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La scommessa della decrescita

di Serge Latouche - 18/06/2007

Fonte: feltrinelli



"L'ecologia e' sovversiva poiche' mette in discussione l'immaginario
capitalista dominante. Ne contesta l'assunto fondamentale secondo cui il
nostro orizzonte e' il continuo aumento della produzione e dei consumi.
L'ecologia mette in luce l'impatto catastrofico della logica capitalistica
sull'ambiente naturale e sulla vita degli esseri umani" (Cornelius
Castoriadis)

Sembra ormai chiaro che oggi viviamo nell'epoca della sesta estinzione delle
specie. Quotidianamente, infatti, si registra la scomparsa di un numero di
specie (tra vegetali e animali) che va da cinquanta a duecento, un dato
drammatico superiore da mille a trentamila volte quello dell'ecatombe delle
ere geologiche passate. Come scrive Jean-Paul Besset: "Dopo l'era dei
ghiacci polari, non c'e' mai stato un ritmo di estinzione paragonabile a
quello attuale". Durante la quinta estinzione, avvenuta nell'era del
Cretaceo 65 milioni di anni fa, si e' prodotta la fine dei dinosauri e di
altri animali di grosse dimensioni, probabilmente a causa dell'impatto della
Terra con un asteroide, ma questi mutamenti sono avvenuti in un arco di
tempo ben piu' lungo rispetto a quello delle catastrofi attuali. Oggi,
inoltre, a differenza delle epoche precedenti, l'uomo e' direttamente
responsabile della "deplezione" in corso della materia vivente e potrebbe
addirittura esserne vittima. Secondo il rapporto di Belpomme sui tumori e le
analisi del rinomato tossicologo Narbonne, la fine dell'umanita' dovrebbe
avvenire ancor prima del previsto, ovvero verso il 2060, a causa della
sterilita' diffusa dello sperma maschile prodotta dall'effetto di pesticidi
e altri Pop o Cmr (i tossicologi definiscono Pop gli inquinanti organici
persistenti di cui i Cmr - cancerogeni, mutageni, reprotossici -
rappresentano la specie piu' "innocua").
Dopo decenni di frenetico spreco, siamo entrati in una zona di turbolenza,
in senso proprio e figurato. L'accelerazione delle catastrofi naturali -
siccita', inondazioni, cicloni - e' gia' in atto. Ai cambiamenti climatici
si aggiungono le guerre del petrolio (alle quali seguiranno quelle
dell'acqua) e probabili pandemie, e si prevedono addirittura catastrofi di
tipo biogenetico. Ormai e' noto a tutti che stiamo andando verso il collasso
definitivo. Restano da calcolare solo la velocita' con cui stiamo
precipitando nel baratro e il momento dello schianto. Secondo Peter Barrett,
direttore del Centro di ricerca sull'Antartico all'universita' neozelandese
di Victoria, "proseguire con questa dinamica di crescita ci mettera' di
fronte alla prospettiva di una scomparsa della civilta' cosi' come la
conosciamo, non fra milioni di anni o qualche millennio, ma entro la fine di
questo secolo". Quando i nostri figli avranno sessant'anni, se il mondo
esistera' ancora, sara' molto diverso.
E' noto inoltre che la causa di tutto cio' sono i nostri stili di vita
fondati su una crescita economica illimitata. Parlare di "decrescita"
significa dunque lanciare una sfida, azzardare una provocazione: all'interno
del nostro immaginario dominato dalla religione della crescita e
dell'economia, asserire la necessita' della decrescita risulta letteralmente
blasfemo e chi sostiene simili posizioni e' quantomeno considerato
iconoclasta, ma la realta' e' che viviamo semplicemente in una condizione
del tutto schizofrenica. Il presidente francese Chirac, per esempio, ha
dichiarato alla Conferenza dell'Onu sull'ambiente di Johannesburg (2002):
"La casa brucia e noi intanto guardiamo da un'altra parte". Inoltre, ha
affermato che i nostri stili di vita sono insostenibili, dal momento che gli
europei consumano l'equivalente di tre pianeti. Parole sante. Purtroppo,
mentre pronunciava questi discorsi, i suoi uomini, dietro suo mandato,
lavoravano all'Unione europea affinche' il Gaucho e il Paraquat, terribili
pesticidi che uccidono le api, provocano il cancro negli uomini e li rendono
sterili, non fossero iscritti nell'elenco dei prodotti proibiti. Inoltre,
Chirac, Blair e Schroeder si sono adoperati per ridurre drasticamente
l'impatto della direttiva Reach (Registration Evalutation and Authorisation
of Chemicals).
