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Conoscere è ricordare. Strutture e temi del "Menone" platonico

di Francesco Lamendola - 17/06/2007

 

 

N. B. Per il testo abbiamo utilizzato quello curato da S. Russo, Messina-Fiirenze, Casa Editrice G. D'Anna, 1967.

 

 

 

«MENONE»: PRIMA PARTE.

 

Il Menone è uno dei dialoghi platonici che iniziano nel modo più diretto, quasi brusco; il lettore viene gettato in medias res, senza alcun preambolo; in realtà, Platone presuppone già noti altri dialoghi e in particolare il Protagora, neil quale si era occupato appunto di tale problema.

Menone, personaggio storico di cui Senofonte - che lo conobbe all'epoca della spedizione dei Diecimila in Persia - dice tutto il male possibile, dà avvio al dialogo (cap. I) chiedendo a Socrate se la virtù sia insegnabile e, quindi, trasmissibile.

"Puoi dirmi, o Socrate, se la virtù si possa acquisire mediante insegnamento oppure con l'esercizio, oppure con l'insegnamento, oppure se nessuna delle due cose valga  a tal fine  e la virtù invece provenga agli uomini da natura o in qualche altra maniera?

Socrate osserva (cap. II) che non è possibile rispondere a un tale quesito, se prima non si dà una definizione di cosa sia la virtù: se si ignora una cosa, non si possono neanche fare ipotesi sulla sua trasmissibilità. Quindi invita il suo interlocutore a dire cosa sia la virtù, magari rifacendosi all'insegnamento di Gorgia, il famoso sofista da quegli chiamato in causa. Menone afferma allora (cap. III) che la virtù dell'uomo consiste nel governare la cosa pubblica, beneficando gli amici e danneggiando i nemici; quella della donna, nel buon governo della casa; ed altre virtù corrispondono ai giovani e agli anziani, ai liberi e agli schiavi.

Socrate, con la sua abituale ironia,  si dice fortunato di aver trovato più cose di quante ne cercasse: cioè molti tipi di virtù, quand'egli andava in cerca di una definizione universale di virtù, ossia del suo concetto. Gli è quindi facile (cap. IV) far ammettere a Menone che, così come vi è una cosa che si chiama "salute", o un'altra che si chiama "forza", per cui vi è un'unica maniera - al di là delle differenze individuali - di essere sani o forti, così v'è un'unica maniera di essere virtuosi, perché la virtù è identica in tutti coloro che la possiedono.

Menone, a questo punto (cap. V), dà una seconda risposta circa la virtù: dice che essa è la capacità di comandare gli uomini. Ma subito Socrate, facendogli l'esempio - per assurdo - dello schiavo che comanda al padrone, lo induce a perfezionare la definizione aggiungendo: "l'arte di comandare con giustizia". Menone cade in pieno nel trabocchetto e dà una terza definizione della virtù: afferma che essa è la giustizia.

Socrate gli fa osservare che esistono altre forme di virtù (il coraggio, l'autocontrollo, la sapienza, ecc.) e che quindi le virtù sono una cosa, la virtù, intesa come concetto, un'altra; e che chiedersi cosa sia la virtù significa interrogarsi su quale sia la virtù presente in tutte le sue varie manifestazioni. Menone non comprende o non vuol comprendere (cap. VI) e ribatte di non saper riconoscere quell'unica virtù di cui parla il filosofo. Allora questi gli fa l'esempio della figura e gli mostra che, così come la rotondità è una figura ma non la figura (poiché esistono gli oggetti rotondi, ma non tutti gli oggetti sono rotondi), allo stesso modo deve esservi un concetto di figura, che colga quell'aspetto universale presente in ciascun singolo oggetto sensibile. Gli chiede pertanto, riportando il discorso all'assunto iniziale, di dare una definizione di virtù (cap. VII). Menone, però,  dice che risponderà se prima Socrate vorrà dare lui una definizione di "figura"; forse egli vuol prendere tempo, forse vuol tentare di impadronirsi della 'tecnica' dell'interlocutore per poi dare una miglior definizione di virtù.

Socrate, mostrandosi paziente, lo accontenta e dice: "è figura la cosa che sola, tra quelle che esistono, accompagna sempre il colore". Menone, con tono sprezzante, sfida Socrate a far comprendere una tale definizione a chi dicesse di non sapere cosa sia il colore: il giovanotto ha atteso Socrate al varco per cercare di farlo inciampare. Quest'ultimo, con modi di finta modestia, (cap. VIII) dà allora una seconda definizione di figura, questa volta di ordine geometrico, dicendo che essa è il termine del solido (ciò in cui il solido finisce). Però Menone non demorde. Vuole sfruttare quello che crede essere un temporaneo vantaggio, e sfida Socrate a definire cosa sia il colore (cap. IX): cosa non molto corretta, visto che appunto l'obiezione precedente sul concetto di colore aveva indotto Socrate a dare una diversa definizione di figura. Socrate la volge un po' in scherzo, dicendo che ai belli è necessario cedere anche quando si comportano da insolenti, come ora sta facendo Menone: e così, lusingandolo nella sua vanità di bel giovane, finge di stare al suo gioco, ma si fa intanto promettere che poi risponderà a sua volta circa la definizione di virtù: che era il punto dal quale tutta la discussione era partita, e dal quale Menone aveva cercato di allontanarla. Così, citando anche un verso di Pindaro, ecco Socrate dire cosa sia il colore: "l'effluvio delle figure commisurato alla vista ed atto ad essere appreso per via dei sensi"; definizione che riscuote l'ammirata approvazione dell'interlocutore. Anche in ciò Menone si mostra pensatore superficiale e amante del bel parlare più che del vigoroso ragionare, oltre che ingenuo: lui, che non ha apprezzato la stringata ma efficacissima definizione socratica del concetto di figura, ora si compiace di una definizione di ciò che è il colore volutamente ampollosa ed enfatica, non cogliendo affatto la sottile ironia del suo interlocutore.

