Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Dal FMI ai nuovi paradigmi finanziari. Il neokeynesismo finanziario (IV parte)

Dal FMI ai nuovi paradigmi finanziari. Il neokeynesismo finanziario (IV parte)

di G. Duchini - 20/06/2007

 

 

    Una premessa ideologica  ha permeato a lungo il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e ne ha garantito una diffusione planetaria, quella di  Keynes. Tale premessa si è diffusa su due linee: l’ idea-forza del “sociale” a sostegno della domanda dei consumi e della piena occupazione (che ha rappresentato la  cassa di risonanza sociale delle sinistre europee) e quella finanziaria che vi agiva più in ombra. Il “New Deal” di Roosvelt (Presidente degli Usa) del ’32, in risposta alla crisi del ’29, con le politiche di spesa in opere infrastrutturali,  strade, aeroporti, risanamento urbano… trovò in Keynes l’interprete ideale. Nella "Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del ’36, Keynes venne consacrato come “teorico della crisi” che veniva combattuta e vinta tramite l’intervento dello Stato, senza alcun limite al libero mercato, né ad interventi volti alle riduzioni dei salari. La teoria economica keynesiana è stata una macroeconomia, in contrapposizione alla microeconomia della teoria classica tradizionale, che parte da un assunto della domanda effettiva composta da:  C+I=Y, dove C rappresenta la spesa complessiva di beni di Consumo, I la spesa complessiva di beni di Investimenti degli imprenditori, Y il Reddito nazionale (domanda effettiva). C’è la possibilità di intervenire separatamente all’interno dei singoli aggregati: si può intervenire su C per mantenere un certo livello di consumi, oppure su I per garantire un certo volume di investimento dei Capitali. In particolare, in quest’ultimo aggregato di Investimenti il livello è deciso dalla variazione del “tasso di interesse” cioè dalla possibilità di ingrossare la quantità di moneta in circolazione; la politica keynesiana mira sostanzialmente a ridurre il valore reale della moneta per diminuire le disponibilità al risparmio e favorire con questo l’afflusso della moneta nelle mani degli imprenditori e dello Stato. Se questo afflusso di denaro non è sufficiente a far ripartire gli investimenti privati, interviene lo Stato che immette investimenti in infrastrutture (strade, acquedotti..) in Deficit di bilancio cioè in crescita di debito stampando moneta tramite le Banche Centrali. Il circolo virtuoso economico-monetario così creato, fa aumentare la domanda di beni di consumo che a sua volta con la “massa critica di moneta” immessa nella circolazione che in virtù della “teoria quantitativa della moneta,” fa aumentare gli investimenti di capitali  per creare maggiore offerta di beni in corrispondenza alla crescita di domanda e con ciò, far ripartire l’economia.

    Ho voluto fare questo richiamo estremamente sintetico per concentrare l’attenzione su uno degli aspetti centrali della teoria di Keynes, quello monetario in corrispondenza al “Deficit di Bilancio” dello Stato,  nella concomitante variazione del tasso di interesse, perché su questi strumenti di manovra si è potuto sviluppare  l’ideologia del Fmi. Non è un caso che Keynes è stato non solo  uno dei padri fondatori del Fmi, negli accordi di Bretton Woods del 1944, quanto e soprattutto, il suo teorico principale. Del resto, l’economista di Cambridge precedentemente alla grande crisi finanziaria della fine anni Venti, aveva già prodotto una importante produzione di letteratura economico-monetaria in particolare “il Tract on Monetary Reform” del ’24 ed il “Treatise on Money” del ’30. E’ un po’ difficile uscire da un certo ginepraio ideologico dovuto alle varie interpretazioni Keynesiane  che hanno sedimentato nel tempo e coperto gli intenti teorici di fondo dell’economista inglese. I cardini dei principi di Keynes si muovono sui binari  della politica monetaria, che hanno rappresentato un importante filone di pensiero, incardinatosi nel corso del tempo, in una nuova  organizzazione finanziaria internazionale che ruota  attorno al grande centro  finanziario Usa.

