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Prima che la Natura muoia

di Enrico Falqui - 28/06/2007

 
Qualche sera fa, seguivo la trasmissione di Santoro Anno zero ascoltando uno sguaiato e confuso dibattito sul tema della Natura e del Bel Paesaggio ferito in Italia, alimentato dalle invettive di Travaglio, Sgarbi, Jacopo e Dario Fo, ai quali Rutelli cercava invano di contrapporre razionalità ed equilibrio.
Mi è tornata in mente, in mezzo a quel frastuono di parole noiose e inutili, le frasi con le quali Jean Dorst, celebre ornitologo francese, concludeva il volume della sua opera più importante, Prima che la Natura muoia (1969) : «la natura potrà essere salvata solo dal nostro cuore… solo se l’uomo le manifesterà un po’ d’amore… perché noi abbiamo bisogno di bellezza».
Già, l’uomo ha bisogno di bellezza e la natura di amore, potrebbe essere un idillio perfetto, ma spesso nelle storie d’amore uno deve sforzarsi a capire un po’ di più l’altra o viceversa. Invece spesso abbiamo preferito descrivere la natura come “matrigna” o come “sposa infedele” perché essa spesso si è ribellata alle aggressioni dell’uomo, senza nemmeno fornire un preavviso.
In realtà, dice Dorst, noi facciamo tanti discorsi inutili e elaboriamo falsi giudizi sulla Natura, poiché nonostante che riteniamo di conoscerla, non facciamo alcun sforzo per comprenderla meglio.

L’esempio migliore che possiamo usare oggi per comprendere meglio la natura è dato dalla biodiversità esistente in tutti gli ecosistemi che vivono sul nostro pianeta.
La diversità biologica è definita dalla varietà della vita in tutte le sue forme ed essa fa si che l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo siano pulite, ci dà da mangiare, alimenta le nostre macchine, ci fornisce quanto ci serve nella nostra vita quotidiana; ma essa assicura anche a tutte le altre specie le risorse necessarie alla sopravvivenza.
Nell’Europa meridionale circa un terzo delle zone umide è andata perduta negli ultimi 60 anni e oltre un terzo dell’avifauna europea rischia l’estinzione, in particolare a causa della diffusione dell’agricoltura e della silvicoltura intensive e della crescente pressione antropica prodotta dallo sviluppo delle grandi infrastrutture.
Nel secolo che ci sta alle spalle l’estensione delle dune si è ridotta del 40% lungo le coste occidentali dell’Europa; un terzo di queste perdite si è registrato a partire dagli anni ’70, a causa soprattutto della crescente urbanizzazione costiera, degli usi ricreativi degli arenili e a improprie forestazioni dei litorali.
In Europa sono presenti 172 specie di vertebrati e 2851 specie superiori (IUCN 1996, IUCN 2006) e in un numero considerevole di paesi, e di categorie e di specie, oltre il 45% delle specie selvatiche conosciute di vertebrati risulta minacciato.

Il dato significativo, però, è quello scoperto dallo scienziato inglese Furness (1993), il quale afferma che la pressione globale delle attività umane sulla biodiversità è maggiore di quanto stimato fino ad oggi sull’avifauna e che i cambiamenti evidenziati su altre specie animali e vegetali sono ancora più gravi poiché vengono progressivamente distrutti, a causa della crescita dell’urbanizzazione e della frammentazione degli habitat, gli ecofields necessari alle varie attività quotidiane delle comunità viventi.
Nel linguaggio comune, il mosaico dei diversi ecofields funzionali alla vita, alla riproduzione e all’evoluzione delle comunità e delle specie viventi su ciascun territorio, rappresenta la moderna definizione di paesaggio.
Costruiti dalla selezione naturale, gli esseri umani insieme ad altri organismi percettori hanno, tra le loro strategie di sopravvivenza, anche quella di porsi degli obiettivi. Per raggiungerli, dobbiamo comprendere meglio la natura, le cui forme, strutture e colori compongono in modo indissolubile un paesaggio percepito dall’osservatore umano in rapporto con la sua evoluzione ecologica.
Una delle maggiori scrittrici americane del ‘900, Edith Wharton, così descrive il paesaggio rurale toscano: «…il primo piano di questi scenari toscani è quasi sempre piuttosto semplice: pendii intessuti di viti e gelsi sotto cui il tenero frumento ondeggia come una fiamma verde; uliveti color cenere e qui e là una fattoria con il tetto sporgente e la loggia aperta, protetta dal suo immancabile gruppo di cipressi».
L’espressività di questi dettagli del paesaggio toscano è costruita da una formidabile “biodiversità” che tutela la successione ecologica degli ecosistemi e ne assicura un’evoluzione, sulla quale il mezzadro toscano ha sapientemente “progettato” il suo ordito rurale, arricchendone col tempo, le diversità ecologiche e la complessità conseguente dei paesaggi.

Non ha alcun senso quindi prevedere un “giudizio oggettivo” di bello o brutto paesaggio, poiché tutti gli elementi che ne compongono il mosaico contribuiscono ad un processo evolutivo che ne trasforma i caratteri, i colori e, in futuro (chi può saperlo?) il brutto in bello e viceversa. A questo proposito, ci viene ancora in aiuto la Wharton che afferma, nel suo splendido libro Paesaggi italiani, scritto in occasione di uno dei suoi numerosi viaggi: «Esso non possiede la vana prodigalità né produce le esagerate reazioni emotive del cosiddetto bel paesaggio... ma la reticenza stessa delle sue linee delicatamente modellate, il suo apparente rifiuto di facili effetti, gli conferiscono la qualità di un’opera d’arte, lo fanno apparire come il prodotto sovrano di secoli di espressione plastica».
Se fosse ancora vivo, Valerio Giacomini si servirebbe certamente delle lucide parole della Wharton per illustrare l’azione di tutela del paesaggio come un «processo di responsabilità» verso un bene universale che ha un valore “in sé”, a prescindere sia dalle nozioni di bello-brutto, sia dalle concezioni utilitaristiche del territorio.
L’obiettivo “profondo” della tutela del paesaggio è fornito proprio dalla nozione di “progresso evolutivo”, senza la quale non riusciamo a comprendere l’importanza della diversità biologica esistente in natura.
La vita è governata dal passato recente e dal presente, ma non dal futuro.
In altre parole, l’evoluzione per selezione naturale non ha