E' inutile stilare la lista delle catastrofi ecologiche gia' in atto o
preannunciate, lo scenario e' fin troppo noto, il problema e' che non
riusciamo ad afferrarne la portata: la catastrofe e' inimmaginabile fino a
quando non si e' realmente prodotta. Siamo anche perfettamente consapevoli
di cio' che sarebbe necessario fare, ovvero cambiare orientamento, ma in
pratica non facciamo nulla. "Guardiamo altrove", e intanto la casa continua
a bruciare. A nostra discolpa e' possibile affermare che i grandi uomini
della politica e dell'economia lavorano per lasciarci in questo
immobilismo - per esempio il World Business Council for Sustainable
Development (Wbcsd), il gruppo di industriali desiderosi di preservare i
loro profitti e il pianeta, ha al proprio interno i principali inquinatori
del pianeta ed e' stato definito da un ex ministro francese dell'Ambiente
"un club di criminali in giacca e cravatta". Sono proprio loro a continuare
a gettare benzina (proveniente dagli ultimi barili di petrolio) sul fuoco e
intanto continuano a dire a gran voce che questo e' l'unico modo per
spegnerlo. Si continua a mantenere i medesimi orientamenti, addirittura
perseguendoli con maggior forza, al punto che e' lecito riformulare la
domanda posta gia' nel 1987 dal sociologo Jacques Godbout all'interno di un
libro premonitore e poco noto: "La crescita e' davvero l'unica via d'uscita
alla crisi della crescita?".
Secondo l'amministratore delegato del nostro villaggio globale, George W.
Bush, la risposta e' ovviamente affermativa. Il 14 febbraio 2002, a Silver
Spring, davanti all'Amministrazione americana della meteorologia, ha infatti
dichiarato che "la crescita e' la chiave del progresso dell'ambiente,
poiche' fornisce le risorse che permettono di investire nelle tecnologie
pulite; rappresenta dunque la soluzione e non il problema". Non e' da meno
Chirac quando, in occasione del discorso di auguri alla nazione per il 2006,
ha scandito in modo quasi incantatorio: "Crescita! Crescita! Crescita!".
Simili orientamenti si conformano alla piu' stretta ortodossia economica.
Secondo l'economista Wilfred Beckerman, "e' evidente che, per quanto la
crescita economica sia, abitualmente e in un primo tempo, causa di degrado
ambientale, in fin dei conti, per la maggior parte dei paesi, il modo
migliore - e probabilmente l'unico - per avere condizioni ambientali decenti
e' arricchirsi".
Questa posizione "filocrescita" e' ampiamente condivisa. Sulla stampa,
l'annuncio della ripresa americana o cinese e' sempre dato con toni
trionfalistici. I piani di rilancio (franco-tedeschi, italiani o europei) si
fondano sempre tutti su grandi opere (infrastrutture e trasporti), che non
possono che deteriorare ulteriormente le condizioni, in particolare quelle
climatiche. A fronte di questa situazione, il silenzio della sinistra, di
socialisti, comunisti, verdi, dell'estrema sinistra e addirittura dei
movimenti "altermondialisti", lascia interdetti. A sinistra la crescita e',
infatti, considerata come fonte di soluzione della questione sociale,
poiche' crea posti di lavoro e ne favorirebbe una ripartizione piu' equa.
Jean Gadrey sintetizza bene questa posizione: "Se e' vero che la crescita
non puo' risolvere tutti i problemi, e' giustamente considerata da molti
come chiave in grado di creare margini di manovra e di migliorare alcune
dimensioni della vita quotidiana, dell'impiego ecc... Tuttavia, cosi'
facendo, si elude la questione del suo contenuto qualitativo (chi si e'
migliorato?), o della sua ripartizione (la 'condivisione del valore
aggiunto'), e soprattutto si eludono alcune questioni relative alla sua
reale entita' che, se dovessero essere rese note, rischierebbero di
indebolire la 'religione' dei tassi di crescita". Solo qualche rara voce
(Jean-Marie Haribey, Alain Lipietz e i responsabili di Attac) esce dal coro
e sostiene una "decelerazione della crescita". Anche se si tratta di una
posizione che, pur partendo da buone intenzioni, si rivela in fin dei conti
inefficace, poiche' ci priva nel contempo dei benefici della crescita e dei
vantaggi della decrescita. Michel Serres paragona l'ecologia riformista "a
una nave che si dirige alla velocita' di 25 nodi verso una parete rocciosa e
sulla quale si scagliera' inevitabilmente, mentre sul ponte di comando il
capitano ordina di diminuire la velocita' di un decimo, ma non di invertire
la rotta". Decelerare significa esattamente questo.
