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Leviathan e Behemoth. Modelli egemonici e spazi coloniali in Carl Schmitt

di Filippo Ruschi - 14/06/2007

 

 

Introduzione: grandi spazi, grandi equivoci

Aedo dell'imperialismo coloniale europeo, epigono dell'espansionismo imperiale prussiano, ideologo del Lebensraum nazionalsocialista: queste ed altre etichette screditanti sono state usate per (s)qualificare Carl Schmitt. E proprio nel concetto di Grossraum, nella tematizzazione del 'grande spazio' che tanta parte ha avuto nella sua riflessione internazionalistica, si è voluto individuare il nucleo di questo sinistro programma egemonico. (1)

Nulla di tutto ciò. Nel discorso schmittiano sui Grossräume sarebbe vano cercare allusioni a grandiosi progetti di egemonia globale, o più semplicemente appelli a favore di quelle 'classiche' politiche di intervento coloniale che ancora nel 1878 avevano trionfato al Congresso di Berlino. Tra i primi a denunciare questo formidabile fraintendimento del pensiero schmittiano, va annoverato Alexandre Kojève che, in un brillante scritto dedicato alla questione del colonialismo europeo, ci ha lasciato alcune felici intuizioni. Si tratta di un'interpretazione su cui vale la pena insistere, per chiarire alcuni delicati passaggi della teoria schmittiana ed evitare ogni possibile fraintendimento. Lo scritto in questione, risalente al lontano 1957, è in realtà il testo di una conferenza tenuta nel gennaio di quell'anno in una sede tutt'altro che accademica: si trattava del Rhein-Ruhr-Klub di Düsseldorf che raccoglieva nomi prestigiosi dell'imprenditoria tedesca. (2) L'incontro, organizzato dallo stesso Schmitt con il quale Kojève aveva avviato da tempo una fitta corrispondenza, era dedicato al tema dei rapporti tra i paesi industrializzati e quelli sottosviluppati. Si trattava di una questione particolarmente delicata, dal momento che proprio in quegli anni stava tramontando il classico modello del "colonialismo politico", mentre un nuovo, aggressivo "colonialismo economico" andava celebrando i propri fasti.

E' probabile che l'uditorio, più che il filosofo hegeliano allievo di Karl Jaspers ed amico e maestro di Georges Bataille, Jacques Lacan e tanti altri intellectuelles, si aspettasse di ascoltare l'influente chargé de mission, incaricato dal governo francese di condurre delicate negoziazioni internazionali. Possiamo dunque immaginare la perplessità dei presenti nel momento in cui Kojève - non rinunciando al gusto di stupire - propugnò un "colonialismo datore", per cui i paesi sviluppati avrebbero dovuto investire nei paesi sottosviluppati il plusvalore ricavato dal loro sfruttamento. E probabilmente non furono in pochi a sobbalzare quando Kojève giustificò questo indirizzo di politica economica richiamandosi a quanto aveva fatto Henry Ford, nel momento in cui aveva rafforzato il potere di acquisto dei propri operai attraverso l'aumento salariale. "Il colonialismo moderno", osservava Kojève, "ha urgente bisogno di un nuovo Ford collettivo, così come il vecchio capitalismo ha avuto bisogno dei vari Ford." (3) Dal canto suo l'Europa era chiamata ad applicare una tale logica fordista in primo luogo all'area mediterranea. "Se non si pratica il 'colonialismo datore' i clienti meridionali e orientali del Mediterraneo resteranno clienti poveri." E questo concludeva con buona dose di realismo Kojève "significa cattivi clienti, quindi pericolosi per il buon andamento delle cose." (4)

Al di là delle osservazioni di Kojève sulla situazione politica internazionale, le riflessioni svolte davanti al Rhein-Ruhr-Klub si prestano a diversi livelli di interpretazione. Ed al lettore di Schmitt non sfuggono certo le allusioni di Kojève alle tesi schmittiane espresse in testi come Nehmen/Teilen/Weiden. (5) Non si tratta solo del richiamo alla necessità di un nuovo "nomos della terra occidentale" - la cui matrice schmittiana è chiaramente esplicitata - che Kojève declina in un'accezione conforme alla sua proposta di un "colonialismo datore".

Penso, piuttosto, a riferimenti impliciti, sotterranei e forse per questo ancor più preziosi. L'immagine di un'Europa capace di un'azione politica unitaria, affrancata dal bipolarismo della Guerra Fredda, con cui Kojève concludeva il suo intervento presenta forti assonanze con l'immagine schmittiana di un Grossraum europeo. Se Washington era "la cittadella inespugnabile del colonialismo 'di principio'", (6) se l'Unione Sovietica, storicamente rivolta ad Oriente, al più poteva replicare una versione nazionalizzata del "vecchio capitalismo 'appropriatore' che dava alle masse lavoratrici il meno possibile", (7) spettava all'Europa prendere coscienza di sé e proporre un nuovo nomos, un nuovo ordine giuridico e politico globale.

E' facile pensare che Schmitt abbia applaudito Kojève con convinzione, riconoscendo in lui se non un allievo, quanto meno un suo appassionato lettore. (8) E forse è perfino lecito immaginare che, ascoltando la proposta di Kojève, Schmitt sia tornato con la mente a quanto lui stesso aveva sostenuto fin dal primo Dopoguerra: in un incontro tenuto nel 1951 all'Università di Madrid, ad esempio, Schmitt non aveva esitato a caldeggiare la formazione di una "terza forza" alternativa al duopolio sovietico e americano. (9) Questo nuovo attore internazionale, negli auspici di Schmitt, non solo infrangeva il bipolarismo imposto dalla Guerra Fredda, ma strutturandosi come Grossraum configurava un ordinamento alternativo tanto allo Stato nazionale 'classico', quanto alle diverse possibili declinazioni dello Stato mondiale.

Si trattava, dunque, di un soggetto politico assolutamente inedito. Ed era un soggetto che, attraverso un dialogo costante con gli altri 'grandi spazi', era chiamato a forgiare un nuovo jus gentium. Secondo Schmitt, infatti, era possibile immaginare un Grossraumrecht che, fondato su un equilibrio tra diversi grandi spazi, si configuri come "nuovo diritto delle genti, ad un nuovo livello, e con dimensioni nuove, però, nello stesso tempo, dotato di certe analogie con il diritto delle genti europee dei secoli XVIII e XIX", basato proprio sul balance of power. (10) Quali, oltre al Grossraum europeo, erano questi potenziali altri 'grandi spazi'? La Cina, l'India, il mondo ispanico, il blocco arabo e, significativamente, il Commonwealth, erano alcuni dei possibili soggetti del Grossraumordnung schmittiano. (11)

E' appena il caso di osservare che le considerazioni di Schmitt indiscutibilmente lasciano aperte numerose problematiche. E si può sostenere che nel corpus schmittiano, le pagine dedicate alla determinazioni dei lineamenti del Grossraum talvolta siano velate da una certa opacità. (12) Allo stesso tempo, però, accogliendo i suggerimenti di Alessandro Campi, non si può fare a meno di notare che la soluzione prefigurata da Schmitt sembra anticipare quanto ipotizza Samuel Huntington nel celebre Clash of Civilization, laddove l'ordine mondiale riposa sull'equilibrio esistente tra differenti aree di civilizzazione. (13) Solo che mentre per il politologo statunitense questo ordine ha, con un alto grado di probabilità, una deriva 'pan-conflittualista' - il clash appunto -, Schmitt, memore della grande lezione del Concerto Europeo, è consapevole delle potenzialità cooperative di un tale assetto anarchico. (14)

