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Lo «spirito maligno» dell'America latina

di Marina Zenobio - 20/06/2007


 

Alcune organizzazioni maya del Guatemala, subito dopo la dipartita di George W. Bush da Cakchiquel - antico capoluogo di Iximché, a 90 chilometri da Città del Guatemala, sull'altipiano occidentale del paese dove vivono in maggior parte indigeni - hanno voluto «purificare» le terre sacre calpestate dal presidente nordamericano durante la tappa guatemalteca del suo recente tour in America latina.
È un luogo di grande rilevanza spirituale per la cultura maya, centro di antichi cerimoniali e prima capitale del Regno di Guatemala, nel 1524. Il coordinamento guatemalteco, che raggruppa la maggior parte delle organizzazioni indigene e contadine del paese centroamericano, e la «Convergencia nacional Maya Waq'ib Kej» non hanno gradito la visita. Anzi, l'hanno ritenuta un affronto nei confronti del popolo maya e della sua cultura. «Un essere come Bush, che nel suo paese perseguita i fratelli e le sorelle immigrate e che fuori dal suo paese provoca guerre sanguinose, non è degno di calpestare i luoghi sacri dei nostri antenati». I miliardi di dollari spesi in guerre di questi ultimi anni sarebbero sufficienti a sradicale il fenomeno della denutrizione infantile e un quantità di malattie in tutta l'America latina. Così, nelle parole di Juan Tinei, leader del Coordinamento indigeno e contadino guatemalteco, il ripudio di un'intera comunità che, dopo aver manifestato prima e durante la presenza di Bush sfidando le imponenti misure di sicurezza, alla dipartita del presidente ha voluto organizzare una cerimonia per purificare l'area «contaminata» e spingere «gli spiriti cattivi» ad abbandonare quei luoghi dove i loro avi e nonni riposano in pace.
La cerimonia ha rappresentato anche l'evento iniziale di Aby Yala, il terzo vertice dei popoli indigeni latinoamericani che, da cinquecento anni, continuano a resistere e lottare per i propri diritti e che, per l'occasione, ha trovato sede proprio sull'altipiano di Iximché. Nel corso dell'atto inaugurale Blanca Chancoso, leader kichwa della regione di Pastaza, al confine tra Perù e Ecuador, ha ricordato gli obiettivi del vertice, a partire dalla necessità di unirsi sempre più nelle proteste per la salvaguardia ambientale delle loro regioni, contro la privatizzazione dell'acqua e delle risorse naturali che sono e devono restare patrimonio comunitario.
Il vertice ha parlato del debito storico che i governi locali e le potenze internazionali hanno nei confronti delle comunità indigene, puntando il dito contro il processo di criminalizzazione che caratterizza ogni loro richiesta. «Con l'imperialismo e il capitalismo hanno fatto ciò che volevano dei nostri tesori, delle nostre terre, del nostro oro. È ora che ci venga restituito qualcosa». Invece anche su di loro ricadono le conseguenze di un debito con i paesi ricchi che loro non hanno mai sottoscritto. Amano la vita, vogliono vivere in pace, ma con dignità. Per questo non hanno alcuna intenzione di lasciarsi intimorire dalle minacce e dalla repressione al punto da titolare il vertice «Popoli e nazionalità indigene, dalla resistenza al potere». Sono arrivati da tutta l'America, del sud e centrale, tranne Costa Rica, Brasile e Paraguay, un'ampia ed eterogenea partecipazione di uomini e donne, tutte impegnatea lottare contro il saccheggio delle multinazionali sui propri territori, anche se distinti in due blocchi.
Da un lato le organizzazioni del Coordinamento indigeno e contadino, dall'altro le ong e la loro promozione di organizzazione sociale. Qualche frizione c'è stata - sulle modalità di intervento, non sul contenuto delle lotte - comunque alla ricerca di un percorso comune, per allontanare dall'intero continente latinoamericano, lo «spirito maligno» di Bush e delle economie neoliberiste che rappresenta.