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Murder in Amsterdam

di Stenio Solinas - 22/06/2007

Ieri: il laicismo di sinistra pone le basi della società multietnica in nome di una eguaglianza utopica.

Oggi: chiusura delle frontiere, restrizione sui permessi di lavoro, blocco delle cittadinanze…

Diceva il poeta tedesco

Heinrich Heine

che il giorno in cui

la fine del mondo si

fosse profilata all’orizzonte

avrebbe

cercato rifugio in

Olanda, perché lì tutto arrivava con mezzo

secolo di ritardo... L’idea di una nazione

addormentata in quanto soddisfatta era una

cattiveria ottocentesca fatta però di molte

verità: ancora nel 1934, e quindi nel pieno

dei fascismi e dei bolscevismi, lo storico

olandese Johan Huizinga osserverà che l’estremismo

nazionalista proprio dei regimi

totalitari affondava le sue radici in un “senso

politico di inferiorità, dovuto a fallimenti e

oppressioni, mischiato a un forte sentimento

di perdita delle antiche glorie e a un eguale

desiderio di rivincita”. Ecco perché,

aggiungeva, la tentazione totalitaria non

avrebbe mai “tentato” i suoi compatrioti:

“Come nazione e come Stato siamo dopotutto

soddisfatti, ed è nostro dovere rimanere

così”.

Nel dopoguerra, la “soddisfazione” raggiunse

i suoi livelli massimi, finì con il rovesciare

quel giudizio di Heine e invece che inseguire

la Storia, l’Olanda si ritrovò a precederla:

droga libera e libera pornografia, diritti

omosessuali e accettazione dell’eutanasia,

multiculturalismo... In una parola, il più progressivo

e progressista degli Stati, il Paese

dove il dolce sogno della tolleranza assumeva

i contorni di un’utopia compiuta. Alla

fine del Novecento, il 45 per cento della sua

popolazione era di origine straniera. E fu

allora che il sonno soddisfatto cominciò a

popolarsi di incubi.

Murder in Amsterdam di Ian Buruma (Atlantic

Books, 278 pagine, 8,99 sterline) è il racconto

di questa mutazione, ma il suo sottotitolo,

“La morte di Theo van Gogh e i limiti

della tolleranza”, ne è soltanto l’assunto parziale.

Perché prima dell’assassinio dell’iconoclasta

regista olandese, c’era stato quello

dell’altrettanto iconoclasta politico olandese

Pym Fortuyn, speculare eppure opposto

quanto a, se così le vogliamo chiamare,

motivazioni ideologiche. E da quest’ultimo

occorre partire per avere ben chiara la posta

in gioco.

Prima di Fortuyn l’Olanda aveva assistito

soltanto a un altro omicidio politico: era successo

nella seconda metà del XVII secolo,

l’età d’oro dell’allora repubblica mercantile,

quando i fratelli Jan e Cornelis de Witt erano

stati letteralmente fatti a pezzi dalla folla. I

de Witt erano borghesi, liberali e repubblicani,

il popolino parteggiava per la spodestata

casa d’Orange, a sua volta fiancheggiata dalla

Chiesa protestante. Il governo era nelle

mani dell’aristocrazia del commercio, paternalista

e repubblicana, i cosiddetti Regenten,

c’era crisi economica, i poveri vedevano nei

ricchi al potere la causa dei loro mali: egoisti,

altezzosi, libertini... I due poveri fratelli

ci lasciarono le penne.

Tre secoli e mezzo dopo, il copione è rovesciato.

Pym Fortuyn è un leader populista, ce

l’ha a morte con la burocrazia, la borghesia

delle professioni e il governo elitario e di

sinistra chiuso nei suoi interessi e nella sua

superbia. Ce l’ha anche con l’immigrazione,

quella musulmana in particolare, e quindi le

sue caratteristiche ne dovrebbero fare un

populista di destra. Ma è una destra particolare

e di tipo nuovo, visto che il suo leader è

un omosessuale dichiarato e spavaldo, un

cattolico blasfemo e sui generis che se la

prende con la fede e le istituzioni religiose

nazionali, un libertino nel pensiero e nei

costumi, un liberista seguace del lusso e per

il quale non c’è un limite ai diritti dell’individuo,

un esperto manipolatore dei massmedia,

perfetto uomo-immagine che fa

sognare il popolo. La felicità, gli dice, è

godere, divertirsi, esaudire i propri desideri...