Ritornando all'analisi di Kojève, dunque, non mi pare eccessivo interpretare le sue parole come un sommesso omaggio a Schmitt. E mi preme sottolineare come la lettura kojèveana declini in maniera particolarmente suggestiva il concetto di Grossraum. Non è qui il caso di passare in rassegna la corposa riflessione che Schmitt ha dedicato al concetto di 'grande spazio'. Ma nel far mia la lucida interpretazione di Kojève, mi preme quanto meno sottolineare l'originalità del concetto di Grossraumordnung e, sopratutto, la sua incompatibilità con i tradizionali archetipi giuridici e politici dell'imperialismo coloniale. In effetti il Grossraum, tanto sul piano dell'ingegneria normativa quanto su quello simbolico, è davvero qualcosa di 'altro': non si tratta solo di un inedito archetipo istituzionale. La nozione di 'grande spazio', ha suggerito ancora Campi, "rimanda più compiutamente ad un intreccio molto complesso di fattori storici, politici, culturali, simbolici, economici, addirittura mitologici che ne delimitano la localizzazione spazio-temporale ed il concreto significato storico-spirituale". (15)

Il concetto di 'grande spazio', dunque, è dotato di una notevole complessità e si presta a diversi livelli di lettura. Questo non significa che Schmitt elabori un modello astratto, proiettato nella dimensione del 'dover essere'. Al contrario la sua analisi rimane saldamente ancorata alla storia dell'ordinamento internazionale: la nozione di Grossraum trova infatti un referente concreto - un vero e proprio prototipo - nel regime instaurato dalla Monroe doctrine. (16) Interpretata nel suo significato originario e depurata da ogni tensione imperialistica, nella lectio schmittiana questa dottrina si configura come il prodromo di un nuovo ordine giuridico e politico costituendo, al tempo stesso, un effettivo principio di ripartizione territoriale e il frutto di una precisa coscienza spaziale.

Il messaggio del Presidente James Monroe del 2 dicembre 1823 trasudava indignazione nei confronti del Vecchio Continente, cui si imputava di essere il ricettacolo di ogni forma di oppressione. Negli auspici di Monroe l'America, ribellandosi alle ingerenze europee, una volta per tutte doveva prendere coscienza della propria specificità e divenire, da territorio coloniale, terra di libertà. Sul piano giuridico questa concezione spaziale si doveva tradurre nella neutralizzazione del Western Hemisphere, che veniva così ad affrancarsi da ogni ingerenza esterna. Infine, agli Stati Uniti - si diceva a chiare lettere nel messaggio presidenziale - spettava il compito di vigilare sul continente americano, tutelando questa land of freedom contro le mire egemoniche delle potenze europee. Non è il caso di insistere oltre sulle parole del Presidente Monroe, salvo segnalare come Schmitt abbia colto proprio nel Grossraum consacrato dalla Dichiarazione due elementi: una matura coscienza spaziale ed un rigoroso principio di ripartizione territoriale. Il primo fattore opera sul piano simbolico ed ideologico. L'altro, invece, appartiene alla dimensione giuridica e si misura nel concreto radicarsi dell'ordinamento all'interno di un territorio spazialmente determinato. Perché un Grossraum possa sussistere, è necessario che i due elementi siano contemporaneamente presenti.

Nel tratteggiare la Grossraumtheorie schmittiana mi preme evidenziare l'insistente riferimento alla justissima tellus ed al momento della sua ripartizione in spazi giuridici. In questo carattere di forte radicamento 'tellurico' si misura tutta la distanza che intercorre tra la nozione di 'grande spazio' e l'universalismo, indistinto e de-localizzato, connaturato ai progetti imperiali e coloniali. A ben vedere, però, il paradigma 'tellurico' allude ad una prospettiva più vasta: ampliando lo sguardo sull'intero corpus schmittiano, non si può fare a meno di cogliere nella nozione di 'grande spazio' l'ultima tappa di una evoluzione che accompagna la storia umana. E' una dinamica contraddistinta dalla dialettica tra due concezioni dello spazio e del diritto radicalmente opposte. Il pensiero schmittiano ancora una volta non si sottrae alla dicotomia primaria Freund-Feind. (17) Solo che in questo caso, ha suggerito Pier Paolo Portinaro, "i raggruppamenti amico-nemico sono ricostruiti a partire dalle dinamiche di appropriazione e ripartizione delle aree geografiche del globo terrestre." (18) Si tratta di una contrapposizione che Schmitt, con rara forza evocativa, configura come la lotta 'primigenia' tra la terra e il mare, tra i mostri biblici Leviathan e Behemoth.

Nel ricostruire questa brutale lotta 'elementare' la narrazione schmittiana non è forse sempre limpida: Schmitt talvolta concede troppo al gusto per gli arcana imperii, al piacere per le allusioni ad un sapere esoterico, cabalistico. E non è certo il caso di ripercorrere le diverse valenze di un confronto che Schmitt spinge ai limiti dell'escatologia. Qui tenterò solo di ricostruire come, alla luce dell'interpretazione che ne ha dato Schmitt, il confronto tra la terra e il mare ha contraddistinto la Modernità: fin dai suoi esordi questa contrapposizione ha prima segnato l'occupazione degli spazi oceanici, presupposto necessario ad ogni ulteriore conquista. Ha poi scandito la nascita degli imperi coloniali, da subito in competizione reciproca. Infine ha portato alla definizione dei modelli egemonici che caratterizzano l'Età della globalizzazione.

Nelle pagine da Schmitt dedicate alla lotta tra Leviathan e Behemoth, però, quello che immediatamente colpisce non è il rigore del giusinternazionalista, né lo spessore analitico dello storico del diritto e neppure la lucida concettualizzazione del filosofo del diritto. Ciò che subito si avverte leggendo queste pagine è la potenza epica del narratore di saghe. Ritengo, dunque, che in primo luogo conto sia opportuno dare di questa straordinaria vis narrativa.

Carl Schmitt e Moby Dick

"Melville è per gli oceani del mondo quello che Omero è per il Mediterraneo orientale". (19) Le pagine di Land und Meer - non a caso reputato il libro più bello, se non il più importante, dell'intera produzione schmittiana - sono senza dubbio ricche di autentico epos. (20) Dal canto suo Carl Schmitt, con la consueta schiettezza, non ha esitato a rendere esplicita la matrice letteraria delle pagine che ha dedicato al rapporto tra la terra ed il mare.

