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Palestina in fiamme. "Scappavo da Israele, ora da Fatah"

di Gian Micalessin - 17/06/2007

 

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Hussein scuote la testa «Cosa cambia? Fuggivo prima, fuggo ora». Difficile dargli torto. La colonna di assatanati laggiù nel centro di Ramallah è dentro il Parlamento. Hanno volti coperti, elmetti calati sui passamontagna, kalashnikov in pugno. Pretendono vendetta, invocano giustizia. Per quelli di Hamas fa poca differenza. Devono solo fuggire, scappare, salvarsi dai fratelli «perduti» di Fatah. Da Damasco il grande capo Khaled Meshaal riconosce la legittimità del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ma qui nessuno ci fa caso. I duri di Fatah hanno già convinto il presidente a respingere ogni tentativo di riconciliazione. E lui l’ha fatto. Nelle strade e davanti al Parlamento tira brutta aria. Il vice presidente del Parlamento Hassan Kreishe è l’unico eletto nelle liste fondamentaliste a non averci pensato. Attende come un topo in gabbia. La folla rumoreggia, guadagna le scale, s’avvicina alla preda. Lo salvano al novantesimo minuto i commessi e qualche deputato di Fatah con nel cuore un residuo di solidarietà.
Hussein Abu Kweik, non è mai stato eletto, ma ha ottime ragioni per non farsi trovare. Le sciagure di una vita da dirigente di Hamas gliel’hanno insegnato. Cominciò tutto nel marzo 2002. «Mia moglie Bushra mi fece scendere dall’auto e ripartì. Un attimo dopo la strada esplose... la cannonata del carro armato israeliano era per me, ma si portò via mia moglie e le mie tre creature». Da quel giorno la vita di Abu Kweik oscilla tra fuga e prigionia, rabbia e disperazione. I tre anni e mezzo di carcere israeliano, la libertà, la latitanza di nuovo. E ora la fuga da tutti. Dal nemico e da Fatah. Trovarlo non è facile. La catena di telefonate e contatti ti spinge fuori da Ramallah, ti guida ad Al Bireh, ti conduce nei vicoli del campo profughi d’Amari, t’infila in un’auto, ti porta a un palazzo. Lui attende in piedi, tra un sottoscala e un divano, come chi è di passaggio. Come chi è stato sacrificato in nome della conquista di Gaza. Lui non la pensa così. Non pensa di esser stato abbandonato. «Non mi sento né vittima, né sacrificato, la mia vita non cambia e, credetemi, sfuggire agli israeliani è molto più dura che nascondersi da Fatah. A Gaza, Hamas non ha deciso né conquistato un bel niente. Ha reagito all’isolamento e all’assedio della comunità internazionale. Non si poteva andare avanti così. Da un anno e mezzo tentavamo di garantire l’ordine e la sicurezza promessi ai cittadini prima delle elezioni, ma le forze di sicurezza e i loro capi invece di obbedire a noi rispondevano alle istruzioni ricevute dall’esterno. L’unica colpa di Hamas è aver ripristinato l’ordine e la legittimità del governo. I veri responsabili del sangue versato a Gaza sono gli Stati Uniti e voi europei che vi fate manovrare da Washington e da Israele. Se siete democratici come dite non potete parlare con Abu Mazen e ignorare Hamas. Lui è stato eletto, ma noi siamo il partito con più voti e più seggi in Parlamento».Su un altro divano, di un altro sottoscala, di un altro campo profughi della Cisgiordania una mano accarezza un Uzi. «Questo è meglio del kalashnikov, non lo mollo mai. È molto più pratico soprattutto in macchina. Di solito lo uso solo per gli israeliani, ma oggi andrebbe bene anche per le squadre della morte di Hamas». Abu Almajd, 39 anni, comandante, in quel di Betlemme, di un nucleo delle Brigate Martiri Al Aqsa, il braccio armato di Fatah, fugge pure lui da una vita, ma oggi si sente più cacciatore e meno latitante di Abu Kweik. «Noi stiamo con la legge, difendiamo Abu Mazen e la sua presidenza. Quelli di Hamas tentano il colpo di Stato, erano nostri fratelli, ma ora sono al soldo del nemico, eseguono piani e ordini decisi a Teheran e Damasco. Sono dei traditori». In questa lotta confusa e bizzarra, ma anche crudele e fratricida Hamas sembra ora il più disponibile al dialogo. Soprattutto quando se la passa peggio. «Nessuno ha mai pensato al colpo di Stato – assicura Hussein -, Khaleed Meshaal riconosce la legittimità di Abu Mazen, Haniyeh chiede di continuare a lavorare d’intesa con la presidenza, quindi di cosa ci accusano... non vogliamo creare uno Stato separato, non vogliamo abbandonare la nazione palestinese, a Gaza abbiamo già liberato tutti i capi di Fatah. Abu Mazen dovrebbe fare lo stesso qui in Cisgiordania, dovrebbe far rimettere in libertà le dozzine di miei amici e compagni arrestati illegalmente negli scorsi giorni». Ma per gli armati di Fatah indietro non si torna. «Hamas ha fatto la propria scelta e ha perduto ogni legittimità – spiega Abu Almajd mentre la mano scivola sul giocattolo d’acciaio brunito -, non possono pretendere di uccidere a Gaza e trattare in Cisgiordania. Ora devono solo decidere. Possono arrendersi o subire le conseguenze».