Nel 2004, il giornalista del settimanale francese "Politis" specializzato
nelle questioni riguardanti l'ecologia e' stato costretto alle dimissioni
dopo aver messo in luce in un suo articolo la debolezza dell'opposizione su
questi temi. Il dibattito che ne e' scaturito ha rivelato tutto il disagio
della sinistra. Il nodo della questione, scrive un lettore della rivista,
sta certamente "nella capacita' di sfidare una sorta di pensiero unico,
condiviso da quasi tutta la classe politica francese, secondo cui la nostra
felicita' deve passare per un aumento della crescita, della produttivita',
del potere d'acquisto e dunque per un aumento dei consumi". Come ha
osservato Herve' Kempf a proposito di questo caso: "La sinistra e' davvero
disposta a proclamare la necessita' di ridurre il consumo materiale, cardine
dell'ecologismo?".
A rigor del vero e' necessario ammettere che, da non molto, in Francia, il
tema della decrescita e' oggetto di dibattito all'interno dei verdi, della
Confe'deration paysanne, del movimento altermondialista, ma anche in alcuni
settori dell'opinione pubblica, soprattutto grazie al giornale "La
Decroissance" promosso dall'associazione Casseurs de pub. Tuttavia, molti
hanno preso posizioni aprioristicamente a favore o contro, senza
preoccuparsi di informarsi ulteriormente e deformando, se necessario, le
rare analisi proposte. Poiche' sono stato spesso chiamato in causa come
"teorico della decrescita" (anche da "Le Monde diplomatique"), mi pare
opportuno dissipare alcuni malintesi e chiarire in modo preciso i termini
della questione. La mia posizione e' esattamente questa: dal momento che un
cambiamento radicale e' una necessita' assoluta, la scelta di una societa'
della decrescita rappresenta una sfida che vale la pena di cogliere per
evitare una brutale e drammatica catastrofe. Questo e' il tema del libro.
*
Il termine "decrescita" in realta' e' stato introdotto solo di recente
all'interno del dibattito economico, politico e sociale, nonostante le idee
sulle quali si fonda abbiano una storia molto lunga. Senza dover risalire
alle utopie del primo socialismo, ne' alla tradizione anarchica rinnovata
dal situazionismo, il progetto di una societa' paragonabile a quella che
intendo per societa' della decrescita era gia' stato formulato alla fine
degli anni Sessanta da teorici come Ivan Illich, Andre' Gorz, Francois
Partant e Cornelius Castoriadis. Il fallimento dello sviluppo nel Sud del
pianeta e la perdita di punti di riferimento nel Nord hanno portato molti
analisti a mettere in discussione la societa' dei consumi, il sistema di
rappresentazione che la sottende, il progresso, la scienza, la tecnica. A
questo si e' aggiunta la presa di coscienza della crisi dell'ambiente.
L'idea di decrescita nasce dunque sia dalla consapevolezza della crisi
ecologica sia dalla critica della tecnica e dello sviluppo.
Fino a qualche anno fa, tuttavia, il termine "decrescita" non figurava in
alcun dizionario che trattasse di economia e societa', mentre si potevano
trovare alcuni concetti simili, come "crescita zero", "sviluppo sostenibile"
e naturalmente "stato stazionario". Nondimeno, l'espressione "decrescita" ha
gia' una storia relativamente complessa ed e' ricca di significati sul piano
politico ed economico. E' tuttavia necessario chiarirne il significato.