Non c'è solo Moby Dick. Accanto a Melville, altre sono le fonti di ispirazione: (21) il Das Nordlicht, "poema gnostico e presocratico al tempo stesso" del triestino Theodor Däubler, oggetto di una precoce passione giovanile, è stata senza dubbio una fonte potente di suggestione per Schmitt. (22) E che dire di Jules Michelet? Il suo La mer, scrive Schmitt, è un grandioso inno alla bellezza del mare, alle sue abissali profondità che "il 'crudele re del mondo', l'uomo, non ha ancora sfruttato". (23)

I flutti non appartengono solo ai cacciatori di balene ed alle loro gigantesche prede, e tanto meno ai mercanti che pacificamente ne solcano le acque. Non tutti "i figli del mare" sono amanti della pace: gli spazi marini sono il terreno di caccia degli "schiumatori del mare", rimangono in balia dell'animus furtandi di pirati e filibustieri. E' così che tra i riferimenti letterari di Schmitt, si deve annoverare il brillante The Pirates Who's Who di Philip Gosse. E forse si potrebbero fare anche i nomi di Robert Louis Stevenson e Daniel Defoe. Si tratta di letture che si saldano ad un epos ben radicato nella Kultur germanica: si pensi all'epopea dei Vitalenbrüder baltici, o alle vicende della Lega Anseatica che hanno affascinato generazioni di tedeschi. Non è un caso che negli anni feroci della Rivoluzione conservatrice, all'indomani della Prima Guerra mondiale - lo ricorda Ernst Von Salomon nel terribile Die Geächteten -, (24) i Frei Korps innalzassero fieramente le insegne dei pirati baltici.

Al di là di questa componente letteraria, le riflessioni schmittiane sulla dialettica tra terra e mare sono tutt'altro che il frutto di un otium filosofico, meditazioni avulse da qualsiasi riferimento concreto. Ha senza dubbio ragione Franco Volpi a cogliere in Land und Meer il prodotto di una crisi, cagionata dal forzato allontanamento dai centri di potere del Reich di colui che ne era stato l'orgoglioso Kronjurist. (25) Ma se si allunga lo sguardo alla produzione internazionalistica di Schmitt relativa agli anni immediatamente precedenti l'ultima Guerra mondiale e se, al contempo, ci si sforza di cogliere la dimensione più squisitamente filosofico-giuridica di Land und Meer, l'immagine dello Schmitt/Machiavelli - dell'erudito in forzato esilio nella Plettemberg/San Casciano -, appare per lo meno appannata. L'eredità machiavelliana si manifesta in ben altro che in un otium, del resto solo apparente: nella produzione schmittiana si intravede una costante volontà di dialogare con il potere, di influenzarne le scelte con il peso della propria auctoritas, secondo uno 'stile' che è proprio del realismo politico da Machiavelli - appunto - a Kenneth Waltz.

E' dunque opportuno sgombrare il campo da ogni possibile fraintendimento: al di là della componente letteraria che contrassegna la narrazione del confronto tra Lande Meer, questa ricostruzione va ad inserirsi a pieno titolo nella produzione giusfilosofica schmittiana. Anzi, all'interno di un tale framework - ed alla luce del capolavoro assoluto di Schmitt, il più tardo Der Nomos der Erde -, la dicotomia terra/mare assume un'incontestabile centralità.

Ripercorrendo la biografia intellettuale di Schmitt, le prove della sua irriducibile 'volontà di azione' non mancano. Tutta la sua produzione internazionalistica è segnata da un'innegabile concretezza. Anche nei momenti più 'narrativi' la dimensione giuridica, operativa, è assolutamente prevalente.

Nel 1936, all'indomani del duro attacco alla sua persona apparso sulle pagine di Das Schwarze Korps,l'organo ufficiale delle SS, Schmitt era stato costretto a dimettersi da tutti gli incarichi pubblici mantenendo solo la cattedra universitaria. (26) Eppure già nel 1937 dava alle stampe Der Begriff der Piraterie, che era sì un agile saggio dedicato alla figura dell'hostis humani generis, ma al contempo era un duro attacco alla criminalizzazione della lotta sottomarina sancita dalla Conferenza di Nyon il 14 settembre 1937. (27) Ancora. I saggi pubblicati a cavallo dell'apertura delle ostilità, da Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (1937) a Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes (1938), (28) fino a Land und Meer, hanno introdotto la questione del confronto tra terra e mare. Ma, anche in questo caso sono testi ricchi di riferimenti alla situazione politica, segnata dall'antagonismo anglo-tedesco: è appena il caso di ricordare come già alla fine degli anni Trenta, Schmitt avesse moderato il suo anti-comunismo, plaudendo al Patto Ribbentrop-Molotov ed al contempo riconoscendo nella Gran Bretagna l'avversario irriducibile. (29)

La coerenza del progetto teorico schmittiano ha trovato importanti attestazioni: come ha suggerito tra gli altri Natalino Irti, le pagine che Schmitt ha dedicato al rapporto tra diritto e spazio devono essere ricondotte alla polemica anti-kelseniana, che è una costante della sua produzione intellettuale. Alla luce del normativismo kelsensiano, il fattore spaziale perde ogni valenza, diventa mera categoria di ripartizione quantitativa: per Kelsen lo spazio, oltre a segnare l'ambito di vigenza del diritto, non ha alcun significato. E' un elemento accessorio, che non esercita alcuna influenza sulla validità della norma, fondata unicamente sul postulato logico della Grundnorm. Il diritto può perfino fare a meno dello spazio, sublimando il proprio sradicamento, la propria de-localizzazione, sino ad assumere una valenza universalistica. (30)

A questo modello teorico Schmitt contrappone, come è noto, un ordine giuridico che ha il proprio fondamento nella storia. Si tratta di un nomos che è il prodotto della divisio primaeva del territorio occupato, capace di essere al tempo stesso Ordnung e Ortung, principio di organizzazione della comunità e modalità di radicamento spaziale. Il nomos, dunque, non si riduce ad insieme di regole e convenzioni internazionali, ma è il "principio fondamentale della distribuzione dello spazio terrestre". (31) Per dirla ancora con Irti, in Schmitt la correlazione tra diritto e spazio non si risolve "nella banale ricerca di un 'dove' applicativo, ma s'innalza a sintesi di vita, in cui la presa di possesso è, insieme, decisione della volontà, principio d'ordine giuridico e costituirsi del popolo". (32) La filosofia del diritto di Schmitt può essere ridotta a questa visione 'tellurica' che si presenta come la componente peculiare della sua teoria, e che diviene il discrimine fondamentale, nel momento in cui Schmitt si misura con l'universalismo, il normativismo e l'economicismo.

