“L’ombra lunga di Napoleone”
di Stenio Solinas - 26/06/2007
Improbabili parallelismi forzati tra Bonaparte, Mussolini e Berlusconi
L’autore ha trasposto in una categoria a-storica un fenomeno che, invece, è incontestabilmente storico.
È un errore accomunare personaggi dai caratteri apparentemente similari vissuti in epoche diverse.
E
siste davvero un’ombralunga di Napoleone che
da Mussolini giunge
sino a Berlusconi? È
quanto si chiede Alessandro
Campi in un
libretto agile quanto
accattivante (Marsilio, 163 pagine, 11 euri)
che tuttavia non mantiene nel testo le certezze
del titolo. Lì dove, infatti, noi ci siamo
posti un interrogativo l’autore preferisce una
formulazione assertiva e dunque
L’ombralunga di Napoleone
. Da Mussolini a Berlusconiè la formula scelta e però già all’origine
sbilenca: dei tredici capitoli che lo compongono,
undici infatti sono dedicati al rapporto
fra il “piccolo còrso” e il Duce del
fascismo, e appena due alla
new entry delCavaliere della politica e dell’etere. L’ombra,
alla fine, si riduce a un’ombrina, oppure
a un’ombretta, e in fondo si potrà sempre
dire che è una questione di statura...
Campi è un saggista solido e un politologo
affermato e sa benissimo che muoversi sul
terreno accidentato della psicologia applicata
alla storia è un esercizio pericoloso. Per
giustificare l’utilizzo di materiali e fonti
molto eterogenei si rifà alla lezione
“di unstorico di talento oggi dimenticato, Niccolò
Zapponi”
, secondo il quale per cogliere ilclima di un’epoca era necessario
“ricercarenella cultura non le tracce dell’intelligenza,
ma quelle del pregiudizio, dell’incomprensione,
della superstizione fobica, dell’utopia
inconsistente, in altri termini, accollarsi la
mansione di restituire peso storico alle
banalità”
. È una tesi estrema e di per sé nonsufficiente e lo stesso Campi ne è consapevole:
“In questo libro ho molto lavorato con
materiali poveri, grezzi, eccentrici, ‘banali’,
senza cercare di distinguerli da quelli più
ufficiali, autorevoli e rigorosi. Con quale
risultato lo deciderà, a questo punto, il lettore”
.Ma il lettore si chiede che senso
abbia mettere sullo stesso piano la conferenza
su Napoleone e Mussolini del capitano di
fanteria Gino Scavizzi, stampata a Gubbio
nel 1923, i saggi di Emil Ludwig, i lavori
biografici di un Pini, eccetera.
Sostiene l’autore che il napoleonismo di cui
tratta il suo libro riguarda
“uno stato mentale,una disposizione caratteriale, un modo
di atteggiarsi nei confronti del mondo e
degli uomini, una febbre interiore, una ‘personalità’
che nella storia è possibile rinvenire
solo in alcuni casi particolari. È un
demone che consuma l’anima, non una
malattia della mente”
. In quest’ottica è senz’altrolecito interrogarsi sul napoleonismo
mussoliniano come su quello berlusconiano.
Solo che così facendo si trasforma in categoria
astorica un fenomeno storico nello
stesso momento in cui, storicamente, ci si
illude di inquadrarlo.
Vediamo di spiegarci meglio. Nata alla fine
dell’Ottocento, la generazione di Mussolini
vedeva in Napoleone, morto cinquant’anni
prima, uno dei loro. I suoi esponenti sentivano
come propria quella condizione di centauri,
metà civili e metà militari, metà scrittori
e metà politici, metà artisti e metà legislatori.
Come lui pensavano che si potesse
cambiare il mondo, che l’individuo potesse
intervenire nel fiume della storia. Ne coglievano
la modernità, spartiacque fra l’antico
regime che non sarebbe più tornato e il
mondo nuovo in gestazione. Il primo Novecento
è ancora figlio di Napoleone, con
quella fede, che poi si rivelerà illusoria, di
conciliare uomo e materia, singolo e massa,
dèi e demoni, gesta esemplari e quotidianità.
