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Ultime notizie dal mondo

di redazioanle - 21/06/2007


a) USA. Il sistema missilistico USA in Polonia e Repubblica Ceca ancora in primo piano. Al 5 e 6 si indagano le strategie geopolitiche di Washington per il dominio globale nel XXI secolo e si demistifica la funzione difensiva di tale sistema.

 

b) Palestina / Israele. Hamas assume il controllo di Gaza a scapito della fazione filo USA e filo israeliana di Mohammed Dahlan, di al Fatah. Abu Mazen scioglie il governo di unità nazionale e nomina come primo ministro un amico di Washington e degli israeliani. Notizie su questo ed altro al 5, 6, 8, 10, 12, 13, 14 e 15.

 

c) Libano. Sempre più sull’orlo della destabilizzazione il Paese dei Cedri. Il perché della “bomba a tempo” del Tribunale internazionale sulla morte di Hariri, deciso dal Consiglio di Sicurezza ONU. Inoltre vedi i progetti USA di base militare e di “irachizzazione” del Paese al 1, 7 e 12 giugno.

 

Sparse ma significative:

 

·     Euskal Herria. ETA «sospende» il cessate il fuoco. Repressione, criminalizzazione, non volontà del governo socialista spagnolo (e del PNV basco) di trovare una soluzione politica effettiva e democratica al conflitto nei Paesi Baschi. Vedasi 4 e 6 giugno.

 

·     Bulgaria / USA. Il ruolo fondamentale di Sofia nella strategia di riposizionamento delle forze statunitensi in Europa. Al 12 il resoconto della vista di Bush in Bulgaria.

 

·     Turchia. Il Kurdistan iracheno e l’atteggiamento verso l’Iran producono tensioni tra Ankara e Washington. La lotta al PKK ha tra l’altro ripercussioni sui (tesi) equilibri politici interni al paese, spaccato tra gli islamici moderati dell’AKP ed i partiti sciovinisti. Cfr notizie all’1, 4, 8 e 13.

 

·     Iraq. La situazione militare per Washington si fa sempre più preoccupante (4, 6, 8 e 12 giugno). In questo scenario ecco verificarsi un nuovo attentato alla moschea di Samara (13 giugno), su cui c’é chi accusa esplicitamente Washington (15 giugno). Intanto, l’ONU prolunga di sei mesi il mandato delle forze d’occupazione (14 giugno).

 

 

Tra l’altro:

 

Kirghizistan (1 giugno)

Francia (2 giugno)

Venezuela (3, 4, 7, 9 e 12 giugno)

Nicaragua (4, 10 e 11 giugno)

Iran (4, 5, 11, 12, 13, 14 e 15 giugno)

Ecuador (12 giugno)

 

 

  • Kosovo. 1 giugno. Inaccettabile l’indipendenza “sorvegliata” di Pristina. Il rappresentante russo all’ONU, Vitaly Churkin, ha dichiarato alla BBC che, nonostante le modifiche apportate, il progetto di risoluzione per un’indipendenza “monitorata” dall’UE della regione kosovara è inaccettabile. Churkin ha anche aggiunto che il suo Paese potrebbe porre il veto al Consiglio di Sicurezza. Il nuovo testo della risoluzione ammorbidisce alcune questioni critiche della precedente proposta e prevede un nuovo rappresentante che si occupi di favorire il ritorno dei rifugiati, soprattutto serbi, che hanno lasciato il Kosovo. Il Kosovo è sotto amministrazione ONU dall’aggressione NATO del 1999, anche se formalmente la regione rientra nello Stato serbo.

 

  • Turchia. 1 giugno. Il Parlamento turco ha approvato ieri, in seconda lettura, la riforma costituzionale per l’elezione del presidente della Repubblica a suffragio universale invece dell’attuale sistema di votazioni alla Camera dei Deputati. La riforma include un pacchetto di misure, tra le quali figura che le elezioni legislative si celebrino ogni quattro anni invece di ogni cinque e che si riduca il quorum necessario perché una sessione parlamentare sia valida. Queste misure saranno inviate al presidente della Repubblica, Ahmet Necdet Sezer, che lo scorso venerdì si è già rifiutato di ratificarle. Giacché il Parlamento gliele ha rimandate, a Sezer non resta altra scelta che accettare la riforma o sottoporla a un referendum popolare.

 

  • Turchia / Kurdistan. 1 giugno. Il capo di Stato maggiore dell’esercito turco, il generale Yasar Buyukanit, ha ribadito ieri la necessità di invadere il Kurdistan Sud –integrato in Iraq– per attaccare sia le basi del PKK sia il presidente dell’autonomia kurda, Masud Barzani. Buyukanit ha denunciato che alleati della Turchia, come Stati Uniti ed Unione Europea, «appoggiano direttamente o indirettamente il PKK» e ha lamentato che «non possiamo ricevere appoggio internazionale nella nostra legittima lotta al terrorismo».

 

  • Libano. 1 giugno. Minacce imperiali dietro la creazione del tribunale speciale sulla morte dell'ex presidente libanese, Rafic Hariri, e di «altre personalità antisiriane». La risoluzione 1757 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dell’altro ieri ha spaccato la società di questo paese arabo. L’opposizione (soprattutto Hezbollah) maggioritaria nel paese la bolla come «un attacco alla sovranità libanese» e denuncia come ad un’attenta analisi sia «contraria agli statuti internazionali e alla stessa carta delle Nazioni Unite». Detto Tribunale Speciale per il Libano, infatti, invoca il capitolo VII della Carta dell’ONU, che concerne le minacce alla pace e alla sicurezza mondiale e prevede sanzioni e l’intervento militare in caso di «oltraggi». Una misura che, è opinione diffusa non solo nel paese, «viola la sovranità del Libano e potrebbe destabilizzare il paese». La risoluzione è stata adottata sotto le pressioni di Stati Uniti e Francia (dieci voti a favore e cinque astensioni: Russia, Cina, Sudafrica, Indonesia e Qatar). Perché il provvedimento fosse approvato era necessario che ricevesse almeno 10 voti favorevoli e nessun voto contrario da parte dei cinque membri permanenti (USA, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna). La data di inizio dei lavori del tribunale sarà stabilita dal segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon, tenendo conto dei progressi della commissione d’inchiesta internazionale. Secondo fonti diplomatiche, tuttavia, le lunghe procedure burocratiche potrebbero ritardare anche di un anno l’inizio dei lavori. Il collegio sarà composto da due giudici stranieri e uno libanese in primo grado e da cinque giudici (di cui due libanesi) in appello. Il processo sarà celebrato lontano dal Libano: tra le sedi più probabili Olanda, Cipro ma anche Italia.