La validità di questa lettura unitaria della teoria schmittiana trova un'ulteriore attestazione in Portinaro, che nega qualsiasi cesura tra lo Schmitt teorico dello stato e lo Schmitt filosofo del diritto internazionale, - dal decisionismo alla teoria dell'ordinamento concreto - insistendo piuttosto sulle costanti contaminazioni tra i due piani. Ma soprattutto si deve a Portinaro l'aver mostrato come la dottrina del nomos poggi su una filosofia della storia che permea tutta la produzione schmittiana, e che deriva da differenti sollecitazioni: da Hegel a Spengler, a Toynbee. (33) Ed è una filosofia che ha al centro proprio Land und Meer: "la tesi di fondo" ha puntualizzato incisivamente Portinaro "è che nella contrapposizione di terra e mare si deve ravvisare il grande principio di sviluppo della civiltà e il fondamento delle ostilità politiche che hanno deciso delle sorti di essa." (34)

Non è mia intenzione adottare un approccio filologico nei confronti della produzione internazionalistica di Schmitt, né tanto meno proporre nuove interpretazioni del suo storicismo. (35) A partire dalle premesse poste da Portinaro, quello che mi interessa, più modestamente, è esaminare la dialettica tra Land e Meer nelle sue diverse determinazioni storiche. E' mia intenzione, cioè, riflettere su come l'ordinamento giuridico internazionale ha tentato di risolvere la tensione esistente tra spazi tanto differenti, ora negando qualsiasi valore giuridico al mare, ora subordinandolo alla terra, ora, infine, sancendo delicate forme di equilibrio.

Horror vacui

[La regina Elisabetta] non comprende per quale motivo Ella e gli altri Principi debbano essere banditi dalle Indie dal momento che non reputa che lo Spagnolo possa vantare alcun valido titolo dalla donazione del vescovo di Roma, cui Ella non riconosce alcuna prerogativa e tanto meno l'autorità di vincolare gli altri Principi, che non gli debbono alcuna obbedienza, in relazione a questioni come quella dell'arrivo dello Spagnolo nel Nuovo Mondo e della successiva donazione. E dunque gli Spagnoli senza alcun titolo sono andati qua e là, hanno costruito villaggetti e dato nomi a fiumi e promontori; fatti che in sé non garantiscono alcun diritto di proprietà. Così tale donazione, che non ha alcun valore giuridico, non può certo attribuire un'immaginaria proprietà e tanto meno può escludere gli altri Principi dal commerciare in tali paesi e dal fondare colonie, senza alcuna violazione del diritto delle genti, laddove non siano giunti gli Spagnoli, dal momento che il semplice comando, senza il possesso effettivo, vale poco. (36)

Secondo quanto riporta William Camden nella sua The Historie of the Most Renowned and Victorious Princesse Elizabeth, late Queene of England (1610), questa fu la sarcastica replica di Elisabetta I alle rivendicazioni spagnole sul Nuovo Mondo, accampate dall'influente legato di Madrid alla Corte di San Giacomo, Bernardino de Mendoza.

Difficile immaginare un incontro tra personalità così differenti: da una parte il legato di quel Filippo II d'Asburgo che, erede del grandioso disegno universalistico promosso da Carlo V, fu l'ultimo alfiere dell'ideale di respublica christiana. Dall'altra la figlia di Enrico VIII che dal padre aveva ricevuto, oltre al titolo regio, quello di capo della Chiesa dell'Inghilterra, ed aveva poi difeso entrambe le prerogative con strenua convinzione. Ma la vivace narrazione di Camden si riferisce soprattutto ad uno drammatico contrasto - per dirla con Schmitt - tra Ortungen contrastanti, tra due concezioni dello spazio giuridico e politico radicalmente opposte.

Per comprendere i termini di un confronto che ha caratterizzato in profondità la prima età moderna è opportuno, in primo luogo, riflettere sulle conseguenze che l'apertura agli spazi oceanici ha avuto per le potenze marittime europee. In questa prospettiva il confronto con Schmitt si rivela davvero imprescindibile.

L'Oceano, per il navigatore dell'età classica e medioevale, era qualcosa di assolutamente inesplorato: era un'estensione vuota, minacciosa, un non-spazio in cui il mito prendeva corpo. Odisseo nelle sue peregrinazioni si guardò bene dal superare le Colonne d'Ercole, e quando ciò avvenne, quando cioè l'Ulisse dantesco oltrepassò "quella foce stretta dov'Ercule segnò li suoi riguardi", non solo perse la vita ma la sua anima fu dannata per l'eternità. Ancora all'epoca gloriosa dei re-navigatori, l'età dell'oro della marineria lusitana, la navigazione atlantica rimaneva strettamente legata al cabotaggio costiero. (37) Le Bolle pontificie Romanus Pontifex (1455) ed Inter Caetera (1456) con le quali si sanzionavano i diritti del Regno di Portogallo "a capitibus de Bojador et de Nam usque per totam Guineam et ultra versus illam meridionalem plagam usque ad Indos", significativamente facevano riferimento all'orografia costiera. (38) E se le prue dei drakkar vichinghi, come oggi suggeriscono gli archeologi, solcarono le gelide acque dell'oceano Atlantico, lo fecero rasentando l'Islanda e la Groenlandia. Si trattò dunque di una rotta da pescatori, o da cacciatori di pellicce, più che da esploratori, e forse anche per questo le loro effimere imprese rimasero sconosciute al di fuori dei kraal scandinavi.

La diffidenza verso l'Oceano, d'altra parte, ha radici antiche. Gli imperi marittimi d'Occidente si svilupparono entro mari chiusi: la loro 'occupazione di mare' era circoscritta, non si estendeva al di là del bacino mediterraneo o, al più, di quello baltico e del Mare del Nord. (39) Come non manca di annotare Schmitt "tutti gli ordinamenti preglobali erano essenzialmente terranei, anche se comprendevano domini marittimi e talassocrazie". (40) Si potrà dunque parlare di civiltà continentali, potamiche, talassiche, ma certo non di civiltà oceaniche, riconoscendo implicitamente il carattere rivoluzionario dell'ordo generatosi con la scoperta del Nuovo Mondo.

Prevaleva dunque una mentalità 'terranea', ancorata al dogma assoluto ed indiscutibile dell'occupazione di terra (Landnahme), alla ripartizione degli spazi fisici, alla determinazione sacrale dei confini. Come Schmitt non si stanca di ribadire, il diritto ha salde radici telluriche: "i grandi atti primordiali del diritto" fa rilevare nel Nomos der Erde "restano localizzazioni legate alla terra". (41) L'occupazione della terra, in tal senso, ha istituito diritto secondo una duplice 'direzione': internamente al gruppo occupante, tramite il solco del vomere, si è ripartito il suolo in proprietà. Verso l'esterno l'occupazione è invece divenuta la misura della sovranità della comunità. Il termine stesso di nomos, pur nella sua pluralità di significati, prova la solidità del binomio tra Ordnung e Ortung. (42) Questo sostantivo deriva, come precisa Schmitt, dal verbo greco nemein che è polisemantico: può indicare la conquista, il titolo originario ma anche la brutale presa di possesso dello spazio territoriale. Può poi essere utilizzato in relazione alla fase della ripartizione di tale spazio, il momento dell'aggregazione della comunità, della nascita dell'ordinamento giuridico, e, più in generale delle istituzioni politiche, sociali e religiose. Infine, nemein è associato alle modalità di sfruttamento economico di tale spazio, in particolare con la pastorizia. Ma altri ancora sono i vocaboli che esprimono la natura tellurica del diritto: si pensi solo a limes, un termine che nel suo significato originario indicava la pietra di confine tra i fondi rustici, ma che nell'Europa pre-moderna è divenuto il discrimine della soggettività politica e giuridica del corpo sociale.