Lo ammazzerà un animalista, un seguace di

quella sinistra reazionaria per la quale i diritti

delle foche, degli ermellini e dei visoni valgono

quanto e più di quelli umani, un teorico

dello sviluppo compatibile e dell’austerità

calvinista nei comportamenti. Lo ammazzerà

arrivando in bicicletta all’intervista radiofonica

nel Media Park di Hilversum da cui, una

bottiglia di champagne in mano, Pym sta per

andarsene in macchina, una Daimler, dove i

suoi cocker lo attendono seduti a fianco dell’autista.

In bicicletta al delitto arriverà anche, due

anni dopo, Mohammed Bouyeri, l’assassino

di Theo van Gogh, ma questa volta non si

tratta di un animalista olandese, bensì di un

integralista marocchino che di olandese ha

comunque la cittadinanza. Theo e Pym hanno

molte cose in comune, l’esibizionismo,

l’iconoclastia, la spregiudicatezza nei modi e

nel linguaggio, l’idea di vivere in una società

dove tutto è permesso. Si considera, van

Gogh, “lo scemo del villaggio”, quello cui

non può capitare nulla di male perché nell’idiozia

c’è una santità che preserva dalle peggiori

conseguenze. Ma, come ha già dimostrato

la morte di Pym, è il villaggio che è

cambiato e non solo e non tanto in quanto si

è globalizzato: a uccidere quest’ultimo è stato

un olandese doc, non un immigrato di

seconda generazione. Del resto, quello di

Theo è un assassinio per interposta persona:

è l’“apostata” somala Ayaan Hirsi Ali, l’autrice

di Submission, il breve film di cui lui è

stato il semplice supporto tecnico, il vero

bersaglio. Così recita infatti il messaggio,

piantatogli nel petto con due pugnali da Bouyeri

e scritto in olandese. Perché l’assassino

è sì di fede musulmana, ma le sue citazioni

dal Corano sono state tirate giù da Internet in

inglese e poi tradotte in olandese.

Il libro di Buruma pone a chi legge molte

domande, ma non ha le risposte “chiavi in

mano” per una convincente spiegazione. Il

giardino multiculturale dell’ultimo mezzo

secolo non deve far dimenticare che l’Olanda

fu per secoli il Paese dell’etica calvinista, del

borghese disprezzo per gli eccessi, della

flemmatica preferenza verso il compromesso

e il consenso. Né si può passare sotto silenzio

il fatto che, durante la Seconda guerra

mondiale, il 71 per cento degli ebrei che la

abitavano non fece ritorno dai campi di concentramento,

la più alta percentuale in Europa

all’infuori della Polonia. La nazione che

ha fatto di Anna Frank una sua eroina, al

punto di aver trasformato, due anni fa, l’appartamento

in cui visse prima di nascondersi

in una casa per scrittori perseguitati, è la

stessa, insomma, che durante l’occupazione

tedesca sostanzialmente le voltò le spalle.

Molto della successiva apertura “multiculturale”

nasconde la coda di paglia di un razzismo

se non attivo, certo acquiescente.

Allo stesso modo, il laicismo di sinistra che

in nome dell’eguaglianza, dell’accoglienza e

della difesa dei più deboli, pose le basi per

una società multietnica, vede oggi i fautori di

un tempo impegnati in una battaglia di segno

opposto: chiusura delle frontiere, restrizione

sui permessi di lavoro, blocco delle cittadinanze.

E tuttavia, le varie ondate migratorie

succedutesi negli anni non hanno visto un

intervento lungimirante dello Stato, ma spesso

e volentieri una logica di segregazione,

città-ghetto e città-dormitorio, un’incomprensione

e/o un disinteresse verso i fenomeni

identitari, religiosi e familiari, una logica

di sussistenza, ma anche di sfruttamento,

piuttosto che di inserimento e di reciprocità.

Fortuyn e van Gogh, naturalmente, sono due

casi esemplari perché eccezionali: l’Olanda

non è in preda a una guerra di religione o di

civiltà, né si dibatte fra una reazione e una

rivoluzione dei costumi. Però è un buon

paradigma di come la tolleranza abbia un

senso se poggia su dei valori forti e di come

l’individualismo portato all’eccesso scardini

i sistemi sociali. L’economia olandese, e

quindi il suo tenore di vita, il suo stesso

modello di società, non può più fare a meno

della sua componente straniera. Come

riuscirci a convivere diventa da oggi la vera

politica di domani.