Ora è venuto il turno di Menone di tornare a definire il concetto di virtù (cap. X). Ed ecco la sua nuova definizione (la quarta): "godere delle cose belle e avere la possibilità di farle; desiderare le cose belle ed essere capace di procacciarsele". Socrate, fulmineo, gli piomba sopra come il nibbio sul passero, introducendo uno dei suoi temi etici favoriti: l'universalità della spinta al bene e l'inconsapevolezza di chi opera il male. Gli chiede, infatti, se chi desidera le cose belle desideri anche, al tempo stesso, le cose buone. Menone risponde affermativamente, e Socrate gli chiede ancora se, per lui, vi siano coloro che preferiscono il male al bene, o se non aspirino tutti al bene; ma la risposta è negativa. Socrate prosegue chiedendogli se il male possa giovare a colui che lo consegue, oppure se esso sia sempre e comunque nocivo; Menone risponde che alcuni lo ritengono giovevole, altri nocivo. Socrate gli chiede allora se coloro i quali pensano che il male giovi, sappiano che esso è male (e dunque nocivo); Menone rispone negativamente, e Socrate ha buon gioco nel mostrargli che ciò conferma la tesi secondo cui coloro che procacciano il male, agiscono in base all'ignoranza: anch'essi, in realtà, cercano il bene (ottimismo antropologico); ma poiché non sanno riconoscerlo, appetiscono il male credendolo giovevole. Il male porta sventura e infelicità: nessuno, che sia sano di mente, può desiderarlo sapendolo tale. Menone deve convenirne: "Pare che tu dica il vero, o Socrate, nessuno vuole il male".

Ora (cap. IX), poiché Menone aveva ammesso che le cose belle sono anche buone, Socrate lo induce a riformulare il concetto di virtù nei seguenti termini: "la virtù consiste nella facoltà di procacciarsi il bene"(quinta definizione). Socrate chiede quindi al suo interlocutore qualche esempio di beni desiderabili: e Menone, da buon allievo dei sofisti, pone al primo posto la capacità di procurarsi oro, argento e cariche nello Stato. Ma subito Socrate lo obbliga a correggersi: se è virtù la capacità di procacciarsi tutti quei beni onestamente, mentre è malvagità il farlo con l'ingiustizia, allora è virtù solo il fatto di procurarseli secondo giustizia; e anche il sapervi rinunciare, se essi provengono da azioni ingiuste.

Ora (cap. XII)  Socrate passa decisamente all'attacco. Se si era in precedenza convenuto che il concetto di virtù non è affatto l'enumerazione di singole cose virtuose, ma ciò che esse hanno di comune, come mai adesso Menone è ricaduto in un tal genere di definizione? "Ecco. Ti prego di definire la virtù nel suo tutto, ma tu ti tieni ben lungi dal farlo, asserisci invece che virtù è ogni azione se essa viene compiuta con una parte di virtù, come se tu avessi dato la definizione di virtù e di conseguenza come se io fossi già in grado di riconoscerla, anche se suddivisa da te in parti." Menone, mostrandosi un interlocutore presuntuoso ma non disonesto intellettualmente (come invece lo era stato, ad esempio, il personaggio di Polo nel Gorgia, estrema personificazione dell'arroganza dei sofisti), ne conviene; ed è già qualcosa.

Menone, però, va ancora oltre (cap. XIII): in un celebre passo in cui paragona il metodo socratico alla scossa provocata della torpedine, rivela con notevole franchezza e non senza una certa dose di coraggio il suo stato d'animo turbato e confuso dai ragionamenti del filosofo. Vale la pena di riportarlo per esteso, anche per la sua sottigliezza psicologica e per la somma maestria letteraria, in cui Platone - qui come altrove - mostra di eccellere, non meno che nel ragionamento strettamente filosofico.

"O Socrate, anche prima d'incontrarti di te sapevo che non fai altro che dubitare e porre gli altri nella identica condizione di dubbio; e adesso mi pare che tu m'abbia stregato, ammaliato, addirittura incantato [si noti la precisione e l'efficacia del climax], al punto che mi sento pervaso totalmente dal dubbio. Se lo scherzo non è inopportuno, tu mi sembri in tutto simile, tanto nell'aspetto quanto nel resto, alla piatta torpedine marina. Questa infatti produce tosto un torpore in chi le si accosta e la tocca; e mi pare che tu abbia suscitato in me la stessa sensazione di torpore. In realtà mi sento infatti l'animo e la bocca intorpidita e non riesco più a risponderti. Eppure moltissime volte, innanzi a migliaia di ascoltatori, ho tenuto tanti discorsi sulla virtù e con felicissimo esito, come io stesso notavo; adesso invece non so neppure dire che cosa essa sia. E credo apprezzabile la tua decisione di non recarti mai altrove; infatti, se tu straniero in un'altra città facessi cose simili, tosto saresti espulso come stregone." Una velata allusione, quest'ultima, al clima di insofferenza che stava maturando nei confronti del grande concittadino fra alcuni circoli democratici tradizionalisti, insofferenza che sarebbe alla fine divenuta aperto ripudio e condanna a morte da parte dell'assemblea ateniese?

