Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Hugo Chavez: il petrolio lo gestiamo noi

Hugo Chavez: il petrolio lo gestiamo noi

di Filippo Ghira - 21/06/2007




Il Venezuela di Hugo Chavez ha improntato la sua politica nel nome dell’indipendenza nazionale e contro il colonialismo esercitato dalle compagnie petrolifere straniere, ad incominciare da quelle statunitensi ed anglo-olandesi. Una svolta epocale quella di Chavez che non si è limitato solamente ad una rottura politica nel campo delle relazioni internazionali in un Sudamerica, considerato da sempre da Washington come una propria riserva esclusiva di caccia, in virtù della applicazione della dottrina di Monroe, ma che ha anche agito all’interno della realtà sociale venezuelana tramite la distribuzione alle fasce più indigenti della popolazione di parte degli enormi proventi del petrolio. Il socialismo bolivariano, fatto di redistribuzione del reddito e di avanzamento sociale delle fasce di popolazione sempre ignorate dalle classi dominanti, ha rappresentato una scelta da alcuni considerata troppo di rottura e tale da portare Chavez in rotta di collisione con quello che era considerato la speranza delle masse dei diseredati sudamericani ossia il brasiliano Lula che invece, tradendo le attese, ha trovato non pochi motivi di interessi e di intesa con Gorge W. Bush. Dall’altra parte del mondo in Russia, Vladimir Putin, subentrato ad Boris Eltsin a fine 2000, ha impresso una notevole sterzata alla politica interna ed estera russa, sempre in nome dell’interesse nazionale. Come con la ripresa della corsa agli armamenti per ribadire il ruolo di super potenza della Santa Russia nel mondo, di cui è testimonianza la realizzazione di un missile intercontinentale a testata atomica che, Putin lo ha precisato, è in grado di sfuggire a qualsiasi scudo spaziale statunitense. Ma come Chavez, anche lo zar del Cremlino ha voluto ridurre ai minimi termini in Russia la presenza delle società americane ed in particolare e il peso delle compagnie petrolifere, che era stato realizzato attraverso prestanome. Questi, oltre che di immense risorse finanziarie, arrivate dall’estero, con le quali avevano comprato le imprese pubbliche russe privatizzate da Eltsin, erano dotati anche di doppio o triplo passaporto estero. Da qui la lotta contro gli oligarchi come Guzinski e Berezovski, espropriati e costretti all’esilio. Da qui la lotta contro Michail Khodorkovski, padrone della Yukos, condannato e incarcerato per evasione fiscale. Oltre ad essere stato giustamente espropriato della società che aveva acquistato con i soldi delle compagnie petrolifere americane. Khodorkovski aveva dato il via alla propria rovina quando aveva deciso di rompere il preciso patto stabilito da tutti gli oligarchi prima con Eltsin e poi con lo stesso Putin, ossia che non sarebbe mai entrato in politica.
Ma soprattutto quando aveva apertamente fatto sapere di essere in trattativa con la Exxon-Mobil per la vendita della stessa Yukos. Una sorta di restituzione da parte di Khodorkovski che da un lato avrebbe ridato indietro ciò che di fatto e di diritto non era suo e che dall’altro lato gli avrebbe permesso di entrare in politica dotato di enormi quantità di denaro e cercare di sfidare Putin e candidarsi alle presidenziali del 2008, per poi fare dal Cremlino il burattino degli Stati Uniti più di quanto non avesse fatto lo stesso Eltsin. Una operazione troppo apertamente spudorata in quanto avrebbe significato l’arrivo da padroni degli americani in Russia. Un’ipotesi che non potevano tollerare né Putin né l’ex Kgb, ora Fsb, il vero puntello dello Stato sovietico. Anche per Putin quindi, come per Chavez, l’indipendenza energetica è un tutt’uno con l’indipendenza e la sovranità nazionale. Un approccio che ha spinto entrambi ad assumere in prima persone, attraverso società statali o imprenditori amici eo nazionalisti, l’estrazione di petrolio e gas e non lasciarne più la gestione in esclusiva alle compagnie anglo-americane, o cercando di limitarne molto l’attività. Una consapevolezza che in Putin si rafforza continuamente di fronte alle manovre di accerchiamento della Russia da Ovest e da Sud. Ad occidente i paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica non hanno avuto alcun timore reverenziale nei riguardi di Mosca per entrare sia nell’Unione Europea che nella Nato. Anzi diversi di loro, Polonia in testa, si sono dimostrati pronti e disponibili ad ospitare sul proprio territorio le infrastrutture dello scudo spaziale Usa, missili antimissili compresi. Da Sud invece gli Stati Uniti hanno preso in mano, hanno assunto in prima persona, la gestione di un nuovo Grande Gioco.
Lo stesso che l’impero britannico, prima potenza mondiale dell’Ottocento, conduceva contro la Russia per impedirle l’accesso ai mari caldi. Ora in ballo c’è sempre il petrolio e Washington cerca in tutti i modi di sfruttare il risentimento antico verso Mosca per spingere i paesi del Caucaso e quelli dell’Asia Centrale contro Putin. Una politica che viene realizzata sia attraverso aiuti economici e militari sia attraverso la realizzazione degli oleodotti e dei gasdotti il cui tracciato cerca di bypassare il territorio russo.