Alcuni analisti malevoli sostengono che si tratta di un concetto vecchio per
poter cosi' liquidare piu' facilmente le proposte sovversive avanzate dagli
attuali "obiettori della crescita". Francois Vatin, per esempio, sostiene
che gia' Adam Smith aveva proposto una teoria della decrescita nei capitoli
7 e 9 de La ricchezza della nazioni in cui evoca un ciclo di vita delle
societa' "che le fa passare dalla crescita accelerata (il caso delle colonie
dell'America del Nord) alla decrescita (il caso del Bengala) attraverso uno
stato stazionario (il caso della Cina)". In realta', Vatin confonde il
concetto di regressione con quello di decrescita. Nella mia accezione,
decrescita non identifica ne' lo stato stazionario dei classici
dell'economia, ne' una forma di regressione, di recessione o di "crescita
negativa", e neppure la crescita zero - benche' alcuni aspetti della
decrescita si ritrovino in quest'ultimo concetto.
In linea con i pubblicitari, i media chiamano ormai "concept" qualsiasi
progetto alla base del lancio di un nuovo prodotto, anche di tipo culturale,
e non stupisce dunque il fatto che mi sia stato chiesto quali siano i
contenuti del "nuovo concept" decrescita. A costo di far dispiacere
qualcuno, dichiaro subito che decrescita non e' un concetto, almeno non nel
senso tradizionale del termine, e' improprio parlare di "teoria della
decrescita", come gli economisti hanno fatto per le teorie della crescita, e
soprattutto che decrescita non identifica un modello pronto per l'uso.
Decrescita non e' il termine simmetrico di crescita, ma e' uno slogan
politico con implicazioni teoriche, e' un "termine esplosivo", dice Paul
Aries, che cerca di interrompere la cantilena dei drogati del produttivismo.
Decrescita e' una parola d'ordine che significa abbandonare radicalmente
l'obiettivo della crescita per la crescita, un obiettivo il cui motore non
e' altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e
le cui conseguenze sono disastrose per l'ambiente. A rigor del vero, piu'
che di "de-crescita", bisognerebbe parlare di "a-crescita", utilizzando la
stessa radice di "a-teismo", poiche' si tratta di abbandonare la fede e la
religione della crescita, del progresso e dello sviluppo.
Decrescita e' semplicemente uno slogan che raccoglie gruppi e individui che
hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e interessati a
individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del
doposviluppo. Decrescita e' dunque una proposta per restituire spazio alla
creativita' e alla fecondita' di un sistema di rappresentazioni dominato dal
totalitarismo dell'economicismo, dello sviluppo e del progresso.
I limiti della crescita sono definiti, nel contempo, sia dalla quantita'
disponibile di risorse naturali non rinnovabili sia dalla velocita' di
rigenerazione della biosfera per le risorse rinnovabili. Storicamente, nella
maggior parte delle societa', queste risorse erano considerate
essenzialmente beni comuni (commons) che, nella maggioranza dei casi, non
appartenevano a nessun singolo individuo. Ciascuno poteva goderne nei limiti
delle regole d'uso della comunita'. La stessa cosa avveniva per le risorse
rinnovabili: l'aria, l'acqua, la fauna e la flora selvatiche, i pesci degli
oceani e dei fiumi, e, con alcune restrizioni, i pascoli, gli alberi secchi
o il legno marcio e i pezzi di legna. L'uso delle risorse non rinnovabili, i
minerali del sottosuolo (tra cui l'olio di terra, il petrolio), era
governato da regimi di regolamentazione posti sotto il controllo del
principe o dello stato affinche' vi si attingesse con criteri consoni alla
loro esauribilita'. Piu' generalmente, l'assenza di sistematica
mercificazione dei beni naturali e la consuetudine limitavano l'uso di
queste risorse a livelli accettabili. La rapacita' dell'economia moderna e
la scomparsa dei vincoli comunitari, quelli che Orwell chiama "decenza
comune", hanno trasformato l'uso di queste risorse in saccheggio
sistematico.
Da questo punto di vista, il caso delle balene rivela chiaramente la
difficolta' rappresentata dalla protezione dell'ambiente. L'invenzione di
Steven Foyn nel 1870 del cannone-arpione esplosivo ha favorito
l'industrializzazione della caccia alla balena. Negli anni Venti e'
schizzato in alto il numero di baleniere e nel 1938 e' stata raggiunta la
cifra record di 54.835 balene catturate. Lo "stock" di balene, come e' noto
a tutti, e' ormai in via di esaurimento. L'industria della pesca si e'
dunque spostata su nuove specie di dimensioni piu' piccole - la balena blu,
la balenottera, il capodoglio. L'introduzione di nuove materie grasse e'
avvenuta tuttavia troppo tardi e, secondo la Commissione baleniera
internazionale, nell'Antartico, prima dei recenti provvedimenti di divieto
della pesca, restavano meno di 1000 balene blu, 2000 balenottere e 3000
capodogli. Diverse specie di balene sono totalmente scomparse, mentre
all'inizio del XX secolo esistevano centinaia di migliaia di rappresentanti
per ciascuna razza.