In ogni caso, Socrate accetta la breve pausa scherzosa e la volge a proprio vantaggio, punzecchiando di nuovo Menone nella sua vanità e nel suo narcisismo: se egli voleva indurlo a fare la stessa cosa con lui, paragonandolo a chissà cosa a motivo della sua bellezza fisica, ha commesso un errore. Socrate non lo paragonerà a nulla; e, quanto al paragone della torpedine, egli (e qui torna subito serio) vuol precisarne il senso. La torpedine stordisce le sue vittime, restando però lucida; mentre lui, Socrate, è altrettanto stordito e confuso dei suoi interlocutori. Non pretende affatto di saperne più di loro: gli basta aver suscitato qualche interrogativo salutare in coloro che, a torto, si ritenevano già depositari della verità e della sapienza.

"Quanto a me, poi - dice - rassomiglio alla torpedine se essa rende torpidi gli altri ed è anche lei tale; in caso contrario, non le assomiglio. Infatti non suscito il dubbio negli altri, senza che io stesso dubiti; anzi, dubitando proprio io stesso più degli altri, li pongo nella mia stessa condizione. E adesso, io non so cosa sia la virtù, tu forse lo sapevi prima di imbatterti in me e ora però assomigli a chi non ne sa nulla. Tuttavia voglio esaminare ed indagare assieme a te cosa sia mai la virtù." E qui emerge tutta la grandezza di Socrate, e tutta l'abissale differenza, non tanto di metodo, quanto di fini, tra lui e i sofisti (strano che Aristofane, ne Le Nuvole, faccia una simile confusione!). Per lui la verità non è relativa, ma richiede - da parte di coloro che la ricercano sinceramente - un azzeramento preliminare del proprio falso sapere. Socrate, però, da buon maestro, non lascia i suoi interlocutori in una condizioni sgradevole di dubbio e di confusione fine a sé stessi; ma con loro vuole prefiggersi un cammino di ricerca, facendosi carico del loro disagio e anzi rassicurandoli che è il suo stesso disagio: quello derivante dal sentirsi piccoli davanti alla grandezza del compito prefissato, la ricerca della verità.

 

 

«MENONE»: SECONDA PARTE.

 

Menone, comunque (cap. XIV), pone a Socrate l'ovvia domanda di come egli pensi di definire la virtù, dato che ammette di essere del tutto ignorate in proposito; e di come potrebbe riconoscerla, quand'anche se la trovasse davanti, dal momento che non sa affatto cosa essa sia. Interrogativo più che legittimo, nel quale non cogliamo tanto l'ironia di chi vuole rifarsi dello smacco subito, quanto la giusta preoccupazione di chi dubita di poter mai arrivare alla definizione del concetto, dopo che tutte le precedenti definizioni sono risultate inadeguate. Per Platone, è questo il momento di introdurre l'argomento caratteristico di questo dialogo (anche se non quello essenziale), per il quale esso è universalmente noto anche fra i non specialisti: il tema della conoscenza come ricordo. E infatti, con questo capitolo si entra in un clima spirituale diverso: dal piano intellettuale si passa a quello spirituale; si apre la parte centrale del Menone che, rispetto alla prima parte, che possiamo considerare prevalentemente dialettica e negativa, spalanca nuovi orizzonti, di una vastità da togliere il respiro.

Socrate è perfettamente consapevole di questo salto di qualità, verso il quale egli stesso ha sapientemente indirizzato l'interlocutore: e il richiamo alla sacralità degli dei sottolinea la nuova atmosfera che è scesa sui dialoganti.

Al pessimismo gnoseologico di Menone, Socrate oppone un atteggiamento di fiducia nelle possibilità umane di avvicinarsi alla verità, fondandola però - ecco il salto qualitativo - non sull'orgoglio della ragione umana, ma sull'aiuto divino. Egli dice infatti di avere appreso da uomini e donne ispirati  (ancora la misteriosa Diotima, la donna di Mantinea citata nel Simposio?), sacerdoti che avevano dedicato la loro vita al servizio della divinità, una cosa importantissima: "che l'anima dell'uomo è immortale, ed ora finisce, cioè, come si suol dire, muore, ora torna a vivere, ma giammai si dissolve; e  perciò, dunque, è d'uopo trascorrere la vita quanto più santamente è possibile."

