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Perché ci odiano? La storia stessa è nata con questa domanda

di Luciano Canfora - 28/06/2007

Tom Holland pone il conflitto greco-persiano all'origine di quello attuale. Un'analisi che fa discutere
Il mito millenario e la «domanda di Erodoto»: da dove viene lo scontro di civiltà con l'Oriente

«Perché ci odiano?», la storia stessa è nata con questa domanda giacché fu nel conflitto fra Oriente e Occidente che il primo storico del mondo, nel lontano V secolo a.C., scoprì il tema dell'opera di tutta la sua vita. Si chiamava Erodoto.

La differenza tra Oriente e Occidente — scrive Tom Holland ad un certo punto della prefazione al suo Fuoco Persiano (Il Saggiatore, pagine 448, e 22) — è il «presupposto più duraturo della storia ». Che il pensiero di Holland sia attizzato dalla attuale, fittizia, contrapposizione tra Bush e Ahmadinejad è dimostrato dal fatto che la domanda attribuita all'attonito Bush dopo l'11 settembre 2001, «Perché ci odiano?», viene da Holland attribuita direttamente ad Erodoto: la brillantezza sfiora la disinvoltura. Infatti Erodoto non si esprimeva così, si poneva invece la domanda intorno all'origine del conflitto greco-persiano e inoltre prometteva un racconto che desse conto della grandezza sia degli uni che degli altri, tanto da essere definito — sei secoli dopo — «filobarbaro» da Plutarco in uno scritto che è soprattutto una esercitazione scolastica. Naturalmente il conflitto greco-persiano si presta a tali diagnosi sommarie ed inoltre è materia che, nonostante il moltissimo che se n'è scritto (penso alla fondamentale Bataille de Salamine edita a Parigi dal greco Rados nel 1915), continua ad appassionare e a suscitare nuove ricostruzioni talvolta molto ben fatte, come ad esempio La forza e l'astuzia di Barry Strauss (Laterza 2004).
Holland ha il pregio di saper narrare, e quindi — trovandosi necessariamente debitore delle fonti antiche — sa amabilmente rielaborarle e vivacizzarle. Anche facendo intervenire la fantasia: come quando immagina «il calpestio dei piedi dei soldati che ripiegano» (p. 286) o la non attestata «corsa» di Ipparco attraverso una piazza di Atene nel giorno dell'attentato (p. 142). Lui stesso ci scherza su, quando autoironicamente descrive il ruolo delle sue note a piè di pagina, preannunziate — scrive — da «un numero nel testo aleggiante come una mosca su un mucchio di letame» (p. 22).
Ciò che però merita, soprattutto, attenzione non è tanto la brillantezza della ricostruzione quanto la sua ferrea unilinearità ancorata all'antagonismo Oriente/Occidente visto appunto come «presupposto duraturo della storia» e incarnato, per così dire, dallo scontro armato tra Greci e Persiani nei primi decenni del V secolo a.C. Lo schema è tenuto fermo da Holland fin nel «commiato » del volume culminante nella vittoria di Alessandro sui Persiani. Molte incrinature si potrebbero in verità infliggere a questo schema. Per esempio, richiamarsi al giudizio di Tucidide secondo cui le guerre persiane ebbero assai minore importanza rispetto al conflitto di potenza tra gli stessi Greci, la cosiddetta «guerra del Peloponneso ». Oppure ricordare che per gran tempo la storia delle città greche aveva avuto nel re di Persia e nei suoi satrapi i principali registi: ben prima di Beloch, lo pensava già Demostene, ma di sicuro, ancor prima, Ippia e lo stesso Temistocle. E scendendo nel tempo si potrebbe osservare che, a lungo, il grande antagonista dell'impero romano (cioè dell'«Occidente» per eccellenza) furono i Germani a Nord ben più che i Parti ad Est; e che comunque l'impero romano cosiddetto «d'Oriente» o «bizantino», pur essendo innegabilmente e legittimamente l'erede di Roma (la «Seconda Roma»), fu via via trattato dagli Occidentali come un nemico se non addirittura come la quintessenza dell'Oriente. Insomma aveva ragione Gibbon quando scriveva (ma Holland se ne libera senza discuterlo) che «la differenza tra Est e Ovest è arbitraria e si sposta intorno al globo».
In un libro giovanile, pieno di intelligenza, Santo Mazzarino parlò, per l'età arcaica, di «due Orienti»: quello del mondo microasiatico sfociante nella Ionia e quello assiro- babilonese (poi persiano) che «feconda la grecità» ( Tra Oriente e Occidente, Bollati Boringhieri, p. 24). E in un celebre saggio di molti anni più tardi ( Persian Empire and Greek Freedom, 1979) Momigliano osservò, tra l'altro, che «conosciamo circa 300 nomi di Greci che operarono al servizio dei Persiani nei circa due secoli prima di Alessandro»: medici, artigiani, mercenari etc. Per non parlare dei moltissimi che si schierarono con Serse già nel 480-479, o della opzione filopersiana dello stesso oracolo di Delfi.
Eppure non si trattava solo di propaganda. Cosa c'era dunque di «incompatibile» tra Greci e Persiani, nonostante tutti gli intrecci, i compromessi, le temporanee dipendenze? Momigliano rispondeva all'ineludibile quesito additando la scelta, greca, di porre «le leggi» al di sopra del «potere» dispotico; il quale può essere illuminato ma anche non esserlo. Focilide proclamava la superiorità di una «città ordinata» persino rispetto alla splendida Ninive.
Ma è il corto circuito tra l'antico e l'odierno conflitto che non funziona. L'«Oriente» contro cui oggi reputiamo (o meglio alcuni reputano) di essere in guerra non è che una creazione retorica. È Oriente la Russia alle prese coi Ceceni? O l'India alle prese con il rissoso vicino pakistano?

