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Fuirirotta sui pedali

di Emilio Rigatti, - 28/06/2007

 

 

Le città, quando sentono arrivare il peggio, trovano spesso degli anfratti, delle catacombe, dei nascondigli dove nascondersi in attesa che la bufera passi. Ma non è detto - anzi, è altamente improbabile - che si svelino al viaggiatore, mentre sono assolutamente invisibili al turista, i cui occhi non possono leggere le frequenze luminose che permettono la percezione ottica delle Città Invisibili. Ho deciso di saltare o di non soffermarmi nelle grandi città. […]

Questa entrata dalla porta di servizio che mi hanno indicato gli amici di Castel Maggiore la annovero tra i casi fortuiti che, in ogni caso, si presentano di tanto in tanto a chi viaggia un po' alla maniera dei vagabondi. Insomma, mi sento col carniere pieno e alla giornata di oggi non penso di chiedere di più che un letto e l'ospitalità di Elisa e Guido. Invece, proprio grazie al mio ospite che ancora non conosco, avrò l'ultima sorpresa della giornata.

L'appuntamento con Guido è sotto la fontana del Nettuno e tra noi scatta una simpatia reciproca. Mi chiede subito se voglio fare una camminata per il centro prima di andare a casa loro. Poi mi dice: "So che nel tuo piano di viaggio non ci sono le grandi città, ma credo che ci sia una cosa, una sola, che ti potrebbe affascinare. Non ci mettiamo molto tempo". "Be'", dico incuriosito, "se dici che è una cosa rapida". Così ci facciamo una camminata sotto i portici, nel dialetto che nuota nella luce elettrica, davanti alle vetrine in chiusura. Il bolognese, aperto, frizzante è come un gas esilarante, riempie la bocca con la facilità del lambrusco e vi si spalma come lo squacquerone. Nelle botteghe dei pizzicagnoli rilucono prosciutti e formaggi, bilance e bottiglie; e il dente d'oro di un bottegaio che vivere in mezzo a tanta bontà ha condannato a un sorriso perpetuo.

"Esiste una Bologna" dice Guido "che non c'è più perché è finita tutta sotto terra". "Non riesco a capire" rispondo. "In realtà" mi spiega "né è rimasto un tassello, una specie di finestra sul passato, se vuoi te la mostro". Imbocchiamo via Righi e quindi svoltiamo in via Piella, una vecchia strada con portici continui su entrambi i lati. A metà del porticato, tra una saracinesca chiusa e un ristorante, sul muro c'è una finestrella di cinquanta centimetri di lato. "Affacciati" mi dice Guido. Io mi aspetto di trovarmi di fronte a un salotto o a un cortile interno. Alla luce blanda delle finestre delle case che lo sovrastano, un fiume dalle acque vivaci, che ormai non c'entra più nulla con la città, scorre per un centinaio di metri prima di tornare a sparire nel sottosuolo. Tiro fuori la tesa dall'apertura e mi ritrovo nel centro di Bologna, mi affaccio di nuovo e sono in un francobollo della città invisibile, scomparsa per sempre. Il passaggio dall'una all'altra è così repentino e sorprendente da far pensare a un sogno. Seguo Guido sotto i portici illuminati mentre mi racconta delle cose su una Bologna che non c'è più perché è finita tutta sotto terra. "Questo era un centro d'acque, più di Treviso" prosegue "una Venezia di pianura percorsa dal Reno, dal Navile, dall'Aposa, dal Canale di Reno in cui si immergevano le pale delle seterie, vanto e ricchezza della città". L'unica cosa che non mi era mai piaciuta di Bologna era questa mancanza di un affaccio sull'acqua, la sua eccessiva terrestrità. Così scopro che fino al 1885, anno del piano regolatore grazie a cui si recuperò un 30 per cento in più di suolo urbano a spese dei rivi, i bolognesi avevano scorci fluviali in ogni dove e l'impagabile musica delle acque si mescolava ai passi degli uomini. "E i fiumi dove sono?". Ovvio, sono tutti sono i nostri piedi, tombati per sempre. La finestra su ciò che resta del Canale di Reno mi ha fatto venire un brivido e un po' di rimpianto per la città dai fiumi sepolti.

