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Le tribù minacciate dagli ecologisti, cacciate per far posto ai parchi.

di redazionale - 28/06/2007

 

Dall'Africa all'Australia, "trasferimenti" forzati per creare riserve: dietro la maschera "verde" oscuri accordi fra governi e

aziende.

A dicembre in Sri Lanka un gruppo di indigeni Wanniyala-Aetto (letteralmente il popolo della foresta) sono stati multati.

La loro colpa era di aver sconfinato all'interno del loro stesso territorio. A giugno in Olanda l'organizzazione privata

Fondazione dei parchi africani ha respinto un appello arrivato dalla lontana Etiopia: chiedeva di riconoscere i diritti dei

Mursi, un popolo pastorale che vive nella zona sud-occidentale del paese africano. Nelle stesso tempo gli indigeni Batwa

discutevano con i rappresentanti del loro governo, quello dell'Uganda: oggetto del contendere il diritto di caccia in terre

da sempre appartenenti a questo popolo.

Tre storie diverse che al centro hanno un problema unico: la lotta fra i difensori della natura e le popolazioni indigene

che, nei luoghi che gli ambientalisti vorrebbero preservare vivono da generazioni, e non accettano di essere mandate via

o limitate nelle proprie abitudini in nome della creazione di riserve o parchi protetti. "Le comunità indigene sono sull'orlo

dell'annientamento e della dispersione - non è stato fatto abbastanza per difendere i loro diritti", ha detto qualche giorno

fa a Ginevra Rodolfo Stavenhagen, responsabile Onu per i diritti delle popolazioni indigene.

Stavenhagen puntava il dito contro i governi e gli enti gestori dei parchi nazionali, accusati di non tenere in

considerazione le necessità dei popoli che vivono nelle aree destinate a protezione ambientale. In tutto il mondo dal 1990

la superficie totale delle terre poste sotto protezione è raddoppiata, raggiungendo il 12% del totale. Fare una stima esatta

del numero delle persone coinvolte è impossibile: i calcoli più attendibili vanno da un minimo di cinque a un massimo di

diverse dozzine di milioni. Nella sola Africa, secondo il sociologo Charles Geiser, ci sarebbero 14 milioni di "rifugiati

ambientali".

E' una storia poco conosciuta che da anni alcune organizzazioni non governative - Survival International e Forest People

in primo piano - si battono per portare all'attenzione generale. Tre anni fa a Durban, un incontro mondiale sulla

conservazione e la gestione dei parchi, sembrò segnare una svolta decisiva, con l'adozione di un documento che

garantiva i diritti degli indigeni nelle zone protette. Ma a tutt'oggi la questione resta in primo piano, come ha dimostrato

un dossier della rivista ecologista americana Orion Magazine pubblicato nei mesi scorsi.

"Il fatto è che per centinaia di anni, a partire dal 19simo secolo, si pensato che proteggere un'area significasse

escluderne ogni presenza umana - spiega Marcus Colchester, direttore del Forest People Programme - popolazioni

intere sono state cacciate o hanno visto i servizi essenziali ridotti ed eliminati. La loro terra non era più loro".

La teoria di Colchester e di molti come lui è abbastanza chiara: se la conservazione dell'ambiente negli ultimi decenni è

diventata un tema di sempre maggiore attualità, così non è stato per i diritti delle popolazioni indigene. La lista di casi di

popoli cacciati per far spazio a parchi è lunga: si va dai Masai del Kenia e della Tanzania ai Chetri del Nepal, passando

per gli aborigeni dell'Australia e i pigmei del Camerun. Fra i governi e le associazioni ritenute responsabili di questi o

simili casi dagli stessi popoli tribali ci sono imputati eccellenti: Conservation International, the Nature Conservancy, la

Wildlife Conservation Society e lo stesso Wwf.

Negli ultimi anni qualcosa è cambiato: in qualche caso sono stati i governi - vedi Australia e India - a cambiare politica. In

qualche altro le associazioni - il Wwf - ad adottare politiche diverse e più aperte verso gli indigeni. Ma ci sono stati anche

segnali di senso inverso, come l'attenzione delle multinazionali per l'ecologia: spesso dietro alla maschera di una

"politica verde", spiega Orion, si sono nascosti accordi fra aziende e governi per consentire lo sfruttamento di aree vicine

a quella protetta. In qualche caso addirittura lo schermo del parco nazionale è stato usato per facilitare l'allontanamento

da zone potenzialmente redditizie delle popolazioni locali: il caso dei Boscimani del Botswana, che hanno appena vinto

una causa contro il governo accusato di volerli cacciare dal loro territorio per poi dare via libera alle esplorazioni

diamantifere della Debswana, è esemplare.

Altro elemento negativo paradossale è il turismo: "Troppo spesso i tour operator trattano i popoli tribali come oggetti

esotici di cui godere come di una parte dello scenario - spiega Francesca Casella dell'ufficio italiano di Survival

International - oppure mirano alla creazione di aree naturali cosidette "protette" per attirare visitatori: peccato che in

queste zone spesso non vi sia più spazio per chi ci ha sempre vissuto".

Tutto questo, in base al documento firmato a Durban, dovrebbe finire entro il 2015: per quella data tutte i parchi naturali

esistenti e quelli che saranno creati dovranno adottare un modello di co-gestione con le popolazioni indigene. Se questo

accadrà, Colchester si ritroverebbe senza lavoro ma per ora la possibilità non lo spaventa: "Le cose si stanno muovendo,

ma non abbastanza velocemente. Continuiamo ad assistere a espropriazioni e soprusi. No - conclude - non credo che

rimarrò disoccupato a breve".

La Repubblica, 13 maggio 2007