Muro contro muro, da 2500 anni
Perché ci odiano? Nei giorni e nelle settimane che seguirono l'11 settembre, il presidente Bush non era l'unico a porsi quella domanda assillante. Sui giornali innumerevoli esperti tentavano di spiegare il rancore dei musulmani per l'Occidente, facendo risalire le sue origini alle bizzarrie della più recente politica estera americana oppure, risalendo ancora più indietro, alla spartizione del Medio Oriente operata dalle potenze coloniali europee o addirittura — seguendo l'analisi di Bin Laden a ritroso, fino al suo punto di partenza — alle crociate stesse. Nell'idea che la prima grande crisi del XXI secolo potesse essere emersa da un vortice di odi antichi e confusi c'era un'evidente ironia: la globalizzazione avrebbe dovuto sancire la fine della storia e invece sembrava destare dal loro riposo ancestrale un gran numero di fantasmi sgraditi. Per decenni l'Oriente a cui l'Occidente si è contrapposto era comunista; oggi, come da sempre prima della rivoluzione russa, è islamico. La guerra in Iraq; la crescita in tutta Europa di sentimenti di intolleranza verso gli immigrati, soprattutto se musulmani; la questione dell'ingresso della Turchia nell'Unione Europea; tutto questo, combinato con gli attacchi dell'11 settembre, ha alimentato un'angosciosa consapevolezza della spaccatura che divide l'Occidente cristiano dall'Oriente islamico. Che le civiltà siano condannate a nuovi scontri, come hanno variamente sostenuto i terroristi di al-Qaeda e gli studiosi di Harvard, rimane tuttora una tesi controversa. Ma è indiscutibile che le diverse culture, almeno in Europa e nel mondo musulmano, attualmente sono obbligate a esaminare con attenzione le fondamenta stesse delle loro identità. «La differenza fra Est e Ovest», pensava Edward Gibbon, «è arbitraria e si sposta intorno al globo». Tuttavia, il fatto che esista... l'Oriente è l'Oriente, l'Occidente è l'Occidente — è senza dubbio il presupposto più duraturo della storia. Molto più antico delle crociate, dell'Islam o del cristianesimo, la sua ascendenza risale quasi a 2500 anni fa.