E' appena il caso di notare come negli ordinamenti più antichi il rapporto tra diritto e terra assuma perfino sfumature religiose. Si tratta di un carattere particolarmente evidente nel diritto romano arcaico, laddove la rimozione delle pietre che segnavano il confine tra i fondi limitrofi veniva considerata scelus inexpiabile, da punire, secondo una legge che si vuole ascrivere a Numa, con la consecratio capitis et bonorum del reo. Stigma devastante, la sacertà non solo implicava l'immediato allontanamento del colpevole dalla comunità ma anche il suo abbandono alla vendetta della divinità offesa, in questo caso il dio Termine. Il che, in una società elementare quale quella della Roma monarchica, comportava che il reo fosse privato di qualsiasi tutela: chiunque avrebbe potuto ucciderlo senza timore di alcuna sanzione. (43)

Nelle società elementari la relazione tra terra e diritto necessitava di simboli forti, in grado di qualificare la comunità, di determinarne lo spazio politico. (44) Nessuna sorpresa dunque che tra le prime forme di architettura si fosse imposta la costruzione di fortificazioni. Le mura, siano esse di terra pressata come tra le tribù che vivevano disperse nelle lande della Gallia cesariana, siano strutture lignee come quelle che difendevano i primi castra romani od elaborate costruzioni in pietra e mattoni come nel caso della cinta muraria della Roma imperiale, sono state un segno identitario imprescindibile. (45) Prima ancora che militare, la loro funzione è stata quella di delimitare la comunità, determinando allo stesso tempo lo status degli individui. Si tratta di una caratteristica, questa, che ha segnato in profondità la società occidentale. Il diritto, nel suo nucleo arcaico, è strettamente legato all'immagine di uno spazio circoscritto, conchiuso. Prima di essere sistema di regole, è determinazione spaziale. L'aratro di Romolo, bagnato nel sangue del fratello, segna la nascita di un nuovo ordo giuridico e politico. E dunque tutta l'architettura castrense, con le sue torri, le opere murarie, le porte attraverso cui la comunità entra in contatto con l'esterno, può essere interpretata come una grandiosa celebrazione del trionfo del diritto sullo spazio fisico.

Il nomos - la presa di possesso - non è dunque indeterminato, ma nel delimitare lo spazio, segna il suo ambito di vigenza. In quanto ordo ordinans si configura osserva Schmitt "in un atto originario, costitutivo e ordinativo in senso spaziale", che solo il lessico 'geo-giuridico' è in grado di svelare nella sua reale portata. (46) Si pensi, ad esempio, all'etimologia del sostantivo 'confine', che è in tal senso rivelatrice dell'intima natura del nomos: cum finis, "con un limite". (47) Ritorna ancora l'immagine del solco del vomere impresso nella terra, del diritto che si appropria dello spazio fisico, ripartendolo, suddividendolo in unità. "E' il confine" ha suggerito Umberto Vincenti, "che crea la res suscettibile di possesso ad excludendum omnes alios e, dunque, di divenire oggetto di dominio, di diritto che autorizza e giustifica la cacciata violenta dell'invasore". (48)

La ripartizione spaziale ha conseguenze estremamente rilevanti per l'individuo: attraversare il confine non significa solo entrare in contatto con norme e usi diversi, significa modificare il proprio status. E' appena il caso di ricordare - e siamo già nel pieno dell' Età di Mezzo - come l'espansione delle città fosse avvenuta all'insegna del brocardo di origine germanica "l'aria della città rende liberi". Un miraggio che aveva favorito il massiccio inurbamento delle genti del contado in fuga dal sistema feudale in crisi.

Ma la relazione tra determinazione degli spazi e creazione dell'identità trova una chiara esemplificazione nelle vicende della Roma imperiale: esaurita la spinta verso l'esterno, gli Imperatori non esitarono a ricorrere al ciclopico sistema dei valli per difendere il limes imperii Romani. A ben vedere, però, il vallum africanum, come il vallo germanico e quelli più celebri voluti da Adriano ed Antonino per difendere la Britannia romana dalle incursioni degli Scoti e dei Pitti, non hanno avuto solo uno scopo militare. Piuttosto è fondamentale esaminare in chiave schmittiana i riflessi sul piano giuridico e politico di questo irrigidimento del limes, del suo rafforzamento come strumento di delimitazione spaziale. Non è un caso infatti che il sistema dei valla abbia coinciso cronologicamente con il processo di allargamento della cittadinanza romana, destinato a culminare con la concessione della civitas a tutti gli abitanti - liberi - dell'Impero sancita dall'Editto di Caracalla (212 d.C.).

Ed il mare? Non deve meravigliare che per civiltà così saldamente ancorate alla dimensione terrestre, ad una concezione sacrale del confine, le distese marine siano state difficilmente sussumibili all'interno di categorie in senso proprio giuridiche. Refrattario a ogni partizione, irriducibile a qualsiasi diritto di proprietà, il mare è libero. I guai di Odisseo incominciano una volta approdato, durante la navigazione non c'è nessun altro inconveniente oltre a quello, peraltro notevole, dell'ira di Poseidone. Gli Argonauti in viaggio verso la Colchide devono schivare l'abbraccio mortale delle Simplegadi, ma nessuno si sogna di interdire loro il passaggio attraverso l'Ellesponto. I profughi in fuga disperata da Ilio vanno incontro a molti pericoli durante le loro peregrinazioni attraverso il Mediterraneo. Eppure vengono coinvolti nei giochi politici del Lazio arcaico - acquisiscono per così dire soggettività politica - solo dopo essere sbarcati, stremati, alla foce del Tevere.

Il mare, suggerisce Schmitt, per tutta l'età premoderna è stato davvero qualcosa di 'altro': i suoi flutti sono sfuggiti a qualsiasi forma di imperium. (49) Anche l'universalismo che ha caratterizzato la dottrina politica medioevale si arrestava di fronte agli spazi marini. Il mare non tollerava dominium. Come già aveva annotato Ulpiano "mari quod natura omnibus patet, servitus imponi privata lege non potest". (50) Ed in quanto res communis omnium, ha sottolineato Wilhelm Grewe, il mare è giuridicamente incommensurabile, è alieno da qualsiasi titolo legale. (51) Sfugge perfino alla giurisdizione del dominus mundi: il Papa e l'imperatore, soggetti politici con interessi strategici saldamente 'continentali', non intervennero a disciplinare il diritto marittimo, lasciando che evolvesse secondo linee consuetudinarie. (52)

E' una 'riserva di legislazione', questa, che ha radici antiche, se già nel Digesto, a proposito della Lex Rhodia de iactu, Meciano fa dire ad Antonino Pio: "Έγώ μὲντοΰ κόςμου κΰριος, ό δὲνόμος τής θαλάσσης". (53) Il dominium dell'imperatore si arresta ineluttabilmente di fronte alle distese marine. E, si badi bene, non si parla delle ignote vastità oceaniche, popolate di creature mostruose, ma di quello che - per dirla con Fernand Braudel - altro non è che "un mare tra montagne". (54) Appare a questo punto lecito chiedersi se la tanto abusata espressione Mare Nostrum, con cui si celebrava il dominio romano sul bacino mediterraneo, non debba essere ridimensionata una volta per tutte: Roma non dominava le acque del Mediterraneo, ma solo le sue coste. (55)