E prosegue (cap. XV), introducendo senz'altro la famosa teoria della reminiscenza:

"Poiché dunque l'anima è immortale e spesso rinasce, nulla v'è che essa non abbia appreso, in quanto ha contemplato tutte le cose del mondo terreno e dell'Ade; onde non può stupire il fatto che essa, riguardo alla virtù e alle altre cose, sia capace di ricordare ciò che prima sapeva. Infatti poiché la natura delle cose tutte è medesima e l'anima, d'altra parte, ha imparato già tutto, nulla impedisce che l'uomo ricordando una sola cosa (il che chiamiamo imparare), trovi da sé tutte le altre, qualora sia d'acuto ingegno e sappia perseverare nella ricerca; il ricercare, infatti, e l'imparare sono in sostanza la reminiscenza o anamnesi. Non bisogna dunque attenersi a quel principio eristico, che ci renderebbe inattivi; non per nulla esso è invitante per i pigri; il mio ragionamento invece, rende attivi e inclini alla indagine; e confidando nella veridicità di esso, io voglio assieme a te cercare cosa sia la virtù."

E così, questa è la via maestra per sfuggire alla pigrizia intellettuale e al fatalismo che possono sorgere dalla verificata difficoltà di stabilire l'essenza concettuale delle cose: fondarsi non sul dato empirico o sul ragionamento astratto, ma sul ricordo di Verità trascendenti, che la nostra anima ha avuto la possibilità di contemplare quand'essa era libera dai condizionamenti e dalle limitazioni e imperfezioni propri della vita mortale. La conoscenza della verità non può essere fondata, quindi, sulla presunzione di un sapere puramente umano, ma sulla trascendenza - in un linguaggio filosofico più moderno, sull'Essere da cui derivano sia gli essenti, sia la loro facoltà di intuire le qualità generali (essenza) che li accomunano, laddove l'esistenza li differenzia e li diversifica.

Ora, prima di entrare nel cuore del dialogo (il celebre episodio dello schiavetto ignorante che riesce a risolvere un difficile problema di geometria), Platone si concede .- e ci dona - una piccola perla di autoironia nella breve e maliziosissima schermaglia che vede Socrate e Menone affilare ancora una volta, ma si direbbe per gioco, le loro armi dialettiche. Menone, infatti, chiede a Socrate di convincerlo della verità della sua affermazione che imparare è ricordare; e Socrate gli ribatte:

"Lo dicevo dianzi che tu, o Menone, sei un furbacchione; ed ora mi chiedi se sono capace di insegnarti ciò; lo chiedi proprio a me che sostengo che non esiste insegnamento, ma reminiscenza, affinché tosto possa essere colto in aperta contraddizione con me stesso."

Piccate e divertite sono le proteste d'innocenza di Menone, non è possibile dire fino a che punto sincere (ma almeno ne hanno tutta l'apparenza) e fin dove non rivelano che Socrate, nonostante tutto, ha colpito ancora una volta nel segno, leggendo a chiare note la sottile strategia antagonista dell'altro. Fatto sta che Menone, l'irriverente, il sofista e - probabilmente - l'irreligioso Menone, si mette a imprecare scherzosamente e a chiamare a testimone il re di tutti gli dei della sua assoluta buona fede.

"Ma no, per Giove, o Socrate; non mirava a questo fine la mia domanda; ho usato tale termine solo per abitudine; ma se puoi, dimostraci che è vero quanto dici".

A questo punto Socrate fa chiamare uno degli schiavi, un giovanetto, e lo interroga intorno a delle figure geometriche, ben sapendo che egli non ha mai studiato la matematica. Dapprima gi mostra un quadrato (cap. XVI), e, facendolo osservare bene la figura con le sue diagonali, e inducendolo a riflettere e correggendolo giusto il minimo necessario, lo porta a individuare un importante principio di carattere generale (cap. XVII). Raddoppiando il lato di un quadrato, non si ottiene una figura doppia del quadrato stesso, bensì quadrupla (è probabile che Socrate disegni le figure sulla sabbia o sulla ghiaia, o anche su una tavoletta di cera: quel che è certo è che non discute in astratto, ma mostra al ragazzo le figure geometriche). Poi gli mostra un quadrato di quattro piedi di lato, diviso in quattro parti uguali in modo da formare quattro quadrati di due piedi di lato; e gli domanda di trovare la misura del lato di quel quadrato che abbia una superficie doppia di uno dei quadrati minori (che è di quattro piedi quadrati), e che sia quindi la metà di quella del quadrato maggiore (che è di sedici piedi quadrati). Lo schiavetto, intuitivamente, afferma che tale misura deve essere tre: poiché tre è il numero intermedio fra due (lato del quadrato minore) e quattro (lato del quadrato maggiore). Socrate però gli fa osservare che un quadrato con il lato di tre piedi ha una superficie di nove piedi quadrati (3x3=9), mentre è ovvio che la superficie del quadrato desiderato deve essere di otto piedi, essendo il doppio del quadrato minore (2x2=4). A questo punto lo schiavetto confessa di non saper cosa pensare.

Socrate ne approfitta (cap. XVIII) per ritornare, con Menone, al paragone della torpedine: lo schiavo credeva di sapere quale sia il lato di un quadrato di otto piedi, poi si è accorto di non saperlo e ora dubita di tutto; ma la scoperta del dubbio, cioè, in definitiva, della propria ignoranza, lo ha messo in una condizione assai più favorevole della precedente, perché ora egli è consapevole di non sapere e, quindi, può ritentare la conquista della verità partendo da una base più adeguata. Menone ne conviene. Allora Socrate torna a rivolgersi al giovane schiavo, impegnandosi però a non insegnargli la soluzione del problema, bensì a fargli solamente delle domande che lo guidino alla verità, cioè a ricordare la verità ch'egli già sapeva (come tutte le altre, e non solo della geometria, ovviamente), ma che aveva dimenticata.

