infine che si tratta di 'guerre globali' anche per ragioni legate alla globalizzazione informatica: sia per l'informazione televisiva che viene riversata su una platea planetaria facendo delle nuove guerre gli eventi in assoluto più 'comunicati' nella storia umana; sia per la rete di monitoraggio satellitare, gestita esclusivamente da potenze anglofone, che in nome della guerra globale contro il terrorismo sorveglia dall'alta atmosfera - e in futuro sorveglierà dallo spazio extraterrestre - i comportamenti e le comunicazioni di tutti i cittadini del mondo attraverso la registrazione dei loro contatti elettronici e dei loro spostamenti, in particolare dei loro viaggi aerei. Dio, scrive la Bibbia, conta i capelli del nostro capo.

3.2. Globalismo sistemico

In secondo luogo, la nuova guerra può essere detta 'globale' in senso sistemico, e cioè come guerra egemonica. Questa nozione è stata elaborata da teorici delle relazioni internazionali - in particolare da William R. Thompson (19) - che si sono ispirati alla General System Theory. In questo senso 'guerre globali' sono le guerre combattute per decidere chi assumerà la funzione di leadership entro il sistema mondiale delle relazioni internazionali, chi imporrà le regole sistemiche, chi avrà il potere di modellare politicamente i processi di allocazione delle risorse di ricchezza e di potere, e chi potrà far prevalere la propria visione del mondo, il proprio senso dell'ordine, il proprio Dio.

Per identificare senza possibilità di equivoci il carattere egemonico della nuova guerra è sufficiente scorrere alcuni dei documenti più recenti dell'amministrazione statunitense, in particolare il Quadrennial Defense Review Report, diffuso dal Dipartimento della Difesa il 30 settembre 2001. Il documento è stato reso pubblico qualche settimana dopo l'attentato alle Due Torri, ma, salvo alcune minime interpolazioni adattive, è il frutto di una lunga elaborazione precedente l'11 settembre. Nel documento si sostiene che gli Stati Uniti, in quanto global power, sono il solo paese in grado di 'proiettare potenza' su scala mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò estendere la propria influenza globale, rafforzando l'America's global leadership role. E ciò sia per aumentare la propria sicurezza interna, sia per tutelare e promuovere i propri 'interessi vitali' sul piano internazionale. In secondo luogo gli Stati Uniti devono mettere a punto una strategia globale che sfrutti i 'vantaggi asimmetrici' (asymmetric advantages) di cui essi godono in termini nucleari, di intelligence e di controllo informatico del pianeta. La risposta al global terrorism deve essere impostata in termini militari in modo da fare delle forze armate statunitensi una total force (anche nucleare) che impedisca ai gruppi terroristici e ai rogue States l'uso di armi nucleari, chimiche o batteriologiche. In terzo luogo gli Stati Uniti devono rafforzare il loro sistema planetario di basi militari ed aumentarne il numero nelle 'aree critiche' entro le quali si possono affermare potenze ostili agli Stati Uniti (precluding hostile dominations of critical areas). Queste aree sono i Balcani e in modo tutto particolare l'Asia: dal Medio Oriente all'Asia centrale, dal Golfo del Bengala al Mar del Giappone e alla Corea, lungo quello che il documento chiama East Asian Littoral, includendovi anche l'Asia del Sud-Est. Solo controllando militarmente queste aree - in particolare i paesi dell'area caucasica, caspica e transcaspica, come la Georgia, l'Azerbaijan, il Turkmenistan, l'Uzbekistan e il Tagikistan, oltre ovviamente all'Afghanistan e al Pakistan - gli Stati Uniti possono garantirsi il controllo delle risorse energetiche di cui questi paesi abbondano. Se necessario, si dovrà cambiare il regime di uno Stato avversario ed occuparne provvisoriamente il territorio finché gli obbiettivi strategici statunitensi non siano realizzati.