Dietro il fascimo, dietro un certo leninismo,
si allunga l’ombra del “piccolo còrso” e
quest’ombra copre storicamente più che psicologicamente
Mussolini. Allorché però
quel primo Novecento si chiude, di quell’eredità
non è rimasto più nulla, se non qualche
caricatura sanguinosa, qualche sindrome
medica. Da presenza è divenuta assenza, si è
trasformato, finalmente e definitivamente, in
antenato. Non ha più posto, non abita più
qui. E questo spiega perché pretendere di
allungarla sino a Berlusconi ha più a che
fare con la patologia medica che con la
fisiologia della storia.
Campi lo sa benissimo, come risulta anche
dalla disparità di trattamento nell’analisi fra
le due figure, il signor M e il signor B, a petto
della terza, ovvero il signor N. È anche
per questo che evita nell’analisi della fascinazione
mussoliniana per Napoleone di mettere
in evidenza il complesso rapporto che ci
fu fra il fascismo e la rivoluzione francese,
fra i gerarchi fascisti e gli uomini dell’Ottantanove:
volenti o nolenti ne erano i figli più
o meno legittimi, gli eredi più o meno iconoclasti.
Parlavano la stessa lingua, insomma,
si capivano.
L’ombra lunga di Napoleone
è costruito piùcome un
pamphlet che come un saggio politologico.Del primo ha quindi i pregi, lo stile
veloce al servizio di una idea precostituita,
l’audacia e la irriverenza degli accostamenti.
Ne possiede però anche i difetti, riassumibili
nel moltiplicare gli obiettivi via via che
quello di fondo risulta più debole ovvero più
sfuggente. Scrive il suo autore che questo
libro “non è solo una ricostruzione dell’ideologia
napoleonista, una ricognizione sull’incidenza
del mito mussoliniano nella storia
d’Italia e una divagazione sul berlusconismo.
È anche una riflessione sul significato
delle grandi personalità; una rassegna del
ruolo svolto dal mondo intellettuale nel
costruire e nell’accreditare miti e credenze;
una messa in guardia sulle patologie del
potere nell’epoca della politica di massa”.
Troppa grazia, verrebbe da dire, per un libro
solo.
Fra gli elementi più suggestivi, per quanto
epidermici, del rapporto Napoleone-Berlusconi,
Campi suggerisce, con la malizia del
cronista di razza, una molteplicità di segni e
coincidenze. C’è Arcole, dove il primo vinse
e Arcore, dove il secondo alloggia. Palazzo
Grazioli a Roma, dove il leader di Forza Italia
risiede e presiede è a un passo da palazzo
Bonaparte dove visse donna Letizia Ramorino,
ovvero la
madame-mère, e da palazzoTorlonia, dimora di Luciano Bonaparte.
Così come c’era il clan dei Napoleonidi,
familiare, c’è quello dei Berlusconidi, amicale,
ma altrettanto compatto e articolato da
una ferrea gerarchia. L’uso della bugia in
Napoleone, ovvero costruire ad arte la propria
verità, sino a imporla a tutti, una sorta
di sigillo del comando, è speculare all’utilizzo
della menzogna, pubblica e privata, di
Berlusconi...
Basta? Naturalmente no “per un rapporto
storico diretto”. Ma esiste, secondo Campi,
“una mentalità comune, un modo di atteggiarsi
nei confronti della vita e del mondo
assai simile”. Ciò che resta fuori è tuttavia il
Senso del Tragico che fu proprio di Napoleone
come di Mussolini, è che è invece
completamente assente in Berlusconi. Senso
del Tragico non vuol dire solo conoscere
amarezze, dolori, sconfitte, ma anche esserer
pronto a sfidarli, a rischiare l’impopolarità
come l’insuccesso. Nell’arte della seduzione
berlusconiana, l’elemento del consenso e del
convincimento non prevede mai la scelta
dirimente o il conflitto, ma sempre l’accordo
o l’acquisto. È anche per questo che, nonostante
una certa vulgata interessata quanto
contraria, il signor B non sarà mai un pericolo
per la democrazia: è naturaliter democratico,
all’opposto di ciò che furono gli altri
due campioni di questa supposta triade.
Berlusconi non è un problema per la democrazia
moderna, è quest’ultima, oggi come
oggi, a essere un problema in sé, perché non
ha più una sovranità radicata, perché è un’aristocrazia
di poteri mascherata, perché è
ostaggio di una oligarchia politica, eccetera,
eccetera. Ma questa, come diceva quel tale,
è un’altra storia.