Il mare apparteneva dunque ad un altro ordo, rappresentando uno spazio anarchico in cui perfino le categorie del diritto e della morale sembravano essere sovvertite. Ancora un tardo umanista come Andrea Alciato potrà permettersi di scrivere "pirata minus delinquit, quia in mari delinquit". (56) Il mercante che solcava i mari, d'altra parte, poteva facilmente spogliarsi dei panni di pacifico commerciante per vestire quelli del pirata, come testimoniano le vicende di Landolfo Rufolo narrate da Boccaccio: di fronte al crack finanziario il mercante di Ravello "comperò un legnetto sottile da corseggiare (...) e diessi a far sua della roba d'ogni uomo." (57) Nell'epoca d'oro della guerra di corsa questa fu quasi la regola: John Hawkins, il grande maestro di Francis Drake, alternò con successo attività mercantile e guerra di corsa. Le vicende di Henry Mainwaring, un altro campione della marineria inglese, hanno in tal senso un carattere quasi romanzesco: uomo - come si dice oggi - di straordinaria flessibilità, Mainwaring fu prima avvocato, poi mercante, quindi cacciatore di pirati e pirata lui stesso, fino a divenire influente membro del Parlamento sotto gli Stuart.

Approfondendo le premesse schmittiane è forse possibile radicalizzare il confronto tra terra e mare: nel Medio Evo le distese marine tendevano infatti ad assumere valenze ulteriori, sconfinando nell'escatologia. Il mare per l'uomo medievale era uno spazio senza confini, indistinto, e come tale suscitava diffidenza, irrequietezza. Il testo dell'Apocalisse - è lo stesso Schmitt a ricordarlo - è esplicito: nel tempo della nuova Gerusalemme mondata dal peccato il mare non esisterà più. (58)

Le distese marine rappresentavano per la Cristianità un territorio ricco di insidie, tanto per il corpo che per l'anima. E' un medievalista di rango come Marco Tangheroni a ricordare come a bordo fosse "proibito celebrare messa e conservare le sacre specie". (59) Ed il mercante, già di per sé una figura ambigua per molta della Scolastica, lo è ancora di più quando svolge i suoi traffici per mare, commerciando con i Greci eretici, o, abominio, con i Mori infedeli. (60) Ed è sempre Tangheroni ad aver sottolineato come, in un età di diffusa devozione e scrupolosa ortodossia, le genti di mare esprimessero una religiosità del tutto peculiare, gelosa delle proprie devozioni quanto permeabile alla superstizione: se ai primi del Duecento - in un'età di sincera e diffusa devozione - oltre la metà dei 'legni' genovesi e veneziani recava un nome laico quando non addirittura paganeggiante, ancora in tardi manuali nautici come la Raxion de' marineri, pubblicato a Venezia nel 1444, accanto all'indicazione delle feste dei santi, si potevano trovare pagine dedicate all'influenza delle stelle sulle "fortune de mar" o alla determinazione dei giorni nefasti per la navigazione. Mai arrischiarsi a prendere il largo, si può ad esempio leggere, il 1 di aprile "perché in tal dì Chain olxise so fradel Abel e quelo fu el primo sangue fu spanto al mondo". (61) Si tratta di una spia che denuncia come sui mari, non solo l'ordine temporale, ma anche l'autorità di Pietro tendesse a divenire evanescente.

Non è dunque un caso che i primi Crociati, gente dalle saldi radici terranee guidata da un'aristocrazia franco-germanica poco avvezza agli spazi marini, nella loro marcia verso la Terrasanta preferirono il difficile percorso balcanico ed anatolico piuttosto che l'imbarco nei porti della penisola italica. D'altra parte, nel valutare la diffidenza dell'Occidente cristiano verso il mare, non possiamo dimenticarci che il Mediterraneo è stato per secoli un lago arabo e barbaresco. Ed il diffuso ricorso alle fortificazioni costiere, oltre che una risposta a tale supremazia, è una potente metafora dell'atteggiamento dell'Occidente medievale di fronte alle distese marine. Ancora alla metà del Cinquecento verranno impegnate somme ingenti per rafforzare le difese costiere dei Vicereami di Napoli e di Sicilia: il solo Ferrante Gonzaga fece costruire tra il 1535 ed il 1543 ben centotrentasette torri di avvistamento per proteggere le coste siciliane dalle minacce turche e barbaresche (62)

Alla luce di queste considerazioni l'affermazione di Bartolo contenuta nel De Insula, secondo cui la iurisdictio del sovrano si estendeva entro le cento miglia marine, appare oggi nient'altro che un richiamo formalistico a principi desunti per analogiam dalla legislazione classica. (63) Mentre la concessione alla Repubblica di Genova, da parte di Raimondo di Tolosa, del monopolio commerciale su un'area che copriva grosso modo il bacino nordoccidentale del Mediterraneo - avvenuta nel lontano 1174 - per quanto significativa, ha rappresentato un episodio isolato, un'eccezione tutt'altro che fondante dovuta al peculiare contesto geopolitico in cui si trovava ad operare la Repubblica di San Giorgio. (64)

Solo a partire dalla metà del tredicesimo secolo, in corrispondenza con il decrescere della pressione araba e berbera e con il miglioramento delle tecniche di navigazione, si ebbero i primi tentativi di esercitare forme embrionali di sovranità marittima: nel 1209 Venezia, ad esempio, ottenne dall'Imperatore il controllo esclusivo sull'Adriatico settentrionale, a nord della linea Ravenna-Golfo del Quarnaro. (65) Come non mancarono di sottolineare oltre tre secoli dopo i giuristi impegnati a difendere le ragioni della Serenissima contro le mire spagnole, tale concessione attribuiva a Venezia il compito di "illud mare tutum et securum reddere, et purgare a piratis". Al tempo stesso riservava a Venezia il diritto di esigere "vectigalia, gabellas, et collectas" sul traffico mercantile, ma soprattutto la facoltà di interdire a proprio piacimento l'accesso all'Adriatico settentrionale. (66)

Al di fuori del Mediterraneo, poi, erano risalenti nel tempo i tentativi del Regno di Danimarca di 'vincolare' le rotte commerciali tra Baltico e Mare del Nord, mentre il Regno di Norvegia rivendicò a lungo il monopolio sulla pesca nelle remote acque dell'Islanda. I Plantageneti, dal canto loro, in virtù dei possedimenti in terra di Francia poterono fregiarsi del titolo di 'dominus utriusque ripae', tentando in effetti di esercitare un blando controllo sulla Manica, diretto per lo più alla repressione della pirateria endemica in quelle acque. (67) Ma, nuovamente, occorre cautela: in un'epoca in cui l'effettività dello jus gentium si misurava spesso sul filo della spada, si può dubitare che i Regni di Castiglia, di Francia e di Inghilterra, a lungo privi di una marina 'nazionale', possano avere esercitato un potere anche solo lontanamente assimilabile al moderno concetto di sovranità marittima. (68)

D'altro canto, il contributo della scienza giuridica medioevale alla determinazione dello statuto giuridico degli spazi marini è difficile da valutare. E' vero che la questione del dominium mari non fu ignota ai doctores iuris: si pensi solo al peso che hanno avuto le argomentazioni di Baldo e di Bartolo sulla successiva elaborazione di un Alberico Gentili o di un Paolo Sarpi. (69) Ma per lo più si trattava di elaborazioni teoriche che, ricche di riferimenti all'universalismo dominante la cultura giuridica e politica medioevale, peccavano di astrattezza. Oppure erano argomentazioni che, rivolte a legittimare il controllo esercitato da specifici soggetti politici su specifiche regioni costiere - in primis al fine di reprimere la pirateria -, tendevano a replicare schemi e modelli propri dell'ordinamento feudale. In definitiva le opiniones dei doctores iuris, al di là dell'auctoritas di chi le esprimeva, finivano con l'avere scarso rilievo sul piano concreto.