 

  • Libano. 1 giugno. Il paese è spaccato anche a livello istituzionale. Nonostante l’esecutivo del filo-occidentale Siniora abbia dato la sua approvazione al tribunale, il presidente del Parlamento, Nabih Berri, si è rifiutato di convocare il parlamento per ratificare il Tribunale. Anche il presidente del paese, Emile Lahoud, ha assicurato che non lo appoggerà. La nuova risoluzione, fortemente invocata dal primo ministro, scavalca la Costituzione libanese, che richiede l’approvazione da parte del parlamento, ed entrerà in vigore automaticamente. Nabih Berri, presidente del Parlamento e leader sciita alleato di Hezbollah, sostiene che il Consiglio di Sicurezza ha ignorato la Costituzione libanese. Berri, che rileva l’incostituzionalità del governo di Siniora dopo le dimissioni di sei ministri, cinque dei quali sciiti, da tempo si rifiuta di convocare il Parlamento. In base agli accordi di Taif, che posero fine alla guerra civile, tutte le “comunità” libanesi devono essere rappresentate nel governo.

 

  • Libano. 1 giugno. «Gli Stati Uniti svolgono un ruolo dannoso per il Libano, promuovendo il caos e la discordia e limitando, in questo modo, le potenziali soluzioni». Così lo sceicco Mohammed Hussein Fadlallah, uno dei massimi dignatari sciiti libanesi, ha accusa Washington di voler impedire una soluzione alla crisi politica che attraversa il paese arabo. Questa dichiarazione l’ha resa alla stampa dopo un incontro con l'ambasciatore svizzero, François Barras, il cui paese stava promuovendo un dialogo tra libanesi, dialogo interrotto dallo scorso novembre dopo le dimissioni di sei ministri, cinque dei quali sciiti, ore prima dell'approvazione, da parte del governo, della creazione di detto Tribunale.

 

  • Kirghizistan. 1 giugno. Bishkek non permetterà agli USA di usare la base aerea di Manas contro l’Iran. Come reso noto da Ria Novosti il 24 maggio scorso, il primo ministro kirghizo ha dichiarato che il suo paese impedirà agli USA di attaccare Teheran dal proprio paese. Ubicata a 30 chilometri a sud di Bishkek, la base aerea di Manas rimane la sola base USA nell’Asia Centrale da quando l’Uzbekistan ha allontanato le truppe di Washington dal suo territorio nel 2005. «Non è previsto che la base aerea di Manas possa essere usata per effettuare incursioni in Iran o in Iraq. Tutto deve svolgersi nell’ambito dell’accordo» “contro il terrorismo”, ha dichiarato ai giornalisti Almaz Atanbayev, precisando che il Kirghizistan non intende interromperlo. «È un accordo molto complesso, ed è praticamente impossibile scioglierlo».

 

  • Kirghizistan. 1 giugno. Gli Stati Uniti si sono installati militarmente nella regione nel 2001, usando la base aerea nel Kirghizistan come punta di lancia per operazioni in Afghanistan, che gli USA avevano invaso per far cadere i taliban sfruttando l’onda emotiva suscitata dall’11 settembre. La base aerea USA di Manas ospita 1.000 soldati USA con quattro aerei cargo che appoggiano le “operazioni antiterrorismo” in Afghanistan. Il comitato parlamentare per la difesa e la sicurezza intende mettere in discussione l’accordo. Richieste al governo kirghizo di chiudere la base erano state avanzate per la prima volta lo scorso anno in seguito ad una serie di incidenti, compresi l’uccisione di un cittadino kirghizo e la collisione di un aereo con un aerocisterna statunitense, che avevano coinvolto militari USA. Anche il Cremlino ha esercitato in tal senso notevoli pressioni su Bishkek. Mosca, tra l’altro, preoccupata della presenza militare USA e NATO a ridosso delle sue frontiere nella regione centro-asiatica, storicamente sotto la propria sfera di influenza, ha una propria base militare in Kirghizistan, istituita come contrappeso a quella USA di Manas. È la base di Kant, circa 20 miglia a ovest della capitale kirghiza, che attualmente impiega circa 500 militari, 20 aerei da combattimento e da trasporto ed elicotteri.

 

  • Argentina / Italia. 1 giugno. Mapuche accusano Benetton di aver danneggiato i loro diritti di base. La denuncia è del portavoce della comunità mapuche della località argentina di Santa Rosa-Leleque, Mauro Millán. L’arrivo (1991) del gruppo tessile italiano Benetton nel paese ha portato «riduzione e compressione dei diritti di base di questa comunità indigena». Tra le accuse, anche quella di aver usurpato terre: Benetton è «il maggiore latifondista in Argentina, con oltre 970mila ettari di terreni che arrivano fino in Patagonia, dove ricava il 10% della sua produzione di lana». Questo con «la complicità» di Benetton con settori politici, economici e la Giustizia.

 

  • Gran Bretagna / Israele. 2 giugno. Accademici britannici lanciano un appello al boicottaggio contro le università israeliane. La protesta degli Accademici del Sindacato Britannico dei Docenti e Collegi, comunicata ieri –dopo l’approvazione– al congresso annuale del sindacato, è originata dal comportamento di Israele verso i palestinesi. Il boicottaggio prevede, tra le altre misure, che gli accademici britannici non partecipino alle conferenze organizzate da Israele e cessino di scrivere sui quotidiani israeliani. Nella mozione si invita alla riflessione circa le «implicazioni morali» dei vincoli con le università israeliane, che sono «complici» delle politiche di Israele e degli abusi contro i diritti umani nella Striscia di Gaza e Cisgiordania.

 

  • Francia. 2 giugno. L’Unione Mediterranea: è il nuovo conglomerato geopolitico che il neo presidente Nicolas Sarkozy intende promuovere. Secondo i suoi propositi, si tratterebbe di una nuova organizzazione internazionale dotata di istituzioni autonome e aperta a tutti i Paesi del bacino del Mediterraneo, in ultima istanza volta a promuovere gli interessi francesi a livello internazionale. La Francia esercita ancora un ruolo di primo piano, sotto il profilo politico ed economico, nei paesi del Maghreb (Algeria, Marocco, Tunisia). Il rafforzamento della “cooperazione” nel Mediterraneo permetterebbe a Parigi di consolidare la sua leadership in un’area di interesse strategico.