Per quanto riguarda in particolare il Medio Oriente l'obbiettivo principale della strategia statunitense è quello di 'democratizzare' con la forza l'intera area, dall'Egitto alla penisola arabica, alla Giordania, alla Siria, all'Iraq e all'Iran. Quest'area, oltre ad essere uno dei più ricchi depositi di risorse energetiche del mondo, è una regione altamente instabile e il crogiolo del global terrorism. Al suo centro sta non solo il conflitto fra lo Stato di Israele e il popolo palestinese ma anche - sfida globale insostenibile - il fenomeno del terrorismo suicida, emblema del rifiuto dei valori occidentali e della resistenza del mondo islamico alla strategia egemonica degli Stati Uniti (20). Il recente progetto della Road Map, messo a punto dal governo Sharon e dalla amministrazione Bush, intende risolvere la questione palestinese in linea con la strategia della 'democratizzazione' militare del Medio oriente e cioè proseguendo nell'opera di negazione 'monoteistica' della 'spazialità' territoriale e dell'identità del popolo palestinese e nella spietata repressione della sua resistenza.

3.3. Globalismo normativo

In terzo luogo la nuova guerra è globale in un senso propriamente normativo, come guerra sovrana e illimitata perché sottratta sia alle norme dell'ordinamento internazionale, sia alle modalità procedurali previste dalle sue istituzioni. E' una guerra decisa da una autorità che si ritiene, per usare il lessico di Schmitt, fonte sovrana di un nuovo Nomos della terra in una situazione - la minaccia del global terrorism - di eccezione globale permanente. L'intera vicenda che ha visto gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) lungamente preparare e poi sferrare l'attacco contro l'Iraq è all'insegna di questo inedito decisionismo e globalismo normativo. Si è trattato infatti di una condotta bellica non solo illegale, ma radicalmente eversiva dell'ordinamento internazionale. E' una guerra che si propone di dar vita a un nuovo ordine mondiale - e a un nuovo diritto internazionale - che assuma l'amministrazione degli Stati Uniti come suprema istituzione e fonte normativa internazionale, al posto delle Nazioni Unite e di ogni altra analoga organizzazione.

Ancora una volta è un documento della Casa Bianca - il National Security Strategy of the United States of America del 17 settembre 2002 - a gettare luce su questa inedita prospettiva bellica. Le linee fondamentali del documento riaffermano il diritto dell'amministrazione degli Stati Uniti di qualificare alcuni Stati sovrani, al di fuori di qualunque procedura legale, come Stati da mettere ai margini della comunità internazionale e da fare oggetto di pressioni politiche, di minacce militari e di controlli coercitivi che mirino al loro disarmo. Le stesse Nazioni Unite vengono trattate non come un organismo sovranazionale e una assise universale, ma come una istituzione politicamente e militarmente subordinata alla amministrazione statunitense, da fare oggetto di sistematiche pressioni e porre di fronte a veri e propri Diktat militari: si annuncia apertamente che l'attacco all'Iraq verrà comunque deciso, anche senza una risoluzione del Consiglio di Sicurezza.

Ma il fulcro eversivo del documento è la rivendicazione del diritto degli Stati Uniti a ricorrere alla 'guerra preventiva' contro ogni possibile nemico, in totale indipendenza da qualsiasi autorità del pianeta. E' appena il caso di sottolineare - lo abbiamo del resto ampiamente illustrato nel secondo paragrafo di questo saggio - come il divieto dell'uso unilaterale e preventivo della forza militare è il pilastro che sorregge l'intera struttura della Carta delle Nazioni Unite. La nozione di aggressione - e cioè della più grave violazione dell'ordine internazionale - coincide esattamente con l'uso preventivo e unilaterale della forza da parte di uno Stato. Questa nozione di aggressione è d'altra parte ciò che più nettamente distingue il diritto internazionale vigente dall'etica militare antica e medievale. Come abbiamo visto, sia la 'guerra santa' israelitica, sia la 'guerra giusta' cattolica legittimano l'uso preventivo della forza contro i nemici del popolo di Dio.

