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Il Secolo Lungo. Dalla Parigi del 1789 al crollo del Muro i nuovi confini della contemporaneità

di Paolo Macry - 22/06/2007



Probabilmente sarà sempre più difficile rispondere alla domanda che — prima o poi, meglio se nelle chiacchiere del dopocena — ogni storico si è sentito rivolgere: ma quando comincia l'età contemporanea?
Fino a un paio di decenni orsono, l'enigma veniva risolto con rimandi più o meno sbrigativi al 1789, alla rivoluzione industriale, al Congresso di Vienna. E nessuno aveva da ridire. Quelle scansioni cronologiche individuavano le radici del presente nei decenni del tardo XVIII e del XIX secolo, quando l'Europa aveva maturato e talvolta esportato il proprio modello politico e sociale. Ovvero lo Stato-nazione, il sistema rappresentativo, la politica professionale, il mercato, il welfare. Cuore pulsante della contemporaneità era un "lungo Ottocento" compreso tra la Rivoluzione Francese e il 1914. Qui avevano preso forma compiuta le identità occidentali, la potenza della Germania prussiana, l'impero mondiale della Gran Bretagna, il nazional-civismo della Francia, il Risorgimento italiano, la Frontiera americana. Nel grande incubatore erano nate le ideologie politiche del socialismo e del nazionalismo che, dopo lenta mutazione genetica, sarebbero esplose drammaticamente qualche decennio più tardi.
Nell'Ottocento, francesi e tedeschi si erano scontrati sui campi di battaglia, preparando l'interminabile resa dei conti del secolo successivo. Nell'Ottocento, aveva fatto la sua comparsa la società di massa che sarebbe approdata ai raduni nazisti di Norimberga e al consumismo americano.
E, significativamente, è su questa cronologia che hanno insistito alcune delle più rilevanti interpretazioni storiografiche emerse nel secondo dopoguerra. L'idea di Arno Mayer delle due guerre mondiali come estrema reazione antimoderna di un Ancien Régime, ancora forte nell'Europa fin de siècle e deciso a vendere cara la pelle. La critica di Karl Polanyi ad un'utopia liberale che, nata nell'Inghilterra di Smith e Malthus, avrebbe prodotto distruttive lacerazioni sociali e, infine, il ritorno del protezionismo statale. Il dibattito sulle peculiarità della storia tedesca, il Sonderweg. L'indagine di George Mosse sulle origini culturali (ottocentesche) della «nuova politica » hitleriana. E via dicendo.
Oggi, tuttavia, le cose si vanno complicando e rispondere alla classica domanda sulle origini del presente diventa meno scontato. A torto o a ragione, gli avvenimenti di fine Novecento sembrano catapultare il senso comune e gli stessi storici fuori dai recinti abituali. La fine dell'Urss ha permesso di ricucire l'Europa orientale a quella occidentale, riscoprendone caratteri e periodizzazione, dopo decenni di cortina di ferro. La questione musulmana sollecita gli studi su una civiltà islamica assurta a rilevanza mondiale già dai tempi del medioevo europeo. Il protagonismo di India e Cina accende l'interesse per i grandi imperi asiatici, stravolgendo ulteriormente le scansioni cronologiche del Vecchio Continente.
Una geopolitica fluida come non mai sembra in grado di svuotare le tradizionali coordinate occidentali di tempo e spazio, mettendo in crisi l'idea dell'Europa come unità di misura del mondo. Gli studi analizzano ormai territori sconcertanti come l'Afro-Eurasia. Il Mediterraneo viene indagato in quanto luogo di scambi materiali e culturali fra continenti. L'Atlantico diventa il Black Atlantic di Paul Gilroy, popolato da africani e caraibici, frutto di plurisecolari migrazioni. Sebbene indispensabile, «il pensiero europeo è allo stesso tempo inadeguato per riflettere sulle esperienze di modernità politica delle nazioni non occidentali », ha scritto Dipesh Chakrabarty.
Accusata di etnocentrismo, la storiografia europea è assediata dalla world history, dalla global history, dalla storia dell'ambiente, dalle analisi post-coloniali, dai subaltern studies.
Approcci molto diversi che hanno in comune una scala territoriale e una cronologia incompatibili con l'idea otto-novecentesca della contemporaneità. Andando alla ricerca del vantaggio competitivo di cui gode l'Occidente, Jared Diamond finisce per fare una «breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni», come recita il sottotitolo italiano di un suo libro di successo. Analizzando lo «scambio colombiano» di generi alimentari e malattie funeste tra Europa e America, Alfred Crosby costruisce movimenti che si distendono lungo molti secoli e che approdano alle basi biologiche della geopolitica.
Ma questo radicale spostamento di orizzonti può significare cose molto diverse. O che i processi emersi in Occidente tra XVIII e XX secolo si vadano realmente esaurendo. Che, insomma, la grande cesura degli ultimi due decenni sia effettiva e imponga agli studiosi la ricerca di altre radici e di altri nessi. O che un'attualità particolarmente dinamica influenzi l'opinione pubblica e gli stessi storici in modo fin troppo pervasivo, legandoli mani e piedi al presente, amputando di netto ogni lettura storicistica del mondo, enfatizzando eccessivamente le discontinuità. Dopo tutto, si sente dire, cos'ha in comune con Tocqueville, con Saint-Simon o con Mazzini questo nostro mondo della post-democrazia, del post-nazionalismo, del proletariato migrante?
Le suggestioni del presente, tuttavia, non sono mai state un buon viatico per vedere lontano. Oggi sarebbe ingenuo rifiutarsi di aprire il senso europeo del passato a spazi e cronologia di altri popoli, culture e continenti. E nessuno vorrà più indicare nel 1815 del principe di Metternich l'inizio di un'epoca che, nel frattempo, ha spostato a migliaia di chilometri da Vienna l'asse del mondo. Ma questo neppure significa che la stagione sette-ottocentesca del «trionfo europeo» abbia esaurito ogni influenza. Di quella stagione resta l'eredità dei diritti individuali, civili e sociali. Una partita ancora da giocare, in molte parti del globo, e dagli esiti tutt'altro che scontati.