 

  • Francia. 2 giugno. Il processo di integrazione fra le due sponde del Mare Nostrum, iniziato nel 1995 con la conferenza di Barcellona con l’obiettivo di creare una zona di libero scambio entro il 2010, non ha finora avuto successo. Un fallimento imputato alla formula scelta dal processo di Barcellona, che prevedeva la partecipazione paritaria di tutti gli Stati membri della UE, conferendo anche a quelli dell’Europa settentrionale ed orientale i medesimi obblighi e diritti di quelli che si affacciano sul Mediterraneo. Ne è conseguito che il meccanismo si è inceppato sia per il numero eccessivo di membri, sia perché i Paesi non mediterranei non hanno avuto interesse a portare avanti il programma. Il piano francese prevede invece la partecipazione di un numero molto più ristretto di Stati, tutti mediterranei. Inoltre si vorrebbe costituire un’organizzazione modellata sullo stile dell’Unione Europea, dotata di istituzioni proprie e perfino di una Banca del Mediterraneo, incaricata di finanziare investimenti per la “promozione dello sviluppo” nelle aree più povere. Con questa nuova organizzazione regionale si darebbe una decisiva accelerazione verso la creazione di quella zona di libero scambio nel Mediterraneo che rappresenta l’obiettivo finale del Processo di Barcellona. L’Unione Mediterranea diventerebbe così un anello di congiunzione fra la UE e i rimanenti Stati dell’Africa continentale. Il tutto, ovviamente, sotto l’egida in ultima istanza di Washington.

 

  • Ucraina. 2 giugno. Il Parlamento approva le elezioni anticipate. Il 30 settembre si svolgeranno dunque le nuove elezioni legislative, come da accordo tra il presidente ucraino filo USA Viktor Yushenko ed il filo russo Yanukovic, dopo le tensioni della scorsa settimana culminate con una marcia di truppe filo Yushenko verso Kiev.

 

  • India / USA. 3 giugno. Conclusi i colloqui tra India e USA sulla collaborazione nucleare. Nonostante i passi avanti nelle trattative, le due parti non sono arrivate ad un accordo definitivo. Secondo la proposta di Washington, l’India avrebbe ricevuto tecnologia e combustibile nucleari dagli USA in cambio dell’apertura dei propri impianti alle ispezioni internazionali: una clasuola che l’India vede come lesiva della propria sovranità. Nuova Delhi, cosi come Tel Aviv, non ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare, a differenza invece di Teheran.

 

  • Venezuela. 3 giugno. Appoggio a Chávez. Decine di migliaia di manifestanti pro-Chávez hanno manifestato ieri nella capitale, Caracas, per esprimere il loro consenso alla decisione di non rinnovare la licenza all’emittente venezuelana Radio Caracas Televisión (RCTV). Oggi lo stesso Chávez ha accusato gli USA di voler orchestrare un “colpo di Stato soft” proprio grazie alla manipolazione dei mezzi di informazione venezuelani. L'opposizione è totalmente spiazzata a tal punto da aver annullato la propria manifestazione. Troppo pochi.

 

  • Venezuela. 3 giugno. Il mancato rinnovo della concessione a Radio Caracas Televisión (RCTV), l’emittente che apertamente chiedeva il rovesciamento di Chávez e che l’11 aprile 2002 sostenne il colpo di Stato sponsorizzato da Washington, ha fatto il giro del mondo, suscitando le proteste dei «difensori della libertà di stampa». Le autorità venezuelane, scaduta la licenza ventennale il 27 maggio scorso, non hanno ritenuto di rinnovare la concessione per due ragioni: violazione reiterata delle leggi venezuelane e volontà di rompere i monopoli anche nel campo dell’informazione, al di là del livello bassissimo delle programmazioni (talk-show di infimo livello, trasmissioni pornografiche a volontà e per giunta in orari non protetti, telenovele a ripetizione). Quindi, hanno precisato, nessuna espropriazione, nessuna censura, nessuna repressione della stampa. Solo applicazione della legge. RCTV continua ad essere padrona delle sue strutture, dei suoi diritti d’autore, continua a tenere i suoi stessi impiegati e potrà trasmettere via cavo e via internet, realizzare produzioni, esportare telenovelas o quel che voglia. Dal 28 maggio, intanto, ha iniziato le sue trasmissioni Televisora Venezolana Social (TVes), un canale del servizio pubblico con «partecipazione sociale e cittadina che promette di aprire i suoi schermi a produzioni indipendenti e organizzazioni sociali». Qualche dato, infine, sui mezzi di comunicazione in Venezuela: su 709 radio 706 appartengono a imprese private e su 81 canali televisivi solo 2 sono statali. Per i quotidiani: 12 a tiratura nazionale e 106 regionali sono tutti in mani private.

 

  • Euskal Herria. 4 giugno. «Preoccupazione» è stata espressa ieri, a Bilbo (Bilbao), dalla sinistra abertzale, per la situazione del processo politico, definito «grave, di blocco». Ieri Jone Goirizelaia, una esponente del direttivo di Batasuna, ha stigmatizzato l’atteggiamento di PSOE (socialisti) e PNV (autonomisti baschi) che «si sono alzati dal tavolo della negoziazione e hanno detto no a tutte le proposte, alla soluzione, al diritto a decidere». Quel che importa ai partiti di Zapatero e Imaz, ha aggiunto, «è mantenere le loro poltrone». Nonostante ciò, la sinistra indipendentista non getta la spugna e «mantiene impegno, intenzione e volontà nel proseguire a fare tutto quello che sta nelle sue possibilità per arrivare veramente ad una soluzione del conflitto politico in chiave democratica».

 

  • Sahara Occidentale. 4 giugno. Marocco e Fronte Polisario avvieranno i prossimi 18 e 19 i negoziati per risolvere il conflitto del Sahara Occidentale. L’annuncio è venuto dalla portavoce dell’ONU Marie Okabe. Alle negoziazioni parteciperanno anche «i paesi vicini»: chiara allusione ad Algeria e Mauritania.

 

  • Somalia / USA. 4 giugno. «Operazioni sono in corso (in Somalia, ndr) e non intendo commentarle». Così, ieri, la Reuters, sulle operazioni di guerra in Somalia, riferiva le parole del capo del Pentagono, Robert Gates, a margine della conferenza regionale sulla sicurezza a Singapore. Almeno 8 miliziani sarebbero stati uccisi nel corso di un’operazione delle forze di sicurezza somale coperte dal fuoco di appoggio di una nave da guerra USA ormeggiata al largo delle coste del Paese, rivelano oggi le autorità del Puntland somalo.

 

  • Turchia / Kurdistan. 4 giugno. L’esercito turco bombarda obiettivi kurdi all’interno della frontiera irachena. Lo denuncia l’agenzia stampa Firat. La zona colpita ieri è quella di Hakurk, circa 15 km dalla frontiera con la Turchia. Il Pentagono ha già avvertito i suoi «amici» di Ankara dall’astenersi da interventi in territorio kurdo integrato in Iraq. Lo ha ribadito ieri alle autorità turche, da Singapore, dove ha partecipato ad una conferenza sulla sicurezza, il capo del Pentagono, Robert Gates: «confido che non si produca alcuna azione militare unilaterale attraverso la frontiera e dentro l’Iraq». Gates ha anche espresso «preoccupazione per gli attacchi» della guerriglia del PKK. Ankara intanto ha denunciato ripetute violazioni dello spazio aereo turco da parte di cacciabombardieri statunitensi, che, secondo alcuni analisti, sarebbero manovre di avvertimento da parte di Washington.