Socrate fa osservare all'interlocutore dapprima i quattro quadrati minori che compongono il quadrato maggiore, indi le diagonali che tagliano in due, da angolo ad angolo, ciascuno dei quattro quadrati minori. Dall'unione delle quattro diagonali risulta un nuovo quadrato, che ha evidentemente una superficie doppia di ciascun quadrato minore, e la metà di quello maggiore. Esso è dunque proprio il quadrato di otto piedi di superficie che i due stavano cercando; e il lato desiderato, è costituito dalla diagonale dei quattro quadrati minori.  Così, il problema è risolto: en passant, Socrate ha dimostrato anche, implicitamente, il teorema di Pitagora: infatti il quadrato ottenuto unendo le diagonali dei quadrati minori risulta doppio di ciascun quadrato minore; ma ciascuna di dette diagonali è anche l'ipotenusa dei triangoli rettangoli che risultano dalla divisione in due, mediante le rispettive diagonali, dei quadrati minori; mentre il lato di questi ultimi è anche cateto dei medesimi triangoli rettangoli. Così, una doppia dimostrazione geometrica di somma eleganza è stata data da uno schiavo che nulla sapeva di geometria: Socrate lo ha guidato, ma non gli ha detto quale fosse la soluzione del problema. Non sappiamo se Platone si ritenesse pienamente soddisfatto di una siffatta "prova" della dottrina relativa alla reminiscenza di un sapere conseguito dall'anima precedentemente alla nascita, e accumulato di vita in vita, nella successione della metempsicosi. Noi moderni non lo siamo più di tanto, anche se non possiamo non ammirare la grazia e la naturalezza con le quali il "suo" Socrate ha svolto questa tesi (che certamente non apparteneva né tanto né poco al Socrate storico).

 

 

«MENONE»: TERZA PARTE.

 

Comincia la terza e ultima parte del dialogo (cap. XX). Socrate ottiene da un  Menone sin troppo arrendevole  il riconoscimento che lo schiavetto ha saputo risolvere il problema non perché guidato un suo insegnamento, sia pure non esplicito, ma perchè possedeva già in se stesso le conoscenze opportune; e, dunque, in linea generale, che attingere la scienza in sé stessi, è reminiscenza. Afferma inoltre che tali ricordi, poiché non provengono da questa vita, devono venire da altrove. Più precisamente (cap. XXI), l'anima possiede la vera conoscenza di ogni cosa da sempre; e, dunque, bisogna che l'anima sia immortale. Infine osserva che, se noi sentissimo il dovere di ricercare quel che non sappiamo (o, meglio, che sapevamo e che poi abbiamo dimenticato),  diverremmo degli uomini migliori, più capaci e più solerti. D'altra parte, non cercheremmo quello che non conoscessimo affatto: se cerchiamo, vuol dire che possediamo qualche sfuocato brandello di verità, che è appunto ricordo. Menone conviene anche su ciò.

Ora Socrate propone a Menone di riprendere insieme la ricerca su che cosa sia la virtù: il punto davanti al quale si erano arenati, allorché Menone aveva obiettato a Socrate che non è possibile andare alla ricerca di ciò che si ignora del tutto (cfr. l'inizio cap. XIV) e che, quand'anche la si trovasse, non si sarebbe in gradi di riconoscerla, è stato superato. Infatti adesso che Socrate, attraverso la teoria della reminiscenza, ha mostrato che noi non ignoriamo del tutto la verità delle cose, ma che andiamo alla ricerca di verità che possediamo sia pure confusamente, perché giacciono semidimenticate  dentro noi stessi, nella nostra anima, l'ostacolo è rimosso e la ricerca può riprendere con rinnovato slancio.

Menone, a sua volta, ricorda a Socrate la sua domanda iniziale, che aveva aperto il dialogo: se cioè la virtù si possa trasmettere mediante l'insegnamento. Socrate gli ricorda la contraddittorietà di voler indagare di che qualità sia una cosa di cui non si conosca la natura; amabilmente, però, dice di sottomettersi alla richiesta dell'interlocutore, a patto di poter procedere attraverso ipotesi, così come si fa in geometria, quando si vuol cercare la soluzione di un problema mai posto prima.

Socrate, dunque (cap. XXIII), si chiede se la virtù sia di natura diversa da quella della scienza. Infatti nulla si può apprendere che non sia scienza (nel senso di conoscenza della verità certa e non di mere opinioni); e, se la virtù è scienza, allora certamente la si può anche insegnare. Poi osserva che la virtù è un bene e che, se vi fosse qualche bene disgiunto dalla scienza, allora la scienza potrebbe non essere insegnabile; ma se la scienza contiene in sé ogni bene, necessariamente dovrà contenere anche quel bene che è la virtù. Il ragionamento non fa una piega e Menone vi consente di buon grado. Poi Socrate domanda se la virtù ci renda buoni e, se sì, anche utili (poiché la bontà è inseparabile dall'utilità): Menone acconsente. Socrate gli fa quindi convenire che la virtù, essendo unita alla bontà, deve anche recare utilità.

