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La sfida dell’etica in un’economia mondializzata

di Eduardo Zarelli - 28/07/2007

Serge Latouche

Giustizia senza limiti. 

La sfida dell’etica in un’economia mondializzata

Bollati Boringhieri, Torino, 2003,  pp. 281, E 22,00

 

Questo libro deve il suo titolo a George W. Bush e alla formula - Enduring Justice - con la quale egli designò in un primo tempo la reazione americana agli attentati dell’11 settembre 2001. È noto  che il motto fu subito cambiato dai consiglieri religiosi del Presidente USA, i quali fecero notare all’inquilino della Casa Bianca che solo Dio è infinitamente giusto.

La frase di Bush è stata riutilizzata da Latouche per sostenere la profonda ingiustizia dell’economia globale, e più in generale la mancanza di ogni morale nell’economia di mercato. Latouche sostiene inoltre che si è giunti alla fine di ogni concezione economicista: «[...] in quanto la crisi ecologica pone, per la prima volta e in modo drammatico per l’umanità, il problema di una ripartizione equa delle quote di natura tra i viventi e tra la nostra generazione e quelle future». La contraddizione tra economia di mercato e la natura è così grave che bisogna pensare a una “società della decrescita”: un vero rovesciamento di tutti i discorsi di sviluppo dei filo-globalisti, ma anche di sviluppo compatibile degli anti-globalisti.

Sappiamo che Latouche è tra i più autorevoli critici del concetto stesso di “sviluppo” industriale e della sua diffusione planetaria. Un “dono avvelenato” per le identità culturali e sociali “altre”, ove l’intervento pietistico degli occidentali ha distrutto anche gli equilibri demografici: attraverso la medicalizzazione è diminuita la mortalità infantile e si è prolungata l’età media. Ma il guaio maggiore provocato dalla civilizzazione occidentale è stato quello di sradicare le popolazioni dai territori di sussistenza, spingendole ad ammassarsi nelle bidonvilles e nelle favelas, nella speranza di poter attingere al benessere che l’economia globale dovrebbe produrre.

Ma, per l’appunto, che cosa significa fare giustizia in una economia globalizzata? Chi può dirsi vittima di una ingiustizia? Come portare rimedio all’ingiustizia globale? Sono le domande alle quali l’autore di L’occidentalizzazione del mondo cerca di dare delle risposte per un verso denunciando l’impostura dell’etica economica e per l’altro cercando di prevedere quella che potrebbe essere una economia giusta in un mondo globalizzato.

Quando si parla di globalizzazione e dei possibili rimedi pratici per contrastarne gli effetti più deleteri, vengono in mente espressioni del tipo «banca etica», «commercio equo e solidale». Al di là del fatto di sembrare dei paradossi se non dei veri e propri ossimori (come è possibile che attività volte al profitto possano essere etiche oppure eque e solidali?), tali espressioni, dato che contengono parole legate alla morale, pongono inequivocabilmente l’accento sul legame tra etica ed economia. Un legame che è esistito per secoli e che ha visto prevalere spesso, in passato, nelle società solistiche per dirla con Dumont, le ragioni e gli interdetti morali sulle attività economiche. Basti pensare alle posizioni espresse nelle società preindustriali e, fino a non molto tempo fa, anche dalla chiesa cattolica, nei confronti del commercio e, soprattutto, del prestito ad interesse, dell’usura. Del resto già Aristotele condannava la «crematistica», cioè la ricerca del profitto per mezzo dei rapporti mercantili. Secondo lo Stagirita il rapporto di scambio naturale si corrompe nell’attività mercantile, in cui si acquistano le merci al minor prezzo possibile per rivenderle, poi, ad un prezzo più alto. In questo modo non si persegue più il bene comune e, ingannando il fornitore e i clienti sul valore dei beni e approfittando dei loro bisogni e delle loro debolezze, si agisce contro la philia (l’amicizia politica che deve instaurarsi tra i cittadini), l’isonomia (l’eguaglianza nel riconoscimento dei meriti) e la giustizia.