In definitiva, si prescinde dall'ambiente, lo si pone al di fuori della
sfera degli scambi mercantili e nessun dispositivo si oppone alla sua
distruzione. Ma in realta', la concorrenza e il mercato, che ci forniscono
il cibo alle migliori condizioni, hanno effetti disastrosi sulla biosfera.
Nulla interviene a limitare il saccheggio delle risorse naturali, la cui
gratuita' permette di abbassare i costi. L'ordine naturale non e', infatti,
in grado di opporsi a queste dinamiche, per esempio non e' riuscito a
salvare le Isole Mauritius o le balene blu della Terra del Fuoco e solo
l'incredibile fecondita' naturale dei merluzzi potra' forse risparmiare loro
la sorte a cui vanno incontro le balene. Anche se non possiamo esserne
certi, poiche' l'inquinamento degli oceani rappresenta un grave pericolo per
questa leggendaria fecondita'. Il saccheggio dei fondali marini e delle
risorse alieutiche sembra irreversibile. La dilapidazione di minerali
prosegue in modo irresponsabile. I cercatori d'oro individuali, come i
garimpeiros d'Amazzonia, o le grandi societa' australiane in Nuova Guinea
non arretrano di fronte a nulla per procurarsi l'oggetto della loro
cupidigia. Peraltro, nel nostro sistema, ogni capitalista, come ogni homo
oeconomicus, e' una sorta di cercatore d'oro.
Gli indiani della British Columbia, costa occidentale del Canada (i
kwakiutl, haida, tsimshian, tlingt ecc.), hanno invece dato un buon esempio
di rapporti armoniosi tra uomo e biosfera. Secondo una leggenda, i salmoni
erano esseri umani come loro che vivevano in tribu' in fondo al mare, dove
avevano le tende, e d'inverno decidevano di sacrificarsi per i loro fratelli
che abitavano sulla terraferma, allora diventavano salmoni e si dirigevano
verso le foci dei fiumi. Nella stagione in cui risalivano il fiume, gli
indiani accoglievano il primo salmone come un ospite importante e lo
mangiavano durante una cerimonia. Il suo sacrificio era tuttavia considerato
un prestito provvisorio e ne riportavano in mare lo scheletro e i resti
permettendo cosi' la rinascita dell'ospite precedentemente mangiato. In
questo modo si perpetuava l'armoniosa convivenza tra salmoni e uomini. Con
l'arrivo dell'uomo bianco e l'insediamento a ogni estuario di industrie
conserviere si e' realizzata una corsa al profitto che ha portato una
drastica diminuzione di salmoni. Secondo gli indiani, i salmoni sono
scomparsi perche' i bianchi non hanno rispettato il rituale... E non si puo'
dare loro torto. La relazione di queste tribu' con la natura, come quella
della maggior parte delle societa' tradizionali, si fonda sull'armonioso
inserimento dell'uomo nel cosmo. In Siberia, si muore nella foresta per
restituire agli animali cio' che si e' preso da loro.
Queste concezioni implicano rapporti di reciprocita' tra gli uomini e il
resto dell'universo: gli uomini sono pronti a darsi a Gaia (personificazione
mitologica della Terra), come Gaia si e' data a loro. Eliminando la
capacita' di rigenerazione della natura, riducendo le risorse naturali a una
materia prima da sfruttare invece di attingerne, la modernita' ha eliminato
questo rapporto di reciprocita'.