Ora Socrate passa a esaminare brevemente alcune qualità utili, come la salute, la forza, la bellezza, e osserva che quando di esse si fa un retto uso ci giovano, e quando se ne abusa, ci danneggiano. Sempre con il consenso di Menone, sposta quindi la riflessione sulle azioni dell'anima come il coraggio, la giustizia, la generosità e simili; e, del pari, osserva che quando tali azioni sono guidate dalla scienza, portano l'uomo al successo; quando, invece, guidate dalla stoltezza, arrecano danno. Da questo raffronto emerge che la virtù, essendo una disposizione dell'anima, per essere utile deve essere scienza: infatti le azioni dell'anima non sono né buone né cattive, ma lo divengono a seconda che siano guidate dalla scienza oppure no. L'ovvia conclusione di tutto il ragionamento è che la virtù, essendo utile, non può essere che una forma di scienza. L'ipotesi iniziale si è dimostrata esatta, mano a mano che si è verificata la veracità delle proposizioni secondarie legate all'assunto fondamentale che la virtù sia una scienza. Menone ne convien. Socrate è giunto a tale conclusione dopo una catena di ragionamenti rigorosi basati sulla logica oltre che sul senso comune: non ha calato dall'alto, come fanno i sofisti, una definizione apodittica e più o meno ampollosa, senza prendersi la briga di dimostrarla.

Adesso Socrate (cap. XXV) va oltre l'assunto iniziale e, dal ragionare sulla virtù, passa a ragionare sull'anima. Ricorda come hanno convenuto che le azioni dell'anima siano giovevoli o dannose a seconda che esse siano guidate dalla scienza o dalla stoltezza. Ora aggiunge che usare bene delle attitudini dell'anima è proprio di un'anima sapiente; che tale retto uso è frutto della scienza: e che, se la scienza è utile, allora la virtù, essendo utile, è anch'essa scienza. La conclusione di queste ulteriori riflessioni è che i buoni non sono tali per natura, ma lo divengono per virtù dell'insegnamento. Si ricordi, infatti, che Socrate aveva stabilito che solo la scienza si può apprendere: dunque, se la virtù e una scienza, essa può solamente essere insegnata ed appresa, non già posseduta naturalmente dall'anima. Questa, per inciso, è una tipica manifestazione dell'intellettualismo etico di Socrate: la virtù, essendo una scienza, si può insegnare e trasmettere; e, una volta che sia trasmessa (ma questo non viene detto esplicitamente, in questa sede), non è possibile che l'uomo non voglia praticarla: poiché essa coincide col bene, e nessuno persegue volontariamente il proprio male.

Stabilito che la virtù, essendo scienza, è insegnabile , Socrate sembra aver risposto pienamente al quesito iniziale di Menone e il dialogo potrebbe anche concludersi a questo punto. Invece Socrate (cap. XXVI), qui come in tanti altri casi, rimette lui stesso in discussione i risultati pazientemente acquisiti, e introduce il dubbio sulle certezze che lui stesso ha guidato l'interlocutore a costruire. Le parti sembrano essersi invertite: e intorno a Menone, che si sentiva ormai sul solido terreno delle certezze, ogni cosa torna a vacillare.

Il dubbio che Socrate introduce è il seguente: se una cosa qualsiasi, e non solo la virtù, può essere oggetto d'insegnamento, è necessario che vi siano sia maestri che discenti; ma se non vi sono né questi né quelli, allora quella tale cosa non è insegnabile. Ed ecco l'affermazione 'scandalosa' di Socrate, che rimescola tutte le carte e rimette in discussione ogni punto fermo: egli, nella sua vita - afferma - non ha mai incontrato alcuno che sapesse insegnare la virtù. Subito dopo egli chiama in causa un nuovo personaggio, che pare esser appena giunto: Anito, figlio del ricco e colto Antemione, uomo modesto e dabbene; ora Anito, giovane, bene educato e ambizioso, sembra avviato a una promettente carriera politica, poiché è stato innalzato alle maggiori magistrature. Qui Anito rappresenta l'esempio ideale dell'uomo politico. Ed è una tragica ironia il fatto che noi, a posteriori, sappiamo che sarà proprio lui il primo e principale accusatore di Socrate nel processo che condurrà alla condanna a morte dell'illustre filosofo.

Socrate, dunque, si rivolge al nuovo venuto e gli chiede se, per formare un giovane in una data professione o attività, non sia giusto mandarlo a fare pratica da chi ne sia già esperto, sia esso medico o calzolaio o flautista. Anito ne conviene. Non si manderà l'apprendista a fare pratica da colui che ignori quella data arte. Sarebbe cosa assurda. Dunque (cap. XXVIII), per apprendere la virtù con cui bene amministrare la famiglia e la città, bisogna andare a lezione da coloro (e qui l'ironia di Socrate si fa tangibile) che si dicono esperti di questa scienza: i sofisti. Ma Anito protesta con forza, dicendo che chi si reca a lezione da essi non può riceverne che danno. Socrate (cap. XXIX), fingendosi meravigliato e scandalizzato, dice che sono  incredibili le accuse di Anito, poiché un celebre sofista come Protagora ha ricavato, insegnando a pagamento la sua sapienza, più di quanto abbiano guadagnato sommi artisti come Fidia. Inoltre osserva che, se un ciabattino eseguisse male il suo lavoro, ben presto perderebbe ogni clientela; mentre Protagora è morto a settant'anni di età, dopo quaranta di professione, stimato e ammirato a tutti. Possono essere stati così pazzi i sofisti da insegnare solamente cose dannose, mentre gli Ateniesi affidavano loro  i propri  figli e li  pagavano profumatamente, per ottenere soltanto di lasciarli ingannare e fuorviare e per vederli divenire peggiori di quel che erano innanzi?