    L’influenza  di Keynes nella costituzione del Fmi e nei suoi effetti rimase puramente teorica; la sua morte prematura, avvenuta nell’immediato dopoguerra del ’46, ha impedito  di verificarne i suoi  importanti  sviluppi politici e finanziari; epocale, rimase comunque la sua teoria con molte interpretazioni e con una certa discontinuità nei confronti dei “neoclassici,” in particolare, nei confronti di Marshall che poneva al centro dell’indagine della piena occupazione raggiungibile soltanto in un processo di interdipendenza delle variabili composte della domanda e dell’investimento. Keynes, al contrario, invece affermava la non interdipendenza delle variabili in esame perché ciascuna dipendeva da un principio di causalità. Si può agire separatamente su domanda ed investimenti attraverso la creazione di una massa di offerta monetaria. La leva principale per la creazione dell’offerta di moneta è nella bassa tenuta del tasso di interesse. Quest’ultimo diventa lo strumento essenziale per far affluire alle casse dell’imprese la massa monetaria necessaria a garantire un certo livello di investimento e occupazione che accompagna un corrispondente livello di domanda di beni di consumo; se gli investimenti degli imprenditori non bastano interviene lo Stato, per il tramite delle Banche Centrali, con emissione di moneta con effetti da “moltiplicatore” sugli investimenti. Il tasso di interesse sui prestiti è lo strumento fondamentale per misurare il livello dell’investimento ed il suo rendimento; se l’imprenditore volesse aggiungere una quota aggiuntiva di investimento (efficienza marginale) avrebbe convenienza a farlo solo se dall’investimento aggiuntivo si aspettasse un rendimento del tasso superiore allo stesso investimento di quota di capitali di investimento alternativo rappresentato dai tassi di rendimenti dei titoli di mercato. C’è una ulteriore annotazione che riguarda la “Teoria Generale:” il tasso di interesse secondo i marginalisti (neoclassici) influisce direttamente sull’offerta di risparmio, nel significato che il tasso d’interesse è semplicemente il punto di equilibrio tra la domanda e l’offerta di risparmio. Al contrario, per Keynes il tasso non è la remunerazione del risparmio, ma il premio “per chi rinuncia a tenere le proprie risorse in forma liquida”; in pratica, la forma liquida della moneta dipende oltre che dall’ammontare del reddito che ciascuno dispone, anche dalle “aspettative” sui tassi di interesse dei titoli: se il tasso di interesse è alto, la gente è portata a comprare titoli investendo la parte residua di reddito monetario rimasto dopo avere detratto la parte di reddito necessario alla propria sopravvivenza, e viceversa, se il tasso è basso. Conseguenza di tutto questo, e per la discontinuità su indicata della teoria keynesiana rispetto ai (neo)classici, le variazioni del tasso d’interesse  e l’Offerta di moneta creata in Deficit dello Stato per il tramite della Banca Centrale sono introdotte come variabili esogene(esterne), rispetto alla determinazione dell’equilibrio macroeconomico. La “mano invisibile” degli economisti (neo)classici che risana tutto dall’interno, in un processo di interdipendenza tra variabili che si collocano in “modo automatico” in un equilibrio microeconomico, viene sostituito da una visione economica keynesiana, disaggregata e macroeconomica in disequilibrio tra variabili non più interdipendenti ma tenute insieme in ricomposizione continua, con interventi dall’esterno (esogeni) misurati dal Deficit, attraverso l’Offerta di moneta. Da un’idea di sviluppo economico dei classici sempre in equilibrio tra variabili interdipendenti  si passa ad  una interpretazione di sviluppo keynesiano, che fa leva su un disequilibrio “in continuum” da riorganizzare, con interventi esterni di riequilibrio di tutto il sistema, attraverso l’unico strumento su cui far girare e ripartire l’economia, quello monetario. Un grande interpretazione economica (keynesiana) del secolo scorso si è trasformata nel tempo nel grande equivoco di uno  sviluppo economico derivato dalla ideologia del Deficit di Stato ( e/o della Spesa Pubblica), contagiando come una epidemia tutte le correnti economiche fino a  quelle  di derivazione marxiste.

    La corrente economica che ha maggiormente contribuito a rendere l’Offerta di moneta in modo indipendente, ciò anche per le decisioni delle autorità monetarie e bancarie, sono i “neokeynesiani” della “Scuola di Chicago” con l’esponente di spicco nell’americano Milton Friedman. Sebbene tale scuola si richiami costantemente alla teoria quantitativa della moneta ( e del moltiplicatore), in realtà essi sono lontani dal soffermare l’attenzione all’importanza della funzione della moneta come intermediaria degli scambi. Essi attribuiscono estrema importanza alla funzione della moneta come attività finanziaria, cioè alle forme alternative di investimenti in titoli e genericamente, nei prodotti finanziari realizzatisi nella domanda, come versante opposto dell’offerta, cioè nella richiesta per gli investimenti e nell’impiego delle possibili forme alternative alla moneta, in vista dei loro rendimenti. Ben si comprende che  gli aspetti principali di controllo nelle singole economie sono rappresentati dall’Offerta di moneta finanziaria e dalle variazioni dei tassi di interesse (o di sconto) per far fronte ai deficit di Bilancio degli Stati, secondo  gli “standard internazionali” del Fmi a guida Usa, compatibilmente con gli indirizzi della  Banca Centrale Usa della ‘Federal Reserv,” da cui dipende a sua volta la Banca Centrale Europea  (Bce). I parametri dei vincoli del deficit di bilancio di Manstreet entro il 3% del Pil, in controtendenza alle politiche neokeynesiane, sono risultate nel tempo risibili e difficile a (man)tenere. L’offerta di moneta finanziaria creata a misura e regolazione del Deficit di Stato si avvale del supporto  fondamentale  delle Banche d’Affari Private Usa nella gestione ed immissione dei prodotti finanziari, trasformando nel tempo tale offerta in liquidità finanziaria similmente monetaria, dove l’equivalente di valore monetario delle merci si è trasformato in un equivalente di valore autovalorizzante sorretto dalle convenzioni finanziarie imposte dal potere del grande Centro Finanziario Usa.

      La politica monetaria-finanziaria realizzata con le variazioni dei tassi, da ultimo l’ennesimo aumento del tasso di sconto(tasso di interesse della Banca Centrale nei confronti delle Banche) al 4% della Bce in corrispondenza a quello della “Federal Reserv” Usa  al 5,25%, sta a significare che quando l’economia è stagnante, le Banche Centrali tengono bassi i tassi di interessi anche all’1%, il “denaro costa poco” con la conseguenza che si indebitano famiglie, imprese, stati, si immette una grande quantità di liquidità si fa ripartire l’economia, ripartono consumi, produzioni e ottimismo. La liquidità immessa dalle banche è tutto a debito anche se consente di acquistare sottocosto i beni di consumo, prima di far riprendere l’inflazione.  Quando l’economia è ripresa con inflazione, per contenere quest’ultima, si comincia ad aumentare gradualmente il tasso di sconto con sempre maggiore difficoltà alle restituzioni dei prestiti, fino all’ attuale impasse economica di famiglie ed aziende.