3.4. Globalismo monoteistico

Infine, la nuova guerra è 'globale' in un senso che si può dire monoteistico, anzitutto per il costante richiamo a valori universali da parte delle potenze (occidentali) che la promuovono: esse giustificano la guerra in nome non di interessi di parte o di obiettivi particolari, ma di un punto di vista superiore e imparziale e di valori che si ritengono condivisi o condivisibili dall'umanità intera. Il weberiano 'politeismo' delle morali e delle fedi religiose è sistematicamente negato dai teorici della guerra globale. Essi contrappongono una visione monoteistica del mondo - in particolare quella biblica e fervidamente cristiana dell'attuale gruppo dirigente degli Stati Uniti, composto da metodisti, anabattisti, presbiteriani, episcopali e luterani -, al pluralismo dei valori e alla complessità del mondo. Dichiarando di combattere l'ideologia disumana e sanguinaria del terrorismo globale in realtà gli Stati Uniti respingono tutto ciò che si oppone all'egemonia del monoteismo occidentale e combattono in modo tutto particolare la cultura islamica che in questo momento tenta di resistere più di ogni altra al processo di occidentalizzazione del mondo al quale si riduce in larga parte ciò che chiamiamo 'globalizzazione'. E' la guerra unilaterale delle forze del bene - secondo la retorica elementare di George Bush jr. - contro the axis of evil, l''asse del male'. E' la 'guerra umanitaria' contro i nemici dell'umanità che negano l'universalità di valori come la libertà, la democrazia, i diritti dell'uomo e, naturalmente, l'economia di mercato.

L'uso della forza - qualunque sia il suo obiettivo egemonico, dichiarato o non dichiarato - viene giustificato in nome di una sorta di fondamentalismo umanitario che enfatizza il dovere dei paesi occidentali di tutelare i diritti dell'uomo in ogni angolo della terra, intervenendo se necessario con la forza delle armi. All'universalismo normativo dei diritti dell'uomo deve corrispondere l'universalismo della loro protezione militare, come ha recentemente sostenuto Michael Ignatieff (21). E questo comporta - il punto è decisivo - l'abbandono del vecchio principio vestfaliano della non interferenza negli affari interni degli altri Stati e la proclamazione di un principio opposto: il dovere degli Stati Uniti e delle potenze occidentali di intervenire con la forza tutte le volte in cui lo ritengano necessario per porre fine alla violazione di diritti fondamentali all'interno di uno Stato, se necessario abbattendone il regime politico. E' il monoteismo imperiale della 'guerra umanitaria', sostenuta dal classico assunto 'cosmopolitico' del necessario declino del pluralismo delle sovranità nazionali e dell'emergere di un mondo globalizzato sotto la responsabilità e la guida di una sola iperpotenza.

E' una logica carica di insolubili aporie, a cominciare dal tema della compatibilità dell'uso della armi di sterminio - inclusi i sistemi d'arma illegali come i proiettili all'uranio impoverito, le cluster bombs e i quasi-nucleari fuel-air explosives - con la finalità della protezione dei diritti degli uomini. E' la questione, cioè, se in nome della (pretesa) tutela dei diritti individuali sia lecito sacrificare la vita, l'integrità fisica, i beni, gli affetti, i valori di (migliaia di) persone innocenti, come è avvenuto in particolare nella guerra per il Kosovo e come sta avvenendo sia in Afghanistan che in Iraq. Né può essere trascurata la questione di quale possa essere l'autorità neutrale e imparziale - l'autorità universalistica, come universalistici si pretende che siano i diritti dell'uomo -, investita della funzione morale, prima ancora che politica, di decidere il sacrificio di persone innocenti. Non si dovrebbe ignorare che la guerra è oggi un evento incommensurabile con le categorie universalistiche dell'etica e del diritto, poiché essa non ha altra funzione che quella di distruggere - senza proporzioni, senza discriminazione e senza misura - i diritti delle persone, prescindendo da una considerazione dei loro comportamenti responsabili. La guerra è in sostanza l'esecuzione di una pena capitale collettiva sulla base di una presunzione di responsabilità penale di tutti i cittadini di uno Stato. Opera dunque secondo una logica particolaristica e discriminatrice, del tutto incompatibile con le premesse del fondamentalismo umanitario.