Come il Baku-Tbilisi-Ceyhan che tocca i territori azero, georgiano e turco. La rivolta della Cecenia, alimentata dagli Usa e dall’Arabia Saudita, si inserisce in questo tentativo di accerchiamento della Russia al quale Putin ha risposto rafforzando la sua posizione interna e sistemando i conti con oligarchi e petrolieri vari e portandoli dalla propria parte. Dall’altro ha potuto così alzare la voce con gli Stati Uniti e attraverso un gioco di sponda creare rapporti preferenziali con l’Iran e con la Cina. Due legami sempre all’insegna del petrolio. Il territorio iraniano rappresenta per la Russia la possibilità di fare arrivare il proprio petrolio con un oleodotto sottomarino nel Mar Caspio che poi lo porti ai terminali sul Golfo Persico o sul Mare Arabico. La Cina, come potenza economica emergente, e prima rivale degli Stati Uniti, ha bisogno del petrolio russo per poter crescere e svilupparsi ulteriormente. Un petrolio, che per la vicinanza geografica, risulta sicuramente più conveniente di quello arabo sul quale, visti i continui stati di tensione in Medio Oriente, non si può fare totale affidamento. Certo, resta pur sempre il fatto che il petrolio arabo è di migliore qualità di quello russo e di quello dell’Asia Centrale, e quindi richiede di minori processi di raffinazione, oltre ad essere più facilmente estraibile trovandosi a minore profondità. In ogni caso non è un mistero che molti osservatori hanno visto nella guerra condotta dagli Stati Uniti contro l’Iraq non solo un mezzo per eliminare una figura divenuta ormai ingombrante come Saddam Hussein e per mettere le mani sul petrolio irakeno del quale non sono state ancora sufficientemente accertate le riserve che gli esperti stimano essere enormi; ma è stata anche una maniera per lanciare un preciso segnale a Pechino e far comprendere alla Cina che Washington è in grado di condizionare, se non di bloccare, il suo approvvigionamento di petrolio. Questa mossa è stata in ogni caso ben recepita da Pechino che è stata così portata a rafforzare i suoi rapporti con Mosca. Questo nuovo corso è comunque anche una conseguenza dei mutamenti verificatisi nel mercato internazionale di petrolio e gas nel quale oltre alla volontà dei singoli Paesi produttori di riappropriarsi del controllo delle riserve presenti nel sottosuolo, vi sono altri due aspetti che hanno ridisegnato lo scenario complessivo.
Il primo, è l’irrompere sul mercato di nuovi paesi produttori, come quelli che erano inglobati nella ex Unione Sovietica, come Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan, che una volta resisi indipendenti hanno incominciato a muoversi da soli. Il secondo riguarda il trasferimento di una buona parte del potere contrattuale dai Paesi produttori ai consumatori. Infatti, quando la Cina, ma il discorso può valere anche per l’India, acquista enormi quantità di petrolio e di gas, non può non influenzarne il prezzo e dettare in buona misura le condizioni di vendita. E poi Pechino può pagare tranquillamente qualsiasi prezzo senza che ne risenta la concorrenzialità dei propri prodotti, avvantaggiata da un costo del lavoro che è un decimo di quello europeo e americano. Insomma la tendenza è quella di operare sui grandi quantitativi e tale consapevolezza ha coinvolto pure le compagnie petrolifere che hanno dato vita ad una frenetica attività di fusioni e di alleanze. Si è così assistito negli Stati Uniti alla fusione tra la Exxon e la Mobil e tra la Chevron e la Texaco, e in Francia a quella tra Fina, Total ed Elf. Significativo appare quindi il fatto, per quanto riguarda l’Italia, che l’Eni e la Snam abbiano sottoscritto giganteschi accordi con società russe non solo per la ricerca di giacimenti di greggio e di gas, ma anche contratti per la fornitura trentennale di gas al nostro Paese. Un’altra mossa operata da Putin in funzione anti Usa è stata quella di lanciare l’idea di un Opec del gas, di cui la Russia detiene il 16% delle riserve mondiali. Ma non si deve credere che negli Stati Uniti le compagnie petrolifere possano fare il bello e il cattivo tempo. Gli attacchi contro i petrolieri si sono infatti intensificati con l’avvicinarsi della scadenza del mandato di Gorge W. Bush, lui stesso petroliere e membro di una famiglia di petrolieri, e circondato da consiglieri e collaboratori che in quel mondo hanno interessi o vi avevano lavorato. E non si tratta di un problema squisitamente ecologico, essendo gli americani molto sensibili a tali tematiche, ma una replica della campagna antimonopolistica che nel primo decennio del Novecento portò allo spezzatino della Standard Oil dei Rockefeller. Oggi come ieri, un attacco alle majors incentrato sull’accusa di avere creato un cartello che fissa a suo piacimento i prezzi e che quindi condiziona il Mercato. Un’accusa gravissima in un Paese che si vanta di essere la Mecca del Liberismo. C’è però da comprendere che anche con un Presidente democratico alla Casa Bianca, o con un repubblicano non legato agli interessi delle compagnie petrolifere, la politica Usa nel settore cambierebbe ben poco, contrariamente a quello che sperano ad esempio i tifosi di Hilary Clinton. Se infatti le majors Usa fossero indebolite non potrebbero più perseguire, come oggi, i propri interessi e difendere quelli degli Stati Uniti in tutte le zone strategiche del mondo. Gli Stati Uniti senza un’impronta imperiale non sarebbero più gli Stati Uniti.