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Il libro della settimana: Karl Marx, Antologia. Capitalismo, istruzioni per l'uso

di Carlo Gambescia - 21/06/2007

Il libro della settimana: Karl Marx, Antologia. Capitalismo, istruzioni per l'uso, Feltrinelli 2007, pp. XX-268, euro 10,00

Il Marx-pensiero non può essere totalmente liquidato, insieme alla sciagurata esperienza del cosiddetto socialismo reale. Perciò quei lettori, ai quali il solo nome provoca l’orticaria, cerchino di essere pazienti… Chi scrive non è un “marxologo”, ma ha discrete competenze sociologiche, per sottolineare un fatto. Quale? L’importanza, non tanto del Marx profeta e filosofo, quanto del Marx sociologo e critico di una società nelle mani di pochi e ricchi egoisti, e tuttora impregnata di utilitarismo. Con una riserva però: Marx, della politica, in senso forte, se si vuole schmittiano, non ha mai capito nulla. Ci scusiamo per il tono perentorio, ma è proprio così. Come poi vedremo.
Una buona occasione per riparlarne è la pubblicazione di una sintetica raccolta delle sue pagine migliori, a cura di Enrico Donaggio e Peter Kammerer, rispettivamente, docenti universitari di sociologia e filosofia (Karl Marx, Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli 2007, pp. XX-268, euro 10.00).
Si tratta di una raccolta ben costruita. Le introduzioni alle singole parti sono chiare e corredate da bibliografie imparziali. Certo, nessuno si aspetti di trovarvi Del Noce… Ma ad esempio, tra le storie del marxismo viene consigliata quella di Leszek Kolakowski, Nascita, sviluppo e dissoluzione del marxismo (1976-1978, pubblicata in Italia da Sugarco), opera che non fa sconti a nessuno. Inoltre, lo stile dei curatori, postmoderno e autoironico, lascia spazio a una discreta agilità concettuale. Come si denota anche dai titoli dei sei capitoli in cui il libro è diviso, ad esempio: “My name is Marx”; “Il lavoro. Vendersi la vita”; eccetera.
Ci limitamo a indicare un paio di punti, tra i tanti, di attualità sociologica.
Ad esempio su flessibilità e globalizzazione, Marx aveva capito tutto. Il sistema capitalistico si basa sul continuo allargamento dei mercati: l’esistenza del capitale resta legata alla sua espansione illimitata. Dal momento, che se si fermasse, il sistema rischierebbe la paralisi. E il moto perpetuo del capitale, con i suoi alti e bassi, richiedeva (e richiede) ciclicamente, e in termini utilitaristici, una manodopera flessibile e docile. Sempre pronta a cambiare lavoro e funzioni. E, soprattutto, a non contrattare troppo i salari e le garanzie sociali. Scrive Marx in un celebre passo del Manifesto del Partito comunista (1848): “La borghesia elimina sempre di più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo , una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale”. Si tratta di un processo, ancora in atto, come mostrano, ad esempio, la retorica (e la pratica, spesso armata) occidentalista sull’ “One World”, i flussi migratori diretti dall’Africa e dall’Oriente in Occidente… Dove allo stazionario proletariato interno, per dirla con Arnold Toynbee, rischia di affiancarsi un crescente proletariato esterno, mentre il potere economico di concentrarsi, in Occidente, e soprattutto negli Stati Uniti, nelle mani di pochi individui. I ricchissimi “borghesi” di cui parlava Marx.
Anche la critica marxiana alla monocultura degli economisti “borghesi”, oggi diremmo liberisti, è di sconcertante attualità. Per “gli economisti - osserva nella Miseria della filosofia (1847) - esistono due tipi di istituzioni. Le istituzioni del feudalismo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure distinguono due tipi di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è un’emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali - i rapporti di produzione borghese - sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono reggere sempre la società. Così c’è stata storia , ma ormai non ce n’è più”. In fondo, non è esattamente quel che oggi sostengono certi economisti? Quando pontificano di leggi eterne del mercato, di fine della storia e di mercati che votano tutti i giorni?
Tuttavia, e qui veniamo alla sua “impoliticità”: Marx, come certa sociologia positivista ed evoluzionista ottocentesca (da Comte a Spencer ), ma anche come gli economisti borghesi, che pur criticava, riteneva ininfluente il ruolo del “politico”, puntando esclusivamente sull’autosufficenza evolutiva dei meccanismi sociali ed economici. Infatti, nella società futura, da lui immaginata, il ruolo della politica, era destinato, con lo Stato, a scomparire. Il che però non eliminava, di fatto, la necessità di gestire l’inevitabile transizione dalla società borghese a quella comunista. Da Marx “risolto” ricorrendo alla “dittatura del proletariato”. Un fase, che lui, confidando da buon positivista nelle leggi della storia, riteneva però provvisoria. Perché la società, in tempi brevi, si sarebbe liberamente auto-organizzata su basi solidaristiche…
Purtroppo, come sappiamo, non è andata così, perché il potere, come per forza di gravità, tende sempre a ricostituirsi. Perciò, nonostante le profezie, la dittatura del proletariato, come nella Russia Sovietica, rischia sempre di trasformarsi in permanente. Soprattutto se affidata, oggi come ieri, a rivoluzionari di professione, convinti di possedere il segreto della storia. E perciò di poter decidere per gli altri. Marx, insomma, scorgeva gli “alberi” socio-economici, ma non la “forza di gravità” politica, che teneva (e tiene) insieme la foresta…
Pertanto va ancora letto come sociologo e critico della società “borghese” e utilitaristica, di ieri come di oggi, ma sepolto, una volta per tutte, come filosofo della storia e della politica.