 

  • Iraq. 4 giugno. Il tanto strombazzato “piano di sicurezza” USA per Baghdad riesce a “controllare” solo un terzo dei suoi quartieri (146 su 457). Il The New York Times riferisce del deludente bilancio formulato da un rapporto interno dell’esercito statunitense a tre mesi dall’incremento di truppe nella capitale dell’Iraq occupato. La violenza sarebbe diminuita in alcune zone, ma in altre, come le zone sunnite e sciite nell'ovest di Baghdad, la situazione sarebbe critica. Migliaia di iracheni sono stati uccisi a partire da febbraio, e anche per le forze statunitensi il bilancio del mese di maggio è grave: 127 sono i soldati morti, il numero più alto dall’invasione del Paese, nel marzo del 2003. Ventimila soldati statunitensi di rinforzo sono stati dispiegati per cercare di rispondere alla crisi nell’ambito di detto piano di sicurezza.

 

  • Sri Lanka. 4 giugno. Decine di morti in scontri tra esercito e guerriglieri delle Tigri Tamil. Decine di soldati e di combattenti tamil sono morti ieri negli intensi scontri registrati nel nord dello Sri Lanka. Il portavoce delle Tigri per la liberazione della Patria Tamil (LTTE), Irasiah Ilanthirayan, ha parlato di 20 soldati morti e altri 40 feriti. 18, invece, i guerriglieri morti nei combattimenti contro le postazioni dell’esercito nel distretto di Vavunya.

 

  • USA / Turchia / Iran. 4 giugno. Teheran è la prossima sfida per i legami turco-statunitensi. Lo scrive, sul Turkish Daily News, Ilan Barman, vice presidente per la politica all’American Foreign Policy Council di Washington. Berman descrive il quadro instabile in Medioriente sottolineando alcuni punti. Il primo è le aspirazioni al nucleare nella regione, che non riguarda solo l’Iran, ma almeno altri otto Paesi: Arabia Saudita, Oman, Qatar, Bahrain, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Yemen ed Egitto, che a vario grado hanno mostrato interesse al nucleare. E le autorità iraniane hanno più volte annunciato pubblicamente l’intenzione di condividere i progressi sul nucleare realizzati dal suo Paese con altri Stati islamici. Il secondo riguarda l’equilibrio di potere della regione. L’invasività di Washington sembra aver prodotto paradossalmente l’aumento dell’influenza di Teheran nel Golfo. «Le loro scelte strategiche la dicono lunga sulla mancanza di fiducia tra i Paesi della regione per la prolungata presenza americana in quest’area. E anche prima di qualunque importante cambiamento nella politica statunitense, si può prevedere che la risultante inclinazione verso Teheran rende il Golfo Persico sempre meno ospitale per gli Stati Uniti e i loro alleati». Anche la tenuta della libanese Hezbollah, della palestinese Hamas e dell’Esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr sono un segno dell’importanza che Teheran ricopre negli equilibri geopolitici nell’area.

 

  • USA / Turchia / Iran. 4 giugno. In questo scenario, la Turchia si trova per Barman davanti ad una svolta. Ankara «potrebbe giocare un ruolo strategico importante nell’imminente resa dei conti con la Repubblica Islamica fungendo da protezione contro la proliferazione da e verso l’Iran nel Mediterraneo orientale, e da contrappeso» all’influenza di Teheran anche nel Caucaso e nell’Asia centrale. Secondo Berman, «anche se decidesse di non farlo, il sostegno della Turchia per un contenimento serio dell’Iran (tramite sanzioni economiche e scomunica diplomatica) servirebbe a riparare i legami deteriorati tra Ankara e Washington». Invece, ammonisce Barman, «se il suo crescente rapporto con l’Iran rende la Turchia sempre più inaffidabile come partner degli Stati Uniti, i legami strategici sono destinati a soffrire. Qualunque cosa il governo turco decida alla fine, farebbe bene a riconoscere che, se negli ultimi quattro anni l’Iraq ha dettato legge nel rapporto tra Turchia e America, è probabile che l’Iran detti le condizioni delle relazioni bilaterali per i prossimi quattro. E farebbe ancora meglio a iniziare a prepararsi di conseguenza».

 

  • Nicaragua. 4 giugno. Significativo tour all’estero per Ortega. Parte oggi il viaggio che, su un aereo messo a disposizione dalla Libia, porterà il presidente del Nicaragua Daniel Ortega dall’Africa settentrionale a Teheran, da Roma a Cuba. Dieci giorni di visite ufficiali con prima tappa a Caracas. Ortega ha aderito all’ALBA (Alternativa Bolivariana per le Americhe), l’organizzazione creata da Chàvez per contrapporsi all’ALCA (Area di Libero Commercio per le Americhe) filo-statunitense. Dal Venezuela, Ortega si sposterà in Algeria, Libia e Iran dove incontrerà i rispettivi capi di Stato per intensificare una serie di accordi volti a risollevare la situazione economica del suo Paese. In Italia Ortega intende invece incontrare gli imprenditori interessati a investire in Nicaragua nei settori del turismo e delle infrastrutture. Ultimo scalo, L’Avana per un incontro con Fidel Castro.

 

  • Brasile / Venezuela. 4 giugno. Pace fatta con Caracas. «Hugo Chávez è sempre stato un alleato del Brasile e i due paesi hanno molti progetti congiunti», ha dichiarato Lula in un’intervista alla BBC. Si chiude, così, l’incidente innescato dalle dure critiche mosse a Chávez da senatori brasiliani che si erano espressi contro il mancato rinnovo della concessione a RCTV. Secondo alcune fonti, il contrasto è comunque servito al presidente del Senato brasiliano, Renan Calheiros, per far dimenticare il grave caso di corruzione in cui è coinvolto e che lo ha messo in crisi anche a livello familiare (con i soldi delle tangenti avrebbe pagato i conti della sua ex amante). Il nuovo scandalo ha già colpito numerosi funzionari pubblici ed ora ha raggiunto le forze dell’ordine: la giudice Eliana Calmon ha deciso la rimozione di tre comandanti della polizia federale, tra cui il numero due dell’istituzione, con l’accusa di aver ostacolato le indagini.

 

  • Macedonia. 5 giugno. Il presidente macedone, Branko Crvenkovski, ha annunciato che il suo paese è pronto a diventare un membro effettivo della NATO e, in futuro, dell’Unione Europea, con il nome di Fyrom, se la disputa sulla denominazione della repubblica non sarà risolta. La Macedonia, indipendente dal 1991, fu costretta ad adottare l’acronimo di Fyrom (Former Yugoslavian Republic of Macedonia) per un contenzioso diplomatico con la Grecia, la quale teme che la denominazione di Macedonia implichi rivendicazioni territoriali sulla sua omonima provincia settentrionale.