Si tratta, infine, di giustificazioni della guerra che appaiono regressive rispetto all'intero impianto del diritto internazionale moderno, nel momento stesso in cui ripropongono 'giuste cause' dell'uso della forza internazionale secondo la dottrina cattolica e imperiale del bellum justum. Ed è significativo che questa dottrina sia stata ripresa negli ultimi decenni del Novecento esclusivamente da autori statunitensi, in primis dal filosofo e militante sionista Michael Walzer, nel libro, di grande successo, Just and Unjust Wars (22). Walzer si è recentemente distinto per aver scritto e diffuso assieme a sessanta eminenti intellettuali statunitensi un documento, altamente intonato sul piano etico-teologico, in cui si proclama 'guerra giusta' la guerra contro l''asse del male' dichiarata dall'amministrazione Bush contro il terrorismo. Ed è altrettanto significativo che nel suo libro Walzer sostenga che in casi di supreme emergency, quando ci si trovi di fronte a un pericolo "inusuale e orrendo" per il quale si provi una profonda ripugnanza morale perché rappresenta l'"incarnazione del male nel mondo" e "una minaccia radicale ai valori umani", nessun limite di carattere etico e giuridico può essere rispettato da parte di chi ne sia minacciato. Qualunque mezzo di distruzione preventiva, anche il più terroristico e sanguinario, è moralmente lecito (23).

Universalismo imperiale, dottrina cattolica della 'guerra giusta' e mistica biblica della 'guerra santa' si sposano qui in una concezione discriminatrice dello spazio globale. Coloro che respingono l'egemonia dei valori occidentali, ricorrendo al terrorismo, sono i nuovi barbari e i nuovi infedeli: sono i nemici dell'umanità contro i quali una guerra terroristica di sterminio, inclusa l'abiezione del lager di Guantanamo, non può che essere approvata dal Dio occidentale. E questo Dio approverà, ovviamente, anche il ricorso alle armi nucleari - strategiche e tattiche - che in violazione del Trattato di non proliferazione gli Stati Uniti stanno perfezionando e producendo in quantità crescenti.

4. Conclusione

Nel contesto dei processi di globalizzazione la logica della guerra sta nettamente prevalendo sulle aspettative della pace. Una potenza egemone è diventata l'alfiere della guerra e oggi minaccia apertamente persino il ricorso al suo potentissimo arsenale nucleare. Nel frattempo il diritto internazionale sta attraversando una crisi molto grave, che è nello stesso tempo causa e conseguenza della paralisi delle Nazioni Unite. Dalla fine del bipolarismo ad oggi gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali non solo hanno usato la forza militare in sistematica violazione del diritto internazionale, ma ne hanno esplicitamente contestato le funzioni in nome di un loro incondizionato jus ad bellum. In queste circostanze il riferimento interpretativo ad un modello premoderno di ordine mondiale - universalistico, monoteistico, imperiale - non sembra fuori luogo.

Se è così, siamo in presenza di una regressione che ci riporta, nel migliore dei casi, agli inizi del secolo scorso, alla situazione precedente allo scoppio delle due guerre mondiali, con il connesso pericolo di una sempre più diffuso ricorso all'uso della forza da parte delle potenze che dominano il mondo. Sta probabilmente per aprirsi un lungo ciclo di nuove guerre - di guerre globali - che né il diritto, né le istituzioni internazionali, nella situazione di crisi in cui oggi versano, potranno fermare o limitare nei loro effetti più distruttivi.