La condizione della nostra sopravvivenza sta certamente nella ricostruzione
di un rapporto armonioso con la natura, sulle orme di una concezione
prearistotelica della relazione uomo-natura. MacMillan, economista americano
del XXI secolo impegnato nella salvaguardia dei condor, sosteneva: "Dobbiamo
salvare i condor, non tanto perche' abbiamo bisogno dei condor, ma
soprattutto perche', per poterli salvare dobbiamo sviluppare quelle qualita'
umane di cui avremo bisogno per salvare noi stessi". All'interno della
protezione dell'ambiente, Jean-Marie Pelt introduce i concetti di gratuita'
e di bellezza. Il problema reale e' che si continua a parlare di ecologia,
sono state adottate importanti misure di protezione, ma continuiamo a non
invertire radicalmente la rotta. Nonostante l'ottimismo del filosofo
francese Michel Serres, gli alberi dotati della capacita' di giudizio non
devono nascondere la foresta minacciata. La giurisprudenza americana piu'
recente va nel senso di un rafforzamento dell'appropriazione giuridica dei
processi naturali da parte dell'uomo sempre piu' spinta. A questo si
aggiunge che, per abitudine o incoscienza, le istituzioni tendono a
incoraggiare ogni forma di inquinamento (pesticidi, concimi chimici) con
esenzioni fiscali e continuano a finanziare progetti che distruggono la
biosfera dei paesi del Sud con il pretesto della lotta contro la poverta'.
Si e' addirittura arrivati a pensare che l'unico rimedio alla tragedia della
scomparsa di numerosi beni comuni fosse la loro completa eliminazione.
Secondo i convinti sostenitori della deregulation, solo l'interesse privato
e la rapacita' degli individui potrebbero limitare la sua dismisura!
Bisognerebbe privatizzare l'acqua e l'aria (ma anche i pesci degli oceani e
i batteri delle foreste tropicali) per salvarle dai predatori. » quanto
fanno le societa' transnazionali, con il sostegno degli stati nazionali e
delle istituzioni internazionali, contro le quali le popolazioni insorgono
in tutto il pianeta. La gestione dei limiti della crescita e' diventata una
questione intellettuale e politica. La ricerca teorica sulla decrescita si
colloca all'interno di un movimento piu' ampio di riflessione sulla
bioeconomia, sul doposviluppo e sull'a-crescita...

[Dal sito www.feltrinelli.it riprendiamo il seguente estratto
dall'introduzione del recente libro di Serge  Latouche, La scommessa della
decrescita, Feltrinelli, Milano 2007.
Serge Latouche, docente universitario a Parigi, sociologo dell'economia ed
epistemologo delle scienze umane, antropologo, esperto di rapporti economici
e culturali Nord/Sud, promotre del Mauss (Movimento antiutilitarista nelle
scienze sociali), propotore della rpoposta della decrescita, e' una delle
figure piu' significative dell'odierno impegno per i diritti dell'umanita' e
la difesa della biosfera. Opere di Serge Latouche: L'occidentalizzazione del
mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Il pianeta dei naufraghi, Bollati
Boringhieri, Torino 1993; I profeti sconfessati. Lo sviluppo e la
deculturazione, La Meridiana, Molfetta (Bari) 1995; La megamacchina. Ragione
tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Bollati
Boringhieri, Torino 1995; Il pianeta uniforme. Significato, portata e limiti
dell'occidentalizzazione del mondo, Paravia, Torino 1997; L'altra Africa.
Tra dono e mercato, Bollati Boringhieri, Torino 1997, 2000; Il mondo ridotto
a mercato, Edizioni Lavoro, Roma 2000; La sfida di Minerva. Razionalita'
occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 2000;
L'invenzione dell'economia. L'artificio culturale della naturalita' del
mercato, Arianna Editrice, 2001; La fine del sogno occidentale. Saggio
sull'americanizzazione del mondo, Eleuthera, Milano 2002; Giustizia senza
limiti. La sfida dell'etica in una economia globalizzata, Bollati
Boringhieri, Torino 2003; Il ritorno dell'etnocentrismo, Bollati
Boringhieri, Torino 2003; Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia
vernacolare e societa' conviviale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004;
Decolonizzare l'immaginario. Il pensiero creativo contro l'economia
dell'assurdo, Emi, Bologna 2004; Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla
decolonizzazione dell'immaginario economico alla costruzione di una societa'
alternativa, Bollati Boringhieri, Torino 2005; La scommessa della
decrescita, Feltrinelli, Milano 2007. Cfr. anche il libro-intervista curato
da Antonio Torrenzano, Immaginare il nuovo. Mutamenti sociali,
globalizzazione, interdipendenza Nord-Sud, L'Harmattan Italia, Torino 2000]