 

  • Russia. 5 giugno. Putin promette «mezzi di risposta adeguati» al sistema missilistico USA che mira a «impedire un maggior avvicinamento tra Russia e l’Unione Europea». Il presidente russo minaccia di puntare propri missili (senza specificare se balistici o da “crociera”) verso l’est Europa se gli USA proseguono con il loro piano di “scudo” antimissilistico in Polonia e Repubblica Ceca. «È evidente. Se parte del potenziale nucleare strategico USA sta in Europa e, secondo i nostri esperti, rappresenta una minaccia, dovremo adottare mezzi di risposta», ha affermato Putin in una riunione con giornalisti stranieri dei paesi del G7 a Mosca. Il presidente russo ha tenuto a sottolineare che Mosca sta perfezionando il proprio sistema nucleare strategico (come evidenziato del resto dal lancio della settimana scorsa di un missile intercontinentale) ma che non intende cadere nell’errore dell’URSS di iniziare una corsa agli armamenti. «Abbiamo appreso la lezione (...) Risponderemo efficacemente con un sistema molto più economico. È quella che si chiama risposta asimmetrica», ha aggiunto.

 

  • Palestina. 5 giugno. «Quaranta anni dopo siamo sempre qui». Traccia un bilancio di quattro decenni sotto occupazione israeliana, Mustapha Barghouti, ministro dell'informazione ed esponente di spicco palestinese, intervistato oggi da il Manifesto. Un’occupazione riferita ai Territori conquistati e colonizzati da Israele nel 1967. Una colonizzazione che non si ferma, così come la confisca di terre, con oltre tre milioni di palestinesi che vivono prigionieri nelle loro città in Cisgiordania e a Gaza. Il muro annette di fatto terre a Israele, il governo dell'ANP (Autorità Nazionale Palestinese) rimane isolato e l'economia, strangolata dall'assedio militare, affonda trascinando nella miseria centinaia di migliaia di persone. «Tante cose sono cambiate in questi 40 anni, tranne una, il rifiuto dei palestinesi dell'occupazione. Le politiche di Israele hanno stravolto la nostra terra, la repressione ci ha colpito con durezza, ma nonostante tutto il nostro popolo rimane determinato a raggiungere la libertà», afferma Barghouti. Secondo lui «il risultato più importante (ottenuto dai palestinesi con le loro lotte, ndr) è stato l'aver tenuto la questione palestinese e la lotta del nostro popolo al centro dell'attenzione dei mezzi d'informazione e sui tavoli diplomatici che contano. E da questo punto di vista la prima Intifada (1987-93, ndr) ha rappresentato il momento più importante per la nostra causa. Certo, i risultati che abbiamo avuto in tutti questi anni sono stati decisamente inferiori rispetto alle nostre aspettative ma in ogni caso abbiamo evitato il rischio di sparire dall'agenda politica mondiale. Siamo qui a reclamare i nostri diritti».

 

  • Palestina. 5 giugno. Il futuro immediato non lascia molte speranze di miglioramento alla condizione palestinese, prosegue Mustapha Barghouti nell’intervista di oggi a il Manifesto. «Il completamento di quel sistema di apartheid che Israele sta creando nei Territori occupati mentre il mondo sta a guardare. La situazione davanti a nostri occhi è chiara e come ha detto anche l'ex presidente americano Jimmy Carter, un sistema di apartheid si realizza quando un popolo ne opprime un altro che vive nella stessa area geografica in tutti i modi. Segnali importanti del sistema di segregazione che si sta realizzando sono gli infiniti privilegi, tra cui persino un sistema stradale alternativo, di cui godono i 460mila coloni israeliani rispetto ai palestinesi, i 543 posti di blocco militari che controllano e dirigono la vita di milioni di persone sotto occupazione e la costruzione di un muro che nega la possibilità di una vita normale a centinaia di migliaia di palestinesi. A ciò va aggiunto anche l'accesso alle risorse naturali delle zone occupate che favorisce ampiamente gli israeliani, come la distruzione dell'acqua: un colono ha diritto annualmente a 2.300 metri cubi di acqua contro i 50 che vanno a un palestinese. E non è certo un caso che il Pil israeliano sia 30 volte superiore a quello palestinese».

 

  • Iran. 5 giugno. «La barzelletta dell’anno». Così il capo negoziatore iraniano per il nucleare Ali Larijani ha commentato ieri la giustificazione fornita da Washington per l’installazione dello scudo anti missile in Europa, e cioè la necessità di intercettare eventuali missili lanciati dall’Iran contro il Vecchio Continente. «La portata dei missili iraniani non è in grado di raggiungere nemmeno l’Europa, ed è sorprendente che gli americani di una cosa del genere non siano a conoscenza», ha sottolineato Ali Lariani. «L’Europa è il nostro maggiore partner commerciale, e qual è quindi la logica in base alla quale noi dovremmo fare qualcosa di simile, come prenderla di mira?», ha aggiunto il diplomatico iraniano che ha poi accusato gli USA di voler «destabilizzare a suo favore gli equilibri strategici nel mondo».

 

  • Cina. 5 giugno. Pechino appoggia Mosca sulla questione “scudo”. La Cina si è unita oggi alla Russia nelle critiche rivolte al progetto statunitense di un sistema missilistico di difesa europeo, dichiarandosi preoccupata per le ripercussioni sui rapporti tra le grandi potenze e la corsa al riarmo che potrebbe generare. La dichiarazione è stata rilasciata dal ministro degli Esteri cinese, Jiang Yu. La Casa Bianca sta progettando di dispiegare un sistema radar sul territorio della Repubblica Ceca e una base per l’intercettazione di missili in Polonia, progetto che la Russia ha dichiarato di percepire come una diretta minaccia contro la sua integrità territoriale.