Nelle prime due parti del libro Serge Latouche mette a confronto l’apologetica della società di mercato realizzata dalla scienza economica con l’ingiustizia del mondo che evidentemente svuota di contenuto ogni pretesa morale dell’economia. Poiché condividono il medesimo immaginario economico liberalismo e marxismo sono oggetto della stessa critica radicale, che si estende alla degenerazione dello Stato sociale di matrice socialdemocratica. L’illustrazione della banalità economica del male che si riassume secondo l’autore nell’impostura dello sviluppo, ripropone evidentemente la necessità di fare giustizia.

Ancora una volta, l’economista francese utilizza l’immagine della megamacchina tecnoeconomica per descrivere il processo di globalizzazione in atto. Una megamacchina di dimensioni planetarie, al cui interno «tecniche sociali e politiche (.), tecniche economiche e produttive (.) si scambiano, si fondono, si completano, si articolano in una vasta rete mondiale messa in opera da ditte transnazionali gigantesche (.) mettendo al loro servizio Stati, partiti, sette, sindacati, Ong ecc». Questa «macchina-universo» non ha altro fine che se stessa ed arriva ad utilizzare gli uomini come materia prima, mutandoli in «ingranaggi per fabbricare ingranaggi». La sua marcia trionfale si identifica con il progresso, l’efficienza, lo sviluppo assumendo un ruolo strutturante all’interno dell’immaginario moderno. Così, quasi insensibilmente, l’etica si trasforma e «l’utile diventa il criterio per eccellenza del buono, il bene-avere misurabile è identificato con il bene-essere». Eppure basterebbe osservare i fatti per comprendere come la «mondializzazione» generi necessariamente diseguaglianze ed ingiustizie: il divario che separa il Nord e il Sud del mondo è passato da un rapporto di 1 a 6 negli anni Cinquanta a 1 a 63 all’inizio del XXI secolo; le tre persone più ricche del mondo vantano un patrimonio superiore al Pil totale dei 48 paesi più poveri; gli averi dei quindici individui più ricchi superano il Pil di tutta l’Africa subsahariana; quelli delle 84 persone più ricche sono più consistenti del Pil della Cina, con il suo miliardo e duecento milioni circa di abitanti. Non solo: è noto che se tutti consumassero come gli occidentali le risorse fisiche del pianeta sarebbero rapidamente dissipate.

Per lo studioso francese, all’interno del rapporto economico di tipo mercantile attualmente dominante, se la natura diviene soltanto materia prima o carburante, l’uomo - giacché salariato, utente, consumatore - è ridotto a semplice strumento, merce, ingranaggio, con l’inevitabile «messa tra parentesi della sua cittadinanza e della sua umanità». Ma questo processo di strumentalizzazione dell’uomo, rileva Latouche, corrisponde in pieno a quella nichilistica banalità del male messa in luce da Hanna Arendt: «È nella logica dell’economia che si situa ormai la fonte prima del male banalizzato. Non è dunque nelle perversioni totalitarie della modernità che consiste il nucleo duro della banalità del male, ma nel cuore stesso del suo funzionamento normale. I sistemi totalitari non fanno altro che esibire in modo caricaturale l’ingiustizia fondamentale della società che ha dato loro nascita». Tutto questo non corrisponde all’estinzione di ogni etica. Regna «anzi una etica molto pregnante, ma una etica di secondo rango, una etica tecnica. Essa riguarda i mezzi e non i fini: è il perfezionismo, la ricerca dell’efficienza per l’efficienza. Questa etica è addirittura essenziale perché la banalità del male funzioni bene. La coscienza non deve scomparire, deve diventare completamente professionale». Per contrastare questo stato di cose, Latouche sostiene che occorre, innanzi tutto «una vera e propria decolonizzazione del nostro immaginario». Non si tratta, infatti, di moralizzare l’economia o di infondere frammenti di etica nel mondo degli affari, ma di «reintrodurre la considerazione della giustizia nel rapporto sociale e nello scambio in società». Il discorso, dunque, va spostato dal piano economico a quello sociale, reintroducendo l’economia all’interno della società, abbattendone il dominio assoluto su ogni aspetto della vita. L’obiettivo, in questo modo, non è un’economia giusta, ma una società giusta. In quest’ottica sono analizzati, e criticati, i diversi tentativi - da molte Ong a diverse altre forme di associazionismo - di moralizzare l’economia senza metterla radicalmente sotto processo: sono destinati in gran parte al fallimento, nonostante alcuni successi parziali ed al di là dei nobili ideali che possono muoverli. Non soltanto per «il deficit di vera vita democratica nel loro funzionamento e la modestia del loro impatto sulla vita degli affari», ma soprattutto perché non incidono in profondità sul vero problema, il problema della giustizia. Come afferma esplicitamente lo stesso Latouche: «Le vittime dell’ordine mondiale non sanno che farsene della carità, hanno sete di giustizia».

