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In Germania nasce la Linke. La “sinistra sinistra” e la società del rischio.

di Carlo Gambescia - 20/06/2007

Domenica scorsa il manifesto ha dato notizia dell’unificazione della sinistra, "a sinistra" del partito socialdemocratico. Dalla fusione tra LinkSpartei e Pds è nata un nuova forza politica, Die Linke: sinistra. Il programma, anzi gli “elementi programmatici”, da discutere in una seconda fase di elaborazione del programma concreto, per ora ruotano intorno ad alcuni punti: 1) salario minimo di otto ore; 2) assegno sociale per disoccupati, da non condizionare all’accettazione dello svolgimento di un lavoro meno qualificato rispetto al precedente; 3) diritto all’asilo gratuito per ogni bambino; rifiuto di elevare l’età della pensione a 67 anni; 4) rifiuto della privatizzazione delle ferrovie; 5) ritiro immediato dall’Afghanistan.
Ora, dando per scontata la completezza della notizia riferita dal manifesto, possiamo, anzi dobbiamo chiederci che cosa vi sia di sinistra in un “quasi programma” del genere...
Molto poco. Perché, per dirla tutta, oggi, chiunque si dichiari di sinistra dovrebbe schierarsi dalla parte di quella che Polanyi chiamava la sostanza morale e umana della società. E dunque opporsi all’ideologia e alla pratica della società del rischio, fondata invece proprio sulla distruzione di tale tessuto sociale e culturale. Ma come avviene la distruzione? Facile, si fa per dire... Si autoriproduce attraverso il processo di individualizzazione e precarizzazione di tutti i rapporti sociali e umani (familiari, lavorativi, scolastici, abitativi, sanitari, pensionistici, eccetera), imposto dal neoliberismo. Sotto questo aspetto, perciò, il programma della “Linke” è minimalistico e difensivo. Il problema, infatti, non è il finanziamento degli asili ( o almeno non solo), ma di tornare a una politica, non di puro contenimento della marea neoliberista, ma di inquadramento economico, giuridico e sociale del capitalismo. Si dirà, in questo momento, e non solo in Germania, per la “sinistra sinistra” (chiamiamola così), non è possibile fare di più. Il che può anche essere vero. Tuttavia “tappare i buchi”, non aiuta assolutamente a combattere, nelle sue linee generali, quell’ideologia e pratica del rischio sociale, oggi così celebrata, dal neoliberismo, come fattore positivo di crescita.
La tesi dei neoliberisti è la seguente: più l’individuo viene lasciato libero di scegliere, ovviamente a suo rischio e pericolo, più la società si arricchisce, perché solo così i più capaci e meritevoli possono emergere, arricchendo se stessi e la società nel suo insieme. Perciò più si rischia individualmente (ad esempio, accettando la flessibilità lavorativa), più la società si apre al rischio (rifiutando qualsiasi inquadramento), più si sviluppa economicamente. Così però, coloro che non riescono ad avere successo, rischiano, a loro volta, di diventare un peso per l’intera società. Infatti, il neoliberismo, sostiene che i “perdenti” non possono, anzi non debbono, essere mantenuti, a spese della collettività: chi non lavora non mangi. Perché nessun pasto, come pontificava Milton Friedman, è gratis.
Perciò, il primo punto del programma, di una “sinistra sinistra”deve recepire la critica radicale della società del rischio. Una critica basata su un semplice, quanto inattuale, presupposto: tutti gli individui, in quanto persone, sono meritevoli di sostegno sociale, nelle varie fasi della loro vita, a prescindere dai risultati individuali conseguiti. La persona, come sistema di relazioni e valori (perché dietro di sé e con sé e “trascina” il proprio mondo vitale, composto di altre persone: famiglia, amici, colleghi di lavoro, eccetera), è una ricchezza (di rapporti) per la società, e non un investimento economico, di cui valutare il rendimento. Per restare in metafora: i “pasti”, proprio perché riguardano, anche in senso sociologico e culturale, il "sostentamento" della "persona-rete", devono essere gratis… Anche chi non lavori, deve “mangiare”. Anche la rovina di uno solo, può essere la rovina di molti, perché, ripetiamo, l'uomo non è un'isola.
Perciò sul piano pratico, una scelta del genere, implica la correzione, in senso sociale e politico, dei meccanismi economici del capitalismo. E in particolare, un maggiore interventismo pubblico, che può essere svolto dallo stato ma anche demandato ad altre organizzazioni sociali (ad esempio di terzo settore). Il che impone il ritorno a una programmazione di tipo economico e sociale su larga scala. E qui, si pensi all’importanza di ridimensionare l’enorme potere assunto dai banchieri e finanzieri europei. Oggi costituitisi, in veri e propri circoli di potere, che “remano contro” l’Europa politica e sociale. Ovviamente, la programmazione, dovrebbe riguardare l’ intera Europa. Che, attualmente, sembra invece essersi appiattita sulla Direttiva (neoliberista) Bolkestein.
In certo senso all’Europa dei mercati andrebbe contrapposta un’ Europa sociale, fondata su quei “sacri” diritti sociali, che sono la fondamentale conquista del Novecento.
Ma la “sinistra sinistra” è in grado di perseguire questo progetto?