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Interviste «resistenti». Un film fra gruppi clandestini ricercati dall'esercito americano

di Miriam Tola - 24/06/2007

   
Al festival di Pesaro verrà presentato in anteprima «Meeting Resistance» realizzato dalla regista Molly Bingham con il reporter Steve Connors. Un film girato «pericolosamente» fra gruppi clandestini ricercati dall'esercito americano Temevamo di essere seguiti da agenti dell'intelligence e di venire attaccati

Il primo contatto di Molly Bingham con la resistenza irachena risale al maggio 2003. La giornalista americana, figlia di una facoltosa famiglia del Kentucky, laureata ad Harvard, incontrò «il Maestro» ad Adhamiya, quartiere a nord di Baghdad. Era un quarantenne laico di classe media, mai iscritto al Baath. La sua vita era cambiata dopo l'attacco statunitense alla moschea di Abu Hanifeh, il cuore di Adhamiya. Superato lo shock iniziale, si era unito ad un gruppo islamico. Nell'agosto 2003 Bingham tornò ad Adhamiya insieme al suo compagno, il fotoreporter inglese Steve Connors. Il Maestro era ancora lì, disponibile a raccontare la sua storia. Così, insieme ad altri ribelli, è diventato protagonista di un documentario che non ha mai visto. Meeting Resistance, girato nell'arco di dieci mesi, è il primo film sulle motivazioni della resistenza indirizzato al pubblico occidentale. Abbiamo raggiunto i due registi al telefono nella loro casa di Washington, poco prima della partenza per il festival di Pesaro che il 25 giugno presenterà l'anteprima italiana del documentario.

Il film è stato mostrato al Full Frame Festival negli Stati Uniti e a Doha, al festival di Al Jazeera dove ha conquistato l'emiro del Qatar e il primo premio. Come ha reagito il pubblico nei due paesi?

Molly Bingham: Per il pubblico arabo, le motivazioni dei ribelli non sono una novità. Per gli americani è diverso: alcuni non hanno ancora realizzato che gli iracheni ci vedono come invasori.

Steve Connors: A Doha una donna settantenne mi ha detto: «sono irachena, questo film offende la resistenza perché non avete mostrato i guerrieri coraggiosi in azione contro gli americani». Le abbiamo spiegato che siamo stati invitati a filmare un attacco ma abbiamo rifiutato perché la violenza sarebbe stata l'unico oggetto del dibattito, quello che mancava erano le motivazioni.

Che tipo di rapporto avevate con l'esercito americano?

MB: Nessuno. I nostri intervistati erano ricercati dagli americani. Avere contatti con l'esercito sarebbe stato pericoloso. Non potevamo neppure avvicinarci alla base statunitense perché era sorvegliata dalla resistenza.

Perché avete scelto Adhamiya e come avete avvicinato i vostri protagonisti?

SC: L'idea originale era capire cosa accadeva in diverse parti del paese. Abbiamo scoperto che Adhamiya era un microcosmo del movimento. Non rappresentava l'intera resistenza ma offriva uno spaccato fedele della situazione. Giorno dopo giorno abbiamo spiegato alle persone il nostro progetto e alcuni avevano delle storie per noi. Abbiamo parlato con 45 membri della resistenza e condotto 11 interviste. Uno solo ci ha chiesto dei soldi e abbiamo rifiutato.

MB: I contenuti della nostra ricerca erano riservati, anche per i colleghi. Gli intervistati non sapevano l'uno dell'altro, facevano parte di gruppi clandestini diversi e tenere il segreto era necessario per la nostra sicurezza. Alla fine dei primi incontri controllavano le immagini per verificare che i volti fossero fuori fuoco. Le interviste erano condotte quasi sempre all'esterno, dove nessuno poteva ascoltarci. La camera non era mai sul treppiede ma sempre a mano, pronta a sparire.

All'epoca del vostro soggiorno i rapimenti erano già cominciati. Avete temuto che accadesse anche a voi?

SC: Avevamo paura di essere seguiti da agenti dell'intelligence. Temevamo un attacco durante un'intervista o subito dopo.

Avete notato dei cambiamenti nelle motivazioni dei ribelli nel corso dei dieci mesi?

SC: Il linguaggio nazionalista ha via via incorporato il richiamo all'Islam. Nella Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo vediamo qualcosa di simile: un movimento anticoloniale che sviluppa delle motivazioni religiose. I personaggi come quelli di Meeting Resistance sono ancora la parte più significativa della resistenza all'occupazione. Oggi i media riportano di bombe contro civili, della divisione tra sciti e sunniti. La resistenza ha più a che fare con il sentimento nazionale, con gente che vuole tenere il paese unito. Secondo i dati ufficiali nel novembre 2006 ci sono state 65 autobombe che hanno colpito i civili contro oltre 185 attacchi quotidiani alle forze Usa. La violenza è diretta soprattutto contro le forze della coalizione. I protagonisti di Meeting Resistance sono gli stessi che attaccano gli americani ma condannano gli assalti ai danni di civili e infrastrutture.
MB: Sanno bene che per sopravvivere non devono alienarsi la popolazione irachena.

La «Battaglia di Algeri» è stato un vostro riferimento?

MB: Abbiamo chiesto ai nostri giovani montatori di non vederlo fino alla fine del lavoro. Meeting Resistance parla del'Iraq ma, come il film di Pontecorvo, anche della condizione umana di chi vive e reagisce all'occupazione. Abbiamo cominciato il progetto come giornalisti, non come filmmakers. L'obiettivo era capire chi partecipa alla resistenza, che cosa pensano, in cosa credono.

Il vostro film, come quello di Pontecorvo, è stato mostrato ai militari. Pensate possa essere utile alla contro-insurrezione?

MB: Il fatto che i militari trovino il film significativo è uno sviluppo inaspettato del progetto. Di certo noi non sappiamo nulla che l'intelligence americana non conosca. Il problema è se queste informazioni arrivano al campo di battaglia.

SC: Una delle lezioni apprese dal Pentagono dalla Battaglia di Algeri è che la tortura alla fine ti si ritorce contro. Non è stata applicata in Iraq e gli abusi di Abu Ghraib hanno alimentato la resistenza. A proposito delle torture, un personaggio che nel film chiamiamo «il Guerriero» ha detto: «Il tempo della guerra nobile è finito». Per lui è stato un punto di non ritorno. L'ultima intervista al Guerriero è avvenuta nel maggio 2004, poi il suo comandante gli ha proibito di vederci. A quel punto non avevamo più contatti con la resistenza. Era tempo di andare via.

Uno dei pochissimi personaggi non coinvolti nella resistenza è «il Professore»...

SC: Siamo arrivati a lui attraverso un articolo sul Daily Star. Il quotidiano di Beirut parlava di una conferenza in cui lui presentava una ricerca sui ribelli. Lo siamo andati a cercare all'università di Baghdad. Dalle nostre domande ha capito che eravamo in contatto con membri dell'insurrezione. Ha condotto uno studio autorevole che conferma la nostra inchiesta, lui forniva le cifre, noi le personalità. Questo incontro ci ha convinto che i mesi passati ad Adhamiya non erano tempo perso. Senza di lui forse avremmo avuto un problema di credibilità anche a causa dell'identità segreta dei protagonisti.
Perché il film comincia a circolare solo nel 2007?

MB: In parte è il tempo che occorre ai tanti registi esordienti a finire un film. Ma certo i contenuti possono risultare scomodi.

SC: Appena tornati a casa volevamo subito diffondere le informazioni in nostro possesso. Nessuno voleva ascoltare. Tutti credevano a quello che governo e militari dicevano. Nei ultimi tre anni la fiducia in queste istituzioni è diminuita. Si è aperta una porta da cui il film può passare.