 

  • USA. 5 giugno. Torna la guerra fredda? La minaccia di Vladimir Putin di puntare i missili russi verso l’Europa in risposta al sistema anti-missili USA in Polonia e Repubblica Ceca, insieme alla prospettiva ventilata dalla amministrazione Bush di mantenere una presenza militare pluridecennale in Iraq (sul modello dell’esperienza coreana), ad alcuni ricordano la vecchia “guerra fredda”. Gli analisti che paventano un futuro conflitto tra USA e Russia si rifanno in particolare alle teorie di un classico della geopolitica dei primi del Novecento: Halford Mackinder, secondo cui il futuro cuore geopolitico del mondo (“Heartland”) si sarebbe situato nel centro dei due continenti europei ed asiatico. Controllare l’Europa orientale avrebbe significato dominare l’Heartland, quindi il blocco “eurasiatico”-africano e di conseguenza il mondo. Sulla scorta dell’insegnamento di Mackinder, lo studioso USA Michael Klare, nel suo articolo ‘The new geopolitics’ (Monthly Review, luglio-agosto 2003), ipotizza che la politica estera USA, dalla guerra ispano-cubano del 1898 ai giorni nostri, sia sempre stata architettata in base a imperativi geopolitici. Secondo questa visione, per tutto il Novecento gli USA sarebbero stati impegnati a impedire la nascita di una potenza continentale nella cosiddetta “Eurasia”. La seconda guerra mondiale sarebbe stata combattuta per evitare un’alleanza Germania-Giappone. La dottrina del contenimento, invece, sarebbe stata elaborata durante la guerra fredda per prevenire il dominio sui due continenti dell’URSS. Attraverso la stipulazione di una serie di alleanze, gli USA avrebbero militarizzato il bordo occidentale (Europa), orientale (Giappone) e meridionale (Medio Oriente) della cosiddetta “Eurasia”, appunto per scongiurare questa eventualità.

 

  • USA. 5 giugno. Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 avrebbe rappresentato una duplice svolta negli equilibri geopolitici. Da quel ‘big bang’ nacque il monopolio globale USA ma contestualmente si liberarono nuove forze, che a lungo andare potrebbero rappresentare una sfida al dominio di Washington. La storia delle relazioni internazionali post-1991 tracciata da Klare si spiegherebbe come il tentativo di Washington di preservare il suo status di incontrastata potenza mondiale. Per conservare questa posizione gli USA avrebbero elaborato dottrine come quella della “guerra preventiva”. Sicuri ormai di avere un retroterra strategico stabile in Europa occidentale e dominando ancora l’Oceano Pacifico, gli Stati Uniti avrebbero rivolto il proprio interesse verso il Golfo Persico e il bacino del Caspio, considerate le due aree del globo più strategiche, in quanto in esse è concentrata la stragrande maggioranza delle risorse energetiche mondiali. La prima e la seconda guerra del Golfo e la cosiddetta “lotta contro il terrorismo” si inquadrerebbero dunque nel tentativo USA di espandersi verso l’Heartland di Mackinder. Osservando la mappa geografica, si può notare, in effetti, come dal 1991 in poi la vecchia “cortina di ferro”, che andava da Trieste a Stettino, si è andata estendendo verso est, distendendosi dalle repubbliche baltiche fino al confine ucraino-rumeno e divenendo trampolino di lancio dell’espansione USA verso l’Asia Centrale. Se nell’Oceano Pacifico il limite degli interessi USA è rimasto sostanzialmente invariato (dall’Australia settentrionale alle Aleutine, passando per le Filippine e il Giappone), diversa la situazione nell’area del Golfo Persico. Se all’epoca dello scontro con l’URSS il contenimento USA nella sezione meridionale dei continenti europeo ed asiatico andava dal confine orientale turco a Israele, alla penisola arabica sino all’isola di Diego Garcia nell’Oceano Indiano (dove si trova una grande base USA), ora questo si è spostato verso nord-est, lungo una linea che va dalla Georgia all’Iraq, prosegue per gli emirati del Golfo Persico, per giungere infine in India. In questa ottica l’Afghanistan rappresenterebbe l’avanguardia della penetrazione USA in Asia Centrale, così come la base militare USA di Manas, nel Kirghizistan. Dalla fine del 2001 al novembre 2005, Washington ha mantenuto una base anche in Uzbekistan, godendo inoltre di diritti di sorvolo militare nei cieli del Kazakistan e del Tagikistan nell’ambito della “guerra al terrorismo”. Altro aspetto non da sottovalutare, la strategia di progressivo avvicinamento all’India, con la quale gli USA hanno stretto importanti accordi in materia nucleare. Per gli USA, l’India rappresenterebbe un contrappeso meridionale all’espansionismo della Cina, soprattutto dopo che i cinesi hanno stabilito diverse basi commerciali sulle coste della Birmania, del Bangladesh e del Pakistan.

 

  • USA. 5 giugno. Ci sono comunque dei nodi da rilevare in questo quadro. Neppure la superpotenza USA ha i mezzi per far fronte a un impegno su scala planetaria. Le nuove direttrici di espansione lasciano alle spalle delle retrovie con fronti ancora caldi, la cui mancata risoluzione può destabilizzare gli eventuali progetti di penetrazione in Asia Centrale. In Europa, ad esempio, l’Ucraina è a metà tra USA e Russia. Nella polveriera caucasica, la Georgia si trova a duellare con la Russia sul destino di due regioni separatiste (Abkhazia e Ossezia del Sud). Nel Caspio è tutta da vedere la lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche centro-asiatiche con Russia e Cina. Nel Medio Oriente rimangono insolute la questione palestinese e libanese. In Africa ci sono diversi fronti caldi con risvolti globali (su tutti, il Darfur e la Somalia). Da non dimenticare, poi, l’attivismo politico-economico cinese nel Continente Nero. L’India è ancora lontana dall’essere un vero alleato, ancora divisa fra ambizioni personali, appoggio agli USA, alla Cina o alla Russia. In Estremo Oriente la supremazia USA è costantemente erosa dalla Cina, una situazione che obbliga Washington a risolvere controversie come quella sul nucleare nord-coreano in ambito multilaterale. Bisogna poi tenere d’occhio le evoluzioni in centro e sud America, tradizionale “cortile di casa” USA, con l’attivismo dei Chávez, Correa, Morales ed Ortega. L’unico punto saldo per Washington sembra, purtroppo, il dominio sull’Europa e sul Giappone.

 

  • USA. 5 giugno. Emergenza fame, colpiti 38 milioni di statunitensi. Domani negli Stati Uniti si celebra la Giornata nazionale della consapevolezza sulla fame, per ricordare che oltre 38 milioni di statunitensi, fra cui 14 milioni di bambini, sono malnutriti o non hanno di che sfamarsi. Nel solo Stato del Massachussets, uno dei più ricchi del paese, una persona su dieci stenta a racimolare un pasto e deve scegliere fra pagare le bollette o acquistare gli alimenti. Lo riporta l’agenzia Misna. Varie iniziative in ogni parte del paese tenteranno di sensibilizzare sul tema. Negli ultimi 5 anni, il Dipartimento USA per l’agricoltura ha stabilito che il numero di famiglie «che soffrono direttamente la fame o hanno problemi di insicurezza alimentare» sono cresciute del 43%. Una crescita avvenuta in maniera proporzionale in ogni categoria sociale. I livelli più alti di insicurezza alimentare si registrano in California, Texas, Arkansas, Missouri, North Carolina, New Mexico, Oklahoma e South Carolina.