Ma Anito (cap. XXX) ribatte che non i sofisti, ma i loro clienti si comportano da pazzi, sia i giovani che i loro familiari. Socrate gli domanda (sempre ironicamente) se egli non abbia qualche fatto personale contro i sofisti, ma Anito risponde che non ha mai avuto alcun rapporto con costoro; eppure ben li conosce e, per tale motivo, se ne tiene ben lontano. Socrate allora gli chiede di suggerire presso chi un giovane perbene come Menone possa recarsi per essere istruito nella virtù, visto che quelli non sono adatti; e lo invita a fare il none di un cittadino qualsiasi in grado di eseguire tale incombenza.

Anito replica (cap. XXXI) che non c'è bisogno di far nomi; basta recarsi da un qualsiasi Ateniese onesto per apprendere cosa sia la virtù. Socrate - e qui comincia la parte più amara del dialogo - chiede se questi cittadini onesti siano divenuti tali da soli, e siano ora in grado di insegnare ad altri ciò che non hanno appreso da alcuno. Anito risponde che, secondo lui, gli uomini virtuosi devono aver appreso da altri uomini onesti, che certo ad Atene non mancarono né mancano tuttora. Socrate conviene con quest'ultima affermazione, ma non con la precedente.

E prosegue (cap.  XXXII): uomini virtuosi certamente vi furono e ve ne sono; ma non vi sono prove che abbiano appreso da altri la loro virtù. Si prenda ad esempio il caso di Temistocle, uomo illustre e quant'altri mai virtuoso: riuscì forse a fare di suo figlio Cleofanto un uomo virtuoso come lui? No di certo; riuscì a farne un buon cavallerizzo; ma non poté trasmettergli in alcun modo la sua virtù. Oppure (cap. XXXIII) si prenda il caso di Aristide, altro illustre uomo politico ateniese: anche lui fu indubbiamente un uomo virtuoso; ma, pur occupandosi dell'educazione di suo figlio Lisimaco, non riuscì a renderlo simile a sé, quanto all'esercizio della virtù. E la stessa cosa può dirsi per il grande Pericle, 'mostro sacro' della democrazia ateniese: i suoi due figli non risultarono simili al padre quando all'essere virtuosi; idem per il competitore di Pericle, Tucidite, e per i suoi figlioli.

Davanti a questa serie di esempi negativi sulla trasmissibilità della virtù, Anito (cap. XXXIV) ha una reazione alquanto infastidita: nelle sue parole sembra di cogliere una larvata minaccia che suona alquanto sinistra, se si considera che proprio Anito accuserà Socrate di corrompere i giovani ateniesi e di non onorare le divinità patrie, mettendo in moto il tragico meccanismo che porterà alla sua condanna a bere la cicuta. Egli dice testualmente: "O Socrate, mi pare che tu volentieri dica male degli altri. E perciò vorrei consigliarti di stare in guardia, se credi di darmi ascolto; perché forse in ogni altra città è più facile fare male anziché bene al prossimo, ma in questa certamente è così, e credo che anche tu lo sappia."

Rivolgendosi allora a Menone (cap. XXXV), Socrate si dice sicuro di aver compreso il motivo dello sdegno di Anito: crede che lui abbia inteso denigrare i grandi uomini ateniesi, e di essere egli stesso, Anito, fra i calunniati. Quindi chiede a Menone se non vi siano dei galantuomini anche al giorno d'oggi; e, avutane risposta affermativa, se costoro si ritengano maestri di virtù e in grado di insegnarla. Menone risponde che, sulla possibilità di insegnarla, i pareri sono discordi; Socrate cita allora i sofisti, che promettono di saperlo fare; ma Menone gli ribatte che proprio uno dei più famosi sofisti, Gorgia di Leontini, deride apertamente una tale pretesa e dice di non essere in grado d'insegnare null'altro che l'arte della retorica, ossia della persuasione (e forse questo è il motivo del rispetto che Socrate mostra nei suoi confronti, pur combattendone le idee; rispetto dovuto a un avversario onesto, e che appare evidente nel Gorgia platonico). Quanto a sé, Menone si dichiara incerto (non per nulla il dialogo era partito proprio da tale suo dubbio): talvolta è incline a credere che la virtù sia insegnabile, altra volta no. Socrate aggiunge che così la pensa anche il poeta Teognide; e cita (cap. XXXVI) alcuni suoi versi che lo dimostrerebbero. Socrate, quindi, conclude - e ne convince Menone - che non possono essere maestri di qualcosa coloro i quali si mostrano ora convinti della possibilità d'insegnarla, ora perplessi e anzi certi del contrario.