La nozione di 'sovranità marittima', intesa come proiezione sui mari del dominium statale, appartiene indiscutibilmente all'Evo Moderno. (70) I precoci tentativi di regolamentare gli spazi marittimi sono stati ben lontani dallo smentirne la natura anarchica, e certo non hanno preparato a quella vera e propria rivoluzione geopolitica e 'geo-giuridica' (Raumrevolution) rappresentata dalla scoperta del Nuovo Mondo.

L'occupazione del mare

Il ritorno di Colombo in Europa, il 15 marzo 1493, ebbe un effetto dirompente sul sistema internazionale. I primi a percepire con lucidità le implicazioni connesse al fortunato viaggio del navigatore genovese furono gli stessi finanziatori dell'impresa: i sovrani di Spagna. Iniziò così un'attività diplomatica a dir poco convulsa. Era infatti necessario contrastare quella sorta di monopolio sull'attività esplorativa che la corona lusitana si era riservata fin dagli anni 'eroici' di Enrico il Navigatore e della penetrazione lungo le coste dell'Africa avvenuta alla prima metà del Quattrocento. (71) L'asso nella manica dei Portoghesi, come si è visto, erano le Bolle pontificie con cui solo pochi decenni prima Niccolò V, seguito poi da Callisto III, aveva esteso la zona di influenza lusitana "usque ad Indos". Solo che al soglio pontificio sedeva ora un Papa assai più sensibile agli interessi della corona di Castiglia. L'intervento dello spagnolo Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, non poté che smentire l'indirizzo precedente. Meno di due mesi (3-4 maggio 1493) dopo l'arrivo di Colombo il Papa emanava una serie di bolle che, segnando il progredire dei negoziati ispanico-lusitani, attribuivano ai due regni iberici le Indie, stabilendo come linea di confine tra le rispettive zone di influenza il meridiano che passava a cento miglia dalle Azzorre. (72) Si trattava di una determinazione ambigua, che se da un lato aveva la funzione di disinnescare la tensione esistente tra i due Regni iberici, dall'altro apriva la strada alla successiva tranche di negoziati che avrebbe portato agli accordi di Tordesillas del luglio 1494 ed al successivo spostamento verso Occidente della sfera di influenza lusitana. (73)

La raya, la delimitazione spaziale che veniva a dividere le rispettive zone di espansione è stata un'innovazione assoluta sul piano del rapporto spazio/diritto: il territorio ha perso qualsiasi specificità fisica e si è realizzato quello che Schmitt ha definito 'pensiero per linee globali'. (74) E' il trionfo di Cartesio su Tolomeo, della trigonometria e dell'astronomia sulla geografia fisica. L'uomo domina gli spazi fisici misurandoli e definisce gli spazi politici non più tramite il riferimento all'orografia del territorio, ma in funzione ad astrazioni matematiche. La natura non è più il luogo del meraviglioso, ma è oggetto di conoscenza scientifica, deve essere misurata, classificata. "Non è esagerato affermare" scrive Schmitt in Land und Meer "che tutte le sfere della vita, tutte le forme di esistenza, tutte le specie di energia creativa dell'uomo - l'arte, la scienza, la tecnica - prendono parte alla formazione del nuovo concetto di spazio". (75) La rivoluzione scientifica e la rivoluzione spaziale vanno di pari passo.

D'altra parte, rileggendo le vicende del primo colonialismo ispanico, non va trascurato il fatto che la Conquista avvenne per impulso di una personalità complessa quale quella di Carlo V, imbevuta di afàn de cruzada, almeno quanto di razionalismo erasmiano. L'homo novus che dunque si afferma nell'età delle grandi scoperte domina gli elementi: non prova timore di fronte alle distese oceaniche, che perdono così la loro specificità di spazi vuoti, incommensurabili.

Eppure è opportuno essere cauti di fronte a questa precoce affermazione delle scienze positive. Nel momento in cui la scienza sembrava celebrare la propria emancipazione dal pensiero aristotelico-tomista - nel momento in cui il dubbio generava trionfalmente la scoperta -, essa finiva per essere arruolata a forza al servizio del principe. Nell'Europa della prima espansione coloniale astronomi, matematici e geografi non erano meno importanti di un buon ammiraglio. (76)

L'importanza della scienza è particolarmente evidente negli sviluppi successivi delle rayas: le 'linee di amicizia' care alle cancellerie di Parigi e di Londra. "Un méridien décide de la vérité" commentava con amarezza Pascal, di fronte alla spregiudicatezza con cui i sovrani dell'età pre-vestfaliana utilizzavano compassi e sestanti per fare o disfare accordi, ma anche per porre vincoli all'etica e al diritto internazionale. Nessuna sorpresa, dunque, se agli occhi di un Giacomo I o di un Luigi XIV la geografia fosse davvero troppo importante per poterla lasciare agli scienziati.

Le rayase le amity lines hanno dunque segnato la Seenahme, l'occupazione di mare: eppure fin da subito lo sviluppo del "pensiero per linee globali" ha rivelato profonde antinomie, Weltanschauungen in irriducibile contrasto. Si tratta di una contrapposizione che Schmitt ha colto con esemplare lucidità nel momento in cui sottolinea che: "un universo intero - si può ben dire - separa il tipo storico della raya da quello della amity line inglese". (77) Il primo modello di ripartizione spaziale, ancorato alla nozione medioevale di respublica christiana era caratterizzato da una logica 'distributiva': sul piano 'geo-giuridico' la raya non riconosceva alcuna specificità alle distese oceaniche, ma si limitava a definire le rispettive zone di espansione dei due Regni iberici. Al contrario le amity lines, prodotto della drammatica cesura operata dalla Riforma e legate ad una dimensione agonale delle relazioni internazionali, rendevano l'Oceano qualcosa di 'altro', tanto sul piano giuridico che su quello etico.