 

  • Colombia. 5 giugno. I guerriglieri prigionieri delle FARC respingono la scarcerazione decisa da Uribe. Con vari comunicati dalle prigioni di Valledupar (dipartamento di César), Ibagué (Tolima), La Dorada (Caldas) e Girón (Santander), i detenuti hanno bollato la decisione del presidente colombiano, Alvaro Uribe, come una «cortina di fumo» per coprire gli scandali della «narcopolitica». Il presidente del Comitato di Solidarietà con i Prigionieri Politici, Agustín Jiménez, ha assicurato che sono 500 i guerriglieri che hanno respinto la proposta del governo.

 

  • Colombia. 5 giugno. Anche Granda è stato liberato. Sia pur ancora formalmente, permanendo guardato a vista da un'imponente scorta militare. Rodrigo Granda, considerato come il ministro degli esteri delle FARC (Forze Rivoluzionarie Armate di Colombia), aveva rifiutato la liberazione perché condizionata all'impegno di abbandonare la lotta guerrigliera. Granda non si è impegnato né ad abbandonare le FARC e nemmeno ad accettare di fare da intermediario con la Comandancia guerrigliera. Uribe spera che ritessa i rapporti con il governo francese per la liberazione di Ingrid Betancourt, cioè esattamente quello che stava facendo due anni fa, quando fu sequestrato a Caracas da alcuni agenti colombiani. Il suo nome si aggiunge a quello di altri 187 ex insorti rimessi in libertà in questi giorni (i quali, fanno sapere, dalle carceri, i prigionieri delle FARC, «da circa due anni» hanno fatto proprie le pressioni delle autorità e si sono staccati dall'organizzazione). Per lui non c'è stato alcun accordo con il governo. Il presidente colombiano Alvaro Uribe ha spiegato che si tratta di una precisa richiesta del presidente francese Sarkozy. Nei giorni scorsi le FARC avevano respinto l'iniziativa che, attraverso scarcerazioni unilaterali, si riprometteva di ottenere come contropartita la liberazione delle persone in mano alla guerriglia.

 

  • Colombia. 5 giugno. «Le FARC respingono le false promesse di quanti pretendono di trasformare il clamore nazionale per lo scambio umanitario in propaganda per curare le ferite causate dalla politica neoliberista e terrorista di un regime illegale», afferma un comunicato diffuso dall'agenzia Anncol. Lo scambio di prigionieri, aggiunge la nota, deve essere «il risultato di accordi tra lo Stato e l'insurrezione rivoluzionaria, in cui si definiscano criteri, tempi, nomi, garanzie, controlli e meccanismi». Una delle condizioni base per l'accordo è, ribadisce il comunicato, la smilitarizzazione delle località di Florida e Pradera, provvedimento che il governo ha già respinto. Secondo alcuni commentatori la mossa di Uribe, che appare in contraddizione con la politica fin qui seguita di confronto armato con la guerriglia, sarebbe stata motivata non solo dalle pressioni europee (soprattutto della Francia, che mira alla liberazione di Ingrid Betancourt), ma dal desiderio di trovare una via d'uscita allo scandalo della «narco parapolitica», inchieste giudiziarie che coinvolgono parlamentari, militari, personalità e uomini di governo per legami con para-militari di estrema destra, narcotraffico e omicidi.

 

  • Euskal Herria. 6 giugno. ETA «sospende» il cessate il fuoco. La tregua, in vigore dal 24 marzo 2006, per tentare di rilanciare il processo di pace più volte abortito, è finita alla mezzanotte di ieri. Il governo Zapatero è accusato di ipocrisia. Nel comunicato al giornale basco Berría, l'organizzazione politico/militare indipendentista e socialista basca sottolinea come siano «venute meno le condizioni minime per continuare un processo di negoziazione». «La sistematica politica di esclusione di tanta parte della società basca», scrive ora l’organizzazione, «ad opera dello Stato spagnolo ha vanificato le aspettative» e le iniziative dell’organizzazione armata e delle varie situazioni politiche basche che si sono spese senza riserve per arrivare alla costruzione di un negoziato. Il modello è sempre stato quello del processo di pace nordirlandese. «Il governo Zapatero», prosegue ETA nel suo comunicato, «ha risposto con arresti, torture e ogni tipo di persecuzione al cessate il fuoco offerto dalla nostra organizzazione». Per questo, conclude, «non ci sono le condizioni democratiche minime per consentire al processo di pace di svilupparsi». La decisione di interrompere la tregua giunge una settimana dopo le elezioni amministrative in Spagna. Nei Paesi Baschi, Batasuna, il partito dei settori indipendentisti radicali, non ha potuto partecipare perché bandito e al contempo la criminalizzazione del movimento e della sua rappresentanza politica è continuata. Tutto questo, secondo alcuni, avrebbe contribuito a far sospendere la tregua.

 

  • Euskal Herria. 6 giugno. Il PNV annuncia che prenderà possesso dei seggi della sinistra abertzale che, per la cronaca, ottiene il massimo storico in termini di voti (il meccanismo elettorale spagnolo consente il computo dei voti anche di una formazione illegalizzata che poi vengono considerati nulli). Nonostante l’appello della settimana scorsa dell’ANV (Azione Nazionalista Basca) affinché i membri della altre formazioni non prendano i seggi spettanti alla sinistra abertzale illegalizzata, il portavoce dell’EBB (Euskadi Buru Batzar, Direzione Centrale) del PNV, Iñigo Urkullu, ha già fatto sapere ieri, a Europa Press, che i suoi colleghi di partito occuperanno, come quattro anni fa, gli scanni «in ciascun municipio» senza fare «alcuna eccezione». Ha aggiunto, con sprezzo del ridicolo, che questo avverrà perché «buona parte della cittadinanza ci ha dato la sua fiducia concedendoci il suo voto». Poche ore dopo anche EA, IU e PSOE hanno rilasciato dichiarazioni analoghe sull’assunzione dei seggi indipendentisti ripartiti tra tutti i partiti. L’unica formazione che non li prenderà sarà Aralar, una componente uscita anni fa da Batasuna per dissensi sulla lotta armata. La sinistra indipendentista ha bollato anche queste elezioni come «antidemocratiche» dopo l’illegalizzazione di 133 liste dell’ANV da parte dei tribunali spagnoli in nome della liberticida Legge dei Partiti e la proibizione di tutte quelle di Sozialista Abertzaleak. Batasuna aveva dato indicazioni di voto per queste due formazioni che si sono presentate, mai sovrapponendosi, in tutte le località.