Sembra evidente che un sistema giuridico internazionale può esercitare effetti di ritualizzazione dell'uso della forza - sottomettendola a procedure predeterminate e a regole generali - solo a condizione che nessun soggetto dell'ordinamento possa, grazie alla sua potenza soverchiante, considerarsi ed essere considerato legibus solutus. Dunque, il primo compito dei pacifisti sembra oggi quello di combattere per un mondo multipolare e per un dialogo fra le civiltà del pianeta che consideri le differenze culturali e la complessità del mondo come una preziosa risorsa evolutiva e non come un ostacolo allo sviluppo e alla pace. La 'lotta per il diritto', e cioè l'impegno per un mondo meno violento e meno spietatamente diviso fra paesi ricchi e paesi poveri, si profila oggi anzitutto come una battaglia per il politeismo delle fedi, delle culture e delle civiltà.


Note

1. Si veda D.J. Bederman, International Law in Antiquity, Cambridge, Cambridge University Press, 2001.

2. Si veda: J.B. Elshtain (a cura di), Just War Theory, Oxford, Basil Blackwell, 1992; R.F. Peters, The Jihad in Classical and Modern Islam, Princeton, Princeton University Press, 1995; P. Partner, Il Dio degli eserciti. Islam e cristianesimo: le guerre sante, Einaudi, Torino 1997; J.T. Johnson, Holy War Idea. Western and Islamic Traditions, University Park (Pe), The Pennsylvania State University, 2001.

3. Durante il 'Giubileo dei militari' - celebrato in San Pietro, a Roma, nel corso del 2000 - il pontefice, con trasparente allusione alla guerra della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava, ha dichiarato che l''intervento umanitario' armato è lecito quando non ci siano altri mezzi per difendere i diritti umani.

4. Si veda F.H. Russell, The Just War in the Middle Ages, Cambridge, Cambridge University Press, 1975; W.V. O'Brien, The Conduct of Just and Limited War, New York, Praeger, 1981.

5. Si veda F. Cardini, Quell'antica festa crudele, Milano, Mondadori, 1997.

6. Si veda C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker und Humblot, 1974, trad. it. Milano, Adelphi, 1991.

7. Si veda C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, trad. it. cit.; P. Frezza, Ius gentium, 'Revue Internationale Droits Antiquité' 2, 2, 1949 (Mélanges De Visscher, 1); M. Khadduri, The Islamic Law of Nations: Shaybani's Siyar, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1966.

8. Si veda J.G. de Sepúlveda, Democrates Secundus, sive de iustis belli causis apud Indos, (1545), ed. bilingue a cura di M. Menendez y Pelayo 'Boletin de la Real Academia de la Historia', Madrid 1892.

9. Si veda F. de Vitoria, Relectio de Indis, (1538), testo critico di L. Pereña, ed. italiana a cura di A. Lamacchia, Bari, Levante, 1996.

10. Si veda A. Messineo, Propagazione della civiltà ed espansione coloniale, 'La civiltà cattolica', 1936, 2; A. Messineo, Necessità di vita e diritto di espansione, ivi, 1936, 3.

11. Mi permetto di rinviare al mio saggio Sovranità, ora in I signori della pace, Roma, Carocci, 1998.

12. Cfr. A. Cassese, Il diritto internazionale nel mondo contemporaneo, Bologna, il Mulino, 1984.

13. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, trad. it. cit., pp. 335-67.

14. Mi permetto di rinviare al mio Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino. Einaudi, 2000, capitolo quarto.

15. Si veda C. Galli, La guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002.

16. Mi permetto di rinviare nuuovamente al mio Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, cit., pp. 134-63.

17. Sul tema mi permetto di rinviare al mio Cosmopolis. Le prospettive del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1955, in particolare al secondo capitolo.

18. Cfr. T.M. Hawley, Against the Fires of Hell. The Environmental Disaster of the Gulf War, New York-San Diego-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1992, p. 184.

19. Si veda W. R. Thompson, On Global War: Historical-Structural Approaches to World Politics, Columbia (S.C.), University of South Carolina Press, 1988.