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Manicomi giudiziari e demagogia

di Massimo Fini - 14/06/2007

 
C'è un progetto elaborato dal dottor Marco D'Alema, dal dottor Ditta e dalla dottoressa Mancuso, che verrà presentato la settimana prossima alle Regioni, di chiudere i manicomi giudiziari, ora più pudicamente chiamati Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Ottima idea, in sè. Perché se c'è un posto infame è il manicomio giudiziario che un isce in sé il peggio del carcere e il peggio del manicomio.
Il rischio però è il solito: di fare il passo più lun go della gamba. Come avvenne per la legge 180 che è, in buona parte, all'origine del sovraffollamento dei manicomi giudiziari.

Su iniziativa dello psichiatra triestino Franco Basaglia la legge 180 abolì "sic et simpliciter" i manicomi. Basaglia diceva che sul posto dove sorgevano i vecchi manicomi doveva "essere sparso il sale", cioè non ne doveva rimanere niente. Furono così smantellate o ridotte al minimo (alcun i malati infatti non poterono in alcun modo essere fatti uscire perché sarebbe equivalso a un omicidio) non solo le strutture fatiscenti, ma anche quelle di primissimo ordine come il Mombello e il Paolo Pini di Milano, dove già si permetteva ai malati di uscire e andare a lavorare, tenednoli sotto controllo, si faceva ergoterapia, musicoterapia, c'erano i campi da calcio, di pallacanestro e via dicendo. Non si apprestarono però strutture alternative dove i malati, usciti dal manicomio, potessero essere curati.

E non lo si fece appositamente. Nella sua astrattezza ideologica, tipica di una certa sinistra, Basaglia voleva che i malati di mente fossero curati "sul territorio", parola magica che però, di fatto, significava semplicemente che i malati venivano lasciati allo sbando o ricadevano, con tutto il peso dei loro problemi, sulle famiglie, che è il posto peggiore dove possono stare perché spesso in famiglia e a causa della famiglia si sono ammalati. A parte il fatto che le famiglie - spesso due anziani genitori - non sono in grado di contenere questo tipo di malati.

All'inizio, in base al principio che "il malato di mente è un malato come tutti gli altri", questi malati, quando erano, come si dice in gergo, "in acuzie", cioè davano fuori di matto, venivano ricoverati negli Ospedali generali, nei reparti comuni. Poi quando si vide che i matti strappavano il catetere o il respiratore ai loro sfortunati compagni di stanza, ci si decise a creare dei reparti speciali. I cosiddetti "repartini", con non più di 15 posti, dove non c'era nulla, non dico un campo di calcio, ma nemmeno un flipper perché "non bisogna istituzionalizzare la malattia". Venivano sedati con gli psicofarmaci e poi cacciati fuori costringendoli a un periodico e penoso elastico fra "il territorio" e questi "repartini". Gli psichiatri democratici, eredi di Basaglia, non vollero nemmeno, per lungo tempo, che fossero create delle strutture intermedie, le chiamavano con disprezzo "i minimanicomi". La sola struttura che venne alla fine approntata furono i Cps (Centri psicosociali) ora chiamati Dipartimenti di salute mentale (Dsm). Ma qui c'era un vizio d'origine dovuto sempre all'astrattezza, direi al furore ideologico, della legge 180. In nome del principio dell'autonomia e della dignità del malato di mente doveva essere costui ad avvicinare questi centri di assistenza e non viceversa. Ora, questo lo può fare un grande depresso, un nevrotico, un maniaco-depressivo, cioè gente che si rende conto di non star bene e cerca aiuto, non il pazzo vero, lo psicopatico, lo schizofrenico, il quale crede di essere Napoleone o Cristo e pensa che malati siano gli altri.

Succedeva così che il malato di mente, che non si riconosceva tale e non poteva riconoscersi tale, rimaneva per anni senza cure, senza assistenza, senza essere seguito da nessuno, finché esplodeva in qualche follia conclamata, che disturbava la quiete pubblica e allora, senza più alcun rispetto per la sua dignità, arrivavano l'ambulanza e la camicia di forza e lo si portava di peso nei "repartini". Dove restava quindici o, al massimo, trenta giorni. Fino alla prossima volta. Se la "follia" era un crimine (quante volte abbiamo sentito di malati di mente che hanno ammazzato i genitori o, d'improvviso, senza alcuna ragione apparente ucciso il primo che passa?) finivano - e finiscono - nei manicomi giudiziari la cui popolazione, dall'introduzione della legge 180, è aumentata del 40%.

Se si chiuderanno i manicomi giudiziari chi si occuperà di questi malati, pericolosi a sé e agli altri? I Dipartimenti di salute mentale? Ma le stesse associazioni dei familiari dei malati di mente fanno notare che questi Dipartimenti "attualmente non solo non sono attrezzati per far fronte a questa nuova situazione, ma spesso sono insufficienti anche per farsi carico della quotidianità".

I malati di mente, anche quelli che hanno commesso dei gravi reati, non sono responsabili dei loro crimini, tantomeno della loro malattia. Tirarli fuori dalla "cajenna" dei manicomi giudiziari è giusto. Ma bisogna fare esattamente l'opposto di ciò che si fece con la legge 180. Prima si apprestano le strutture per accoglierli e curarli. Che comunque non potranno non essere strutture concentrazionarie, anche se di più piccole dimensioni, più umane, meglio attrezzate (perché una cosa è curare 50 malati concentrati nello stesso luogo, altra è curarli sparsi sul "territorio", il che si è rivelato impossibile anche per i malati di mente, diciamo così, normali).

Ma so già come andrà a finire questa storia. Come vanno a finire tutte le storie in Italia. Sotto la spinta demagogica i manicomi giudiziari verranno chiusi, i malati liberati e l'opinione pubblica italiana si compiacerà con se stessa per il nostro senso di umanità, per la nostra legislazione così "avanzata". Poi, al primo bambino strangolato da uno di questi disgraziati, la stessa gente griderà all'infamia, all'ignominia, allo scandalo, all'irresponsabilità per aver lasciato in libera circolazione "il matto".