 

  • Sudan. 6 giugno. Nicolas Sarkozy ha incontrato il presidente ghanese John Kufuor per discutere della proposta francese di creare un corridoio di sicurezza tra il Ciad e il Darfur. La Francia ha già un migliaio di truppe a N’Djamena, la capitale del Ciad, che potrebbero essere spostate nel corridoio. Parigi auspica che l’Unione Europea supporti questa operazione militare, anche se sia il Sudan che il Ciad si sono detti contrari a una presenza straniera sul loro territorio. Nel frattempo dagli Stati Uniti è arrivata la disponibilità a creare una no-fly zone in Darfur. Durante i quattro anni di conflitto sono morte 200mila persone e più di due milioni si trovano nei campi profughi.

 

  • Iraq. 6 giugno. Ritiro al più presto. Secondo l’ex ambasciatore statunitense a Londra, Gran Bretagna e Stati Uniti dovrebbero ritirare le loro truppe dall'Iraq al più presto per non aggravare ulteriormente la situazione di instabilità e insicurezza di tutta la regione mediorientale. Lo ha affermato ieri Christopher Meyer, in un intervento davanti alla commissione Iraq del parlamento britannico.

 

  • Israele / Palestina. 6 giugno. Un centinaio di case sono in costruzione in Cisgiordania da parte del movimento di insediamento dei coloni nei territori palestinesi. La costruzione delle case viola un impegno preso da Israele con gli Stati Uniti di non costruire insediamenti in Cisgiordania. Israele le ha giustificate sostenendo che sono all’interno di insediamenti già esistenti e che sono necessarie per soddisfare le esigenze derivanti dalla crescita demografica della popolazione già residente.

 

  • USA. 6 giugno. Bush contrattacca alle dichiarazioni di Putin criticando la mancanza di democrazia in Russia. All’indomani della minaccia russa di tornare a puntare propri misili contro l’est europeo, Bush rilancia sul sistema antimissilistico in Repubblica Ceca e Polonia (progetto che incontra tra l’altro l’opposizione della popolazione locale) e pone l’accento sugli innegabili deficit democratici della Russia di Putin. In visita a Praga, Bush ha lanciato strali anche a Pechino: «i dirigenti cinesi credono di poter aprire il loro sistema economico senza fare parallelemente altrettanto con  il sistema politico. Noi (USA, ndr) non siamo d’accordo».

 

  • USA. 6 giugno. Ma in che consiste di preciso lo “scudo” anti missilistico USA? Il rinomato docente USA Noam Chomsky ha dichiarato recentemente che «è universalmente noto che la difesa missilistica è un’arma di primo colpo». Il piano statunitense prevede l’installazione in Polonia dei primi 10 missili intercettori (per distruggere i missili balistici nemici una volta lanciati) e di una stazione radar nella Repubblica ceca. Sul territorio statunitense, ne sono già stati installati 17 (14 in Alaska e 3 in California), che saliranno a 21 nel 2007 e a 30 nel 2008. Nel momento in cui gli Stati Uniti porteranno a termine lo “scudo” anti-missile, disporrebbero di un sistema non di difesa ma di offesa: sarebbero infatti in grado di lanciare un “primo colpo” (first strike) contro un paese dotato anch’esso di armi nucleari, fidando sulla capacità dello “scudo” di neutralizzare o attenuare gli effetti di una eventuale rappresaglia. Proprio per questo USA e URSS avevano stipulato nel 1972 il Trattato ABM (anti missili balistici) che proibiva tali sistemi, Trattato che l’amministrazione Bush –significativamente– ha unilateralmente denunciato nel 2002. Col Trattato ABM si riconobbe ufficialmente che, a causa dell’enorme potenza atomica, la scelta migliore per garantire la pace era la consapevolezza della reciproca vulnerabilità. La teoria che studiosi trassero ed elaborarono dall’accordo fu chiamata “Mutua Distruzione Assicurata”: la pace era garantita dal fatto che, in caso di “primo colpo” nucleare, la Potenza attaccante sarebbe rimasta praticamente in balia della risposta massiccia (considerata inevitabile) dell’avversario, subendone terribili distruzioni. In base al Trattato anti-missile balistico, era tra l’altro esplicitamente vietato sviluppare un sistema antimissile in grado di coprire tutto il territorio nazionale. Altre clausole facevano sì che la capacità di ognuna delle parti di difendersi da un massiccio attacco nucleare strategico venisse fortemente limitata.

 

  • USA. 6 giugno. Secondo Washington, l’installazione dei missili intercettori e radar nell’europa orientale servirebbe a proteggere gli Stati Uniti e l’Europa dai missili balistici della Corea del nord e dell’Iran. Una pretesto bello e buono: perché tali Stati dovrebbero compiere un atto che li esporrebbe a sicure rappresaglie e fornire quel pretesto per l’aggressione tanto ricercata da Washington? Come se ciò non bastasse, va rilevato che nessuno di questi paesi è dotato di missili (tanto meno armati di testate nucleari) in grado di raggiungere Europa e USA, e per di più la Corea del nord, se volesse colpire gli USA, lancerebbe i suoi missili non certo verso ovest e non certo al di sopra dell’Europa. Non ha dunque tutti i torti Mosca quando sostiene che il piano statunitense mira, essenzialmente, ad acquisire un ulteriore vantaggio strategico sulla Russia, che paventa a medio/lungo termine una minaccia ai sistemi spaziali russi e la possibilità che questi missili siano un giorno armati di testate nucleari. Mosca giudica il piano statunitense di installare missili intercettori e radar nell’Europa orientale, a ridosso del territorio russo, un ulteriore passo dell’espansione della NATO a est. Nel 1999 essa ha inglobato i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si è estesa ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’URSS); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Repubblica jugoslava). Ora sta per inglobare Albania, Croazia e Macedonia, e si prepara a fare lo stesso con Georgia e Ucraina. Contemporaneamente, gli Stati Uniti hanno installato nuove basi militari in Romania e Bulgaria e, tra breve, faranno lo stesso in Montenegro.

 

  • USA. 6 giugno. Immediato è il vantaggio strategico che con lo “scudo” gli USA possono acquisire sulla Russia. La stazione radar che si intende collocare nella Repubblica Ceca sarebbe la prima installazione di una rete di sofisticati centri di intelligence, attraverso cui il Pentagono potrebbe monitorare, ancor più efficacemente di quanto è in grado di fare oggi, non solo il territorio russo ma l’intero territorio europeo. L’Italia, per la sua posizione geografica, sarebbe inoltre particolarmente adatta per l’installazione sia di radar che di missili intercettori rivolti verso il Medio Oriente e il Nord Africa. Washington si doterebbe così di un ulteriore strumento di controllo sugli Stati dell’Unione Europea. L’intero sistema di stazioni radar e postazioni missilistiche in Europa dipenderebbe infatti dal Centro di comando, controllo, gestione della battaglia e comunicazioni, all’interno della catena di comando che fa capo al presidente degli Stati Uniti d’America. Accerchiamento della R