Alla luce delle premesse schmittiane, dunque, occorre esaminare come la tensione tra rayas e amity lines abbia segnato la prima modernità. Il primo archetipo di ordine 'geo-giuridico', come si è visto, si basa sui caratteri del tutto peculiari della Conquista. Non è qui possibile proporre una riflessione articolata sulla valenza giuridica delle Bolle alessandrine né, tanto meno, di soffermarsi sui titoli che la casa di Asburgo poteva addurre a giustificazione della propria espansione nelle Americhe. (78) Ma, per lo meno, è opportuno segnalare, sulla scorta delle osservazioni di Schmitt, quanto i negoziati tra il Regno di Portogallo ed il Regno di Castiglia si collocassero nel solco di una traditio e di un ordo condivisi: "Caratteristica della linea ispano-portoghese (raya) è che le parti avevano un fondamento comune nella fede cristiana, rispettavano l'autorità del Capo della Chiesa - il Papa di Roma -" e pertanto "si riconoscevano, reciprocamente, come eguali nel trattato di spartizione e distribuzione." (79) La semantica dell'accordo tra i due Regni iberici era dunque profondamente indebitata con l'universalismo della dottrina politica medioevale. Lisbona e Madrid si riconoscevano in un sistema etico-normativo unitario, e la mediazione pontificia altro non era che un appello ad un'auctoritas che ambedue gli attori identificavano come superiore. Dal canto suo la scienza giuridica, come sempre conservatrice, tardò ad aggiornare il proprio lessico alle nuove scoperte, preferendo riproporre le categorie classiche dell'inventio e dell'occupatio.

Unità e continuità: queste sono le chiavi attraverso cui interpretare l'espansionismo ispano-lusitano nelle Americhe. La Conquista può essere letta come un processo di omologazione, di reductio ad unitatem del diverso. Non è un caso che tanto nelle Università che nelle Corti, uno dei problemi più discussi - ed il dibattito in seno alla Scuola di Salamanca lo dimostra con irriducibile vigore - riguardasse la possibilità di adattare alle Americhe le categorie giuridiche e politiche del Vecchio Mondo. Le stesse comunità indigene non sfuggivano a questa 'logica adattiva'. Adottando questa chiave di lettura si comprende come, ad esempio, la pratica del requerimiento, cara a Cortés, non fosse una vuota e formalistica affermazione di un astratto principio giuridico, ma segnalasse una precisa strategia di assimilazione del diverso.

Ma ad avere una forte connotazione unitaria era la stessa organizzazione spaziale del potere. Madrid si rifiutava - o forse non era semplicemente in grado - di cogliere la specificità degli spazi che la Conquista gli aveva garantito. L'esame della legislazione coloniale spagnola rivela il tentativo di replicare ad una concezione spaziale con il passare degli anni sempre più obsoleta. Le riforme imposte da Madrid, infatti, non facevano altro che riproporre istituti e modelli normativi propri dell'esperienza europea. (80) Proprio l'ordinamento marittimo è in questa prospettiva esemplare: si pensi solo al tentativo, in atto per lo meno a partire dalla metà del Cinquecento, di coinvolgere le municipalità del Nuovo Mondo nella lotta alla corsa ed alla pirateria, secondo quanto avveniva comunemente sulle coste mediterranee. Sempre secondo gli ottimistici auspici di Madrid, le comunità indios avrebbero dovuto formare invece l'ossatura di un sistema di avvistamento costiero, palesemente ispirato al sistema di torri e fortificazioni che fin dal Medio Evo costellavano le rive settentrionali del Mediterraneo. Oppure si pensi, sempre per rimanere in ambito marittimo, alla diffusa tendenza a vincolare l'attività dei corsarios ad una normazione puntigliosa, riflesso di quella stessa tendenza 'amministrativistica' con cui Madrid aveva disciplinato il monopolio commerciale esercitato della Casa de contratación di Siviglia. (81)

Tra i corollari di un'ideologia che non escludeva la diversità, ma la sussumeva in un sistema gerarchicamente ordinato, è necessario soffermarsi sul fatto che - come fa notare Schmitt - con le rayas non si faceva distinzione tra occupazione di terra e occupazione di mare. (82) Queste linee di divisione, infatti, erano concepite come un confine 'fisico', come uno strumento di ripartizione 'quantitativa' degli spazi geopolitici e geo-giuridici. La Corona di Castiglia, nel salvaguardare i confini oceanici sanciti negli accordi di Tordesillas, guardava alle soluzioni adottate nel continente europeo per tutelare i confini terrestri.

Nel ricostruire l' esperienza giuridica della Spagna imperiale si può dunque attribuire un duplice senso al binomio 'continuità ed unitarietà': da una parte questo binomio ha segnato la politica legislativa spagnola nei due continenti. Dall'altro ha segnalato l'assoluta identità, nella visione geospaziale di Madrid, tra occupazione di mare e occupazione di terra. Alla luce del vivace incontro tra Elisabetta I e don Bernardino de Mendoza, prima richiamato, è paradigmatico il fatto che Madrid, adottando le medesime categorie giuridiche, intendesse al contempo escludere da las Indias le altre Potenze europee ed interdire la navigazione oceanica: l'inventio e l'occupatio si applicavano indistintamente alle selve dello Yucatàn ed alle acque del mar dei Carabi.

Sempre adottando le categorie schmittiane non si può fare a meno di rilevare come alla base della crisi dell'esperienza imperiale spagnola, si possa individuare un errato Raumordnungsbegriff. Il tentativo di replicare nelle immense distese oceaniche le linee di confine che delimitavano gli 'spazi di dominio' dei territori statali non poteva che essere destinato al fallimento. L'analisi di Schmitt può forse essere impietosa quando coglie tutti i limiti di una concezione degli spazi giuridici e politici incapace di comprendere la specificità dell'Oceano, ma certo è tutt'altro che infondata. Semmai appare legittimo domandarsi in che misura la crisi del disegno imperiale spagnolo non fosse dovuta ad una carenza teorica, dottrinaria. Ci si può cioè chiedere se la cultura giuridica e politica della Spagna del Cinquecento fosse davvero munita degli strumenti concettuali per comprendere che, con la scoperta del Nuovo Mondo, erano state poste le basi per la definizione di un nuovo 'nomos della terra'. (83) Un nomos che trovava nella distinzione tra "occupazione di terra" ed "occupazione di mare" il suo carattere distintivo. Come non ha mancato di rimarcare Schmitt, proprio la separazione tra terraferma e "mare libero" è stata la caratteristica fondamentale dello jus publicum Europaeum. (84) Ed il principio della libertà dei mari - è sempre Schmitt a ricordarcelo - ha segnato una frattura con l'ordine medievale, nel momento in cui ha comportato la determinazione di uno spazio 'anomico', sanzionato dalle amity lines, in cui si è affermato "il libero e spietato uso della violenza". (85)

Nel 1559 con la Pace di Cateau Cambresis si mirava a porre fine alla tensione tra l'Impero ed il Regno di Francia che aveva per lunghi decenni contrassegnato la politica europea. (86) L'accordo, com'è noto, da un lato riconosceva il predominio imperiale sulla penisola italiana, dall'altro stabilizzava una volta per tutte i confini settentrionali francesi. Con una buona dose di realismo, però, le delegazioni coinvolte nei negoziati non ritennero opportuno estendere alle Indie l'efficacia del trattato. Anzi, si accordarono oralmente per limitarla entro un ambito spaziale preciso: ad oriente del primo meridiano avrebbero avuto pieno vigore le disposizioni concordate a Cateau Cambresis. Ad occidente invece "might should make right, and violence done by either party to the other should not be regarded as in contravention of tre