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Confapi, il 97% dei lavoratori lascia la liquidazione in azienda

di Sabrina Lauricella - 26/06/2007

 


C’era da aspettarselo: ancora una volta i politici dimostrano di non conoscere la realtà del Paese, e soprattutto quella imprenditoriale. È fallito, infatti, il vergognoso progetto bipartisan di sottrarre agli italiani in modo astuto la retribuzione differita della liquidazione. Artefice della sconfitta, da una parte, l’intelligenza dei lavoratori e le campagne informative condotte da molti, tra cui Rinascita, dall’altra la reale struttura imprenditoriale ed economica del Paese, che ha fatto sì che solo pochi dipendenti, per lo più nelle grandi imprese o nei settori più ricchi, abbiamo dirottato il trattamento di fine rapporto ai fondi pensione.
Secondo i dati diffusi ieri dalla Confederazione Italiana della Piccola e Media Industria, ben il 97% dei lavoratori delle aziende associate ha scelto di lasciare la liquidazione in azienda. Ad otto giorni dal termine ultimo per esprimere la volontà e decidere se destinare il Tfr alla previdenza complementare o meno, infatti, circa l’85% dei dipendenti delle oltre 50.000 imprese associate ha già consegnato la documentazione e il 97% di questi ha preferito rimanere nell’attuale regime. Solo il 2% ha optato per il fondo chiuso di categoria Fondapi e appena l’1% per i fondi aperti, quelli cioè gestiti dalle compagnie di assicurazione. Una disfatta ancora più significativa se si considerano i dati delle micro-imprese, composte da un numero di addetti non superiore a 9. In questa tipologia d’imprese, che rappresenta la maggioranza delle aziende specie nel terziario e nei servizi, la sconfitta dei fondi è stata totale: il 99,5% dei lavoratori ha deciso di lasciare la liquidazione in azienda, lo 0,5% di destinarla al fondo chiuso di categoria e nessuno ai fondi aperti.
La strada della previdenza integrativa, voluta dal mondo banco-assicurativo e imboccata dai politici di entrambi gli schieramenti con la scusa del risanamento e della necessità di garantire un futuro pensionistico dignitoso ai lavoratori, in sostanza, si è rivelata un fallimento sia rispetto alle presunte maggiori garanzie per gli italiani sia per chi da questa politica avrebbe voluto trarre vantaggio: mondo finanziario e sindacati che, ignorando l’evidente conflitto di interesse, si sono sempre dichiarati favorevoli alla riforma. “Come avevamo previsto - ha dichiarato il presidente della Confederazione, Paolo Galassi, - tra i lavoratori delle piccole e medie imprese associate a Confapi ha prevalso la volontà di lasciare il Tfr al datore di lavoro”, sottolineando l’ottica di condivisione e crescita comune particolarmente diffusa nelle piccole imprese dove più stretto è il legame tra dipendente e datore di lavoro.
A ben vedere, come ha sottolineato anche la Confapi, una situazione è emersa tra le piccole imprese, quelle cioè che hanno un numero di addetti compreso tra 10 e 40: il 95% delle liquidazioni è rimasta in azienda, il 4% è stata destinata al fondo chiuso di categoria e solo 1% è andato ai fondi aperti.
A portare a questo risultato, oltre al meccanismo-truffa del silenzio-assenso che ha spinto gli italiani a non lasciarsi imporre per legge una decisione irrevocabile non condivisa, è stata la struttura stessa del nostro sistema produttivo, fatto per la stragrande maggioranza da pmi e micro-imprese. Lo Stivale, infatti, è il Paese dell’Ue con la più alta presenza di questa tipologia di aziende anche se, con l’ingresso degli Stati ex-sovietici, il fenomeno si sta diffondendo, modificando anche la struttura complessiva europea e spingendo Bruxelles ad affrontare la nuova realtà produttiva. In Italia, inoltre, come ha evidenziato di recente l’Eurispes, il potere di acquisto è il più basso tra i Paesi avanzati. Ciò spinge gli italiani ad un atteggiamento prudenziale e a tenere a disposizione la liquidazione per eventuali emergenze. A ciò si deve aggiungere la scarsa fiducia, peraltro motivata, degli italiani nei confronti del mondo banco-assicurativo che, infatti, ha ottenuto risultati scarsissimi anche rispetto ai fondi negoziali gestiti dai sindacati, un fenomeno comunque agevolato dal favor legis, (1-2% in più a carico del datore di lavoro) assicurato dai politici ai fondi gestiti dai sindacati.
La decisione del governo Prodi di anticipare l’entrata in vigore della normativa al 2007, poi, si è rivelata un ulteriore errore, facendo sentire i lavoratori forzati nella propria libertà decisionale. “Sarebbe saggio prorogare di 6 mesi, fino al 31 dicembre, la scadenza del termine del silenzio assenso”, ha proposto alcuni giorni fa il presidente della Presidente della Commissione attività produttive della Camera, Daniele Capezzone, sperando forse di ottenere qualche adesione in più. Altri, ancor meno rispettosi della libertà degli italiani, hanno suggerito di imporre per legge la destinazione ai fondi pensione a tutti i nuovi occupati.
“Ma in che Paese vivete?”, verrebbe da chiedere - come ha fatto giorni fa un artigiano rivolto a Pierluigi Bersani - ai sostenitori di questa tesi, troppo furbi per essere intelligenti abbastanza da capire che gli stipendi degli italiani spesso non bastano ad arrivare a fine mese e non sono tali da consentire ai neoassunti di preoccuparsi del futuro pensionistico piuttosto che del presente e dei possibili imprevisti contingenti. Tanto più che i rendimenti effettivi dei fondi pensioni non sono in genere più elevati di quelli del Tfr, non preservano dal rischio fallimento dei fondi e rendono più ardua l’anticipazione e la cessione del quinto.