Il ragionamento di Socrate si fa sempre più incalzante (cap. XXXVII). Se né le persone oneste, né i sofisti - che si dicono maestri di virtù - sono in grado di insegnare tale facoltà dell'anima, vuol dire che nessuno è in grado di farlo e, di conseguenza, che nessuno ne è allievo. Niente maestri, niente discepoli: Menone deve convenire che la virtù non è insegnabile. Ma allora, le persone virtuose da dove l'apprendono? Socrate gli risponde che non soltanto con la scienza gli uomini apprendono a bene operare; l'altro ne appare stupito.

Socrate allora (cap.  XXXVIII) gli ricorda che, in precedenza, essi avevano convenuto che gli uomini onesti sono anche utili, come colui che, essendo pratico di certi luoghi, faccia da guida ad altri lungo la strada. Ma si può essere utili come guide anche in un altro modo: e cioè ragionando bene sulla strada da seguire, pur non avendo mai visitato di persona i luoghi in questione. Dunque non solo la scienza, intesa come conoscenza diretta del vero, ma anche la retta opinione è in grado di guidare adeguatamente gli uomini sulla via della virtù.

Menone, a questo punto (cap. XXXIX), molto ragionevolmente chiede quale sia dunque la differenza fra scienza ed opinione vera, dato che esse sembrano produrre il medesimo risultato. La distinzione, risponde Socrate (che cita, scherzosamente, le famose "statue di Dedalo"), è che la opinione vera è, purtroppo, sempre pronta a volare via; mentre il sapere fondato sulla scienza è stabile. Anche le opinioni vere possono divenire stabili, a patto che siano legate fra loro mediate la reminiscenza, che le rende scienza; indi consolidate a mezzo della fermezza.

Socrate a questo punto (cap. XL) ammette di non parlare per scienza, ma per congettura.; tuttavia fa notare a Menone che l'opinione vera è in grado di guidare le azioni umane non meno di quanto possa fare la scienza. Gli uomini buoni ed utili agli altri, cioè i virtuosi, possono quindi divenire tali non solo per mezzo della scienza della virtù, ma anche della retta opinione intorno ad essa. Ma, poiché né l'una cosa né l'altra si danno come doni di natura, ne consegue che gli uomini buoni non sono tali per natura. Dunque, la loro virtù parrebbe provenire da una forma di insegnamento; e tale insegnamento, era stato definito come scienza. Ma poi si era constatato che non esistono né maestri né discepoli di virtù, dunque chela virtù non è insegnabile e non è nemmeno una scienza  (perché, se lo fosse, la si potrebbe anche insegnare). Socrate ricorda anche che si era convenuto di definire la virtù come un bene, e che utile e buono è ciò che guida bene. Ora, se la scienza e la retta opinione guidano bene l'uomo, egli per mezzo di esse può far bene ogni cosa: perché le cose casuali non sono opera di una scelta responsabile dell'uomo.

 

«MENONE»: CONCLUSIONE.

Ora (cap. XLI), se la virtù non è insegnabile, essa non è scienza, e se non è scienza, bisogna che la scienza rinunzi a guidare la politica. Ecco perché Temistocle, Pericle e gli altri non riuscirono a trasmettere ad altri la virtù che possedevano: perché essa non è una scienza, e che essi non erano virtuosi per mezzo di scienza. Dunque, non resta che la retta opinione come guida alla virtù: e colui che la possiede è degno di essere chiamato uomo divino, ed onorato come tale. Divini sono gli uomini che, pur avendone scienza, conseguono e praticano la virtù mediante l'opinione vera; divini sono anche gli indovini, i vati, i poeti e tutti coloro che, pur senza un ragionamento preciso, giungono ad operare grandi cose per mezzo di una divina intuizione (ma Socrate dice "ispirazione", quasi a sottolineare il carattere religioso di tale conoscenza).

Questa, dunque, è la conclusione (cap. XLII) -  e sia pure una conclusione provvisoria e dinamica, mai cristallizzata nelle proprie presuntuose certezze, com'è in tutto il pensiero platonico -, anche se Anito dissente.  La virtù non è né un dono di natura, né una cosa insegnabile, e coloro che la possiedono, hanno ricevuto un autentico dono divino, non per merito della loro intelligenza. Grandissima cosa sarebbe se vi fosse anche un solo uomo capace di insegnarla ai suoi simili; ma tutto lascia credere (anche se Socrate non lo dice esplicitamente) che un tal uomo non sia di questo mondo. Un dono divino, dunque., è il possesso della virtù; con queste parole e con l'invito a Menone di farne persuaso anche Anito, ospite nella sua casa, e a rasserenarlo, Socrate pone fine al dialogo, allontanandosi per la sua strada.

 

Si tratta di uno dei dialoghi più belli e più importanti di tutto il corpus platonico, sia per lo splendore dello stile attico, sia per la chiarezza e l'eleganza dei ragionamenti; ma soprattutto per quel profondo anelito alla verità che non si appaga mai dei risultati acquisti, specie se puramente intellettuali, ma sempre tende verso nuovi orizzonti, inesausto eppure sempre perfettamente consapevole dei suoi limiti umani: e, quindi, aperto al mistero della trascendenza.