Nella terza parte del libro Latouche abbozza i tratti di quel che potrebbe significare una società giusta nel contesto di un mondo devastato dall’economia, insieme unificato e diviso dal mercato: definire il contenuto di una eguaglianza nello scambio e i ruoli possibili dei mercati e di una moneta di cui ci si sia riappropriati, in un mondo non limitato all’economia.

Una serie di strategie e di strumenti pratici, sottolineandone anche il carattere utopico, per potersi confrontare pienamente con lo strapotere in ogni settore dell’economico. E cita, ad esempio, i Lets (Local exchange trade systems) o Sel (Systèmes d’échange local), «associazioni i cui membri scambiano fuori mercato mediante una ‘moneta’ da loro creata e valida nell’ambito del gruppo, beni e servizi d’ogni sorta», analizzandone il funzionamento e prendendo posizione sui diversi problemi connessi, primo fra tutti quello della determinazione del prezzo dei servizi e dei beni scambiati. È, naturalmente, a favore di un consumo consapevole incarnato dal cosiddetto consumatore, visto come un elemento chiave all’interno di un’articolazione più vasta che veda insieme Sel, produttori alternativi, neorurali, movimenti associativi, tutti impegnati a «fare società». Inoltre, partendo dalle esperienze della società vernacolare africana nel campo del microcredito di base, Latouche propone una riappropriazione creativa del denaro, spogliato del suo essere merce, mezzo per ulteriori guadagni. E, sempre sulla scorta delle forme organizzative dell’Africa, contrappone i mercati, luoghi di scambio e di incontro, dove anche la dimensione del dono è incorporata nel commercio, al mercato e al suo immaginario, la cui abolizione è «una condizione del ritorno della giustizia al cuore della vita in società».

Serge Latouche è oramai entrato nella maturità della sua riflessione in una prospettiva di critica genealogica al concetto stesso di civilizzazione. È dal Social forum di Parigi del novembre 2003, che dichiara «il mondo è entrato nella quinta estinzione della specie», nel corso della quale proprio l’uomo sarà la vittima designata. A meno che non si riesca ad abbandonare repentinamente la strada senza uscita della crescita. La “decrescita sostenibile” deve essere una cosa reale, un passaggio epocale dalla società dello sviluppo a quella del post-sviluppo. Si tratta di fare “di necessità virtù”: da una parte frenare lo sviluppo per evidenti motivi ecologici, dall’altra creare una realtà in cui cresca la qualità della vita, una società in cui, gli uomini lavorino solo il necessario. Una società in cui la reciprocità metabolizzi l’individualismo e l’accumulo, ma questo richiede una rivoluzione culturale, una decolonizzazione economica delle nostre menti.