A cena con Elisa e Guido ci sono quattro amici loro, tutti appassionati di bici o di viaggi. Guido stesso ha attraversato più volte l'Atlantico in barca a vela e un suo amico, Goffredo, domani mi accompagnerà al Passo della Futa per una strada secondaria. "È una strada larga e asfaltata" mi annuncia "ma nessuno la usa più da quando c'è l'autostrada: non c'è ciclovia che regga il confronto".

Il sogno segreto dei corvi d'Orvieto è mettere a morte i corvi di Orte. Oltre a questi versi di Toti Scialoja, l'esistenza di Orte, per me e credo per la maggior parte degli italiani era dedotta ma non provata solo da fulminei passaggi in treno per l'omonimo scalo ferroviario. Ma va da sé che l'esistenza di uno scalo ferroviario non comprova anche quella di una città, perché esistono sia scali senza città che città senza scali. Se fossi designato quale membro da un'illustre società geografica, certamente presenterei, come prolusione, una relazione sulla scoperta di questa località che molti, primo tra tutti il sottoscritto, hanno creduto consistesse solamente in una stazione, quella che notoriamente precede l'arrivo a Roma Termini. Devo confessare che è stata una scoperta del tutto casuale, dovuta non a lunghe indagini, ma a un calo repentino degli zuccheri che mi ha costretto a una sosta che sento come una resa, forse per oggi definitiva. Bene, se la "cotta" mi avesse colto qualche chilometro dopo, in altre parole se non mi fossi fermato sotto lo sperone tufaceo dove posa questa città per spararmi una dose di spinaci concentrata, probabilmente continuerei a credere che Orte è solamente uno scalo ferroviario.

La prima cosa che mi ha catturato l'attenzione è stata un cielo complicato di nubi veloci, sotto cui mi è apparsa, quasi fosse un Appeso dei tarocchi, una teoria di case affacciate a precipizio. Da sotto la roccia ho avuto l'impressione di una città sospesa tra due abissi opposti, il cielo nuvoloso e il dirupo, una città dirigibile di pietra. Così ho deciso di salire, nell'attesa che la schifezza ingurgitata andasse a rimpiazzare i kilojoule bruciati contro erte e scirocchi. Anche se sconquassata dalla speculazione edilizia che la assedia, Orte conserva un cuore fresco e antico, con odori d'ombra, di fiori, di muffe, con gli stretti spazi tra case e palazzi attraversati da volte che scavalcano le vie appoggiandosi alle mura che sostengono. Tre arcate di un acquedotto mantengono il cielo staccato dalla città, e l'ombra e il vento, rinfrescanti e sonori, s'insinuano nei vicoli. Davanti alla chiesa di San Silvestro, dalle forme romaniche e un campane con monofore, una colonna votiva e ultimativa ricorda ai distratti che Dio è uno e trino.

Un po' più avanti, la Cattedrale sfoggia una curiosa ma non spiacevole facciata in marmo candido, con due volute di svolazzi ai lati del timpano che sembrano un connubio tra rinascimento, liberty e pasticceria. […]

Lo scirocco scuote così forte le finestre della cupola che per un attimo penso al terremoto, e tocco una colonna prima di decidere se restare o scappare fuori. Poi m'immergo nelle vie, animate da tranquilli salotti all'aperto, popolati di anziani che approfittano dell'aria condizionata delle folate. Il vento si insinua nel borgo e lo rende sonante e leggero, concitato di panni svolazzanti sugli stenditoi e di cascate di fiori impazziti alle finestre. […]

Ancora un accento nuovo, una cadenza mai sentita, che con i fiori, i panni, il vento e l'ombra di Orte contribuisce a farmi intuire l'anima di qui, il profumo della città vera, che io credevo esistesse solo negli orari ferroviari e, al volo, sui finestrini del treno…

La perla d'Aspromonte

Il traffico si fa sentire non appena arrivo nella sfera gravitazionale di Gambarie, che è rinomato centro di vacanze e stazione sciistica. Più mi avvicino al paese e più sento una sorta d'angoscia prendermi la gola: centinaia di macchine parcheggiate, bancarelle, stereo a volumi bellici, passeggiata confusa. Poi alberghi, ristoranti, bar, happy hours, boutique. Dovevo aspettarmelo: i siti web esplorati nei giorni scorsi lo decantavano come magnifico. "Le multiformi bellezze che fanno dell'Aspromonte in generale e di Gambarie in particolare uno dei posti naturali unici e incontaminati esistenti sul pianeta…perla d'Aspromonte…balcone sul mare" si legge in uno di essi. Gambarie è unico in Aspromonte, ma dal mio punto di vista è ottima cosa che sia così. Cinque o sei Gambarie e addio solitudini delle vette. M'immagino l'eremo di don Gelmini con duecento macchine e più parcheggiate nei dintorni, il rumore, la spazzatura… Succederà, un giorno? C'è da scommetterci. Si tengano la perla, io preferisco la conchiglia. Mi viene da rivalutare le autostrade, che mantengono chiusi tra due barriere invalicabili milioni di persone che si spostano in cerca di un posto dove assieparsi nel casino totale: prima avanti e poi indietro, come certi animali prigionieri che vanno eternamente su e giù davanti alle sbarre delle gabbie. E Reggio? Come sarà Reggio? Traffico, smog, difficoltà di trovare una stanza a buon mercato. Decido che se trovo una sistemazione, oggi non ci vado. Cosa cambia se scendo domani? Non la rubano mica e i bronzi li ho già visti…


"Italia fuorirotta" [Ediciclo,315 pagine, 16,50 euro] è il racconto di una lunga pedalata, da "quasi" Venezia a "quasi" Reggio Calabria, lungo la spina dorsale dell'Italia. Compiuto nel 2003 in parte assieme al figlio Amadeo e in parte in solitaria, il "viaggio a pedali lungo la Penisola del tesoro" è la quarta fatica letteraria di Emilio Rigatti, intrepido insegnante cicloviaggiatore. Nato a Gorizia e forse per questo insofferente ai confini, Emilio Rigatti ha raccontato in "Minima pedalia" [2004] la scelta di lasciare l'auto per adottare la bici come mezzo di trasporto quotidiano. Nel 2001, è stato protagonista di un viaggio ormai quasi leggendario, in bici da Trieste a Istanbul, invidiato da molti ciclisti d'Italia, sia per l'itinerario, che per la compagnia [Francesco Altan e Paolo Rumiz]. Da quella scorribanda è nato "La strada per Istanbul" [premio Albatros per la letteratura di viaggio nel 2002], mentre i suoi trascorsi sudamericani sono stati raccontati in "Yo no soy gringo" [2005]. Da qualche tempo, la sua firma compare anche su CartaQui Estnord.

Elogio dell'andare a pedali, "Italia fuorirotta" racconta con la piacevolezza di una chiacchierata tra amici, la scoperta di ciò che si nasconde lontano dai caselli autostradali, dalle riviere iperturistiche, dagli ingorghi. Ma anche dalla tentazione muscolare dell'impresa ciclistica fine a se stessa. La bici diventa una lente d'ingrandimento che amplifica il bello e il gusto di scoprirlo. Henry David Thoreau, il poeta statunitense di "Walden" scrive: "Due strade trovai nel bosco, e scelsi quella meno battuta". È un'indicazione stilistica che moltiplicata per i milleottocentoventiquattro chilometri percorsi sui pedali produce un viaggio eretico, zeppo di incontri, frammenti, gusti, lingue. E un'istigazione: l'appendice pratica, da ciclista, con le indicazioni sul percorso, è una sirena tentatrice pronta ad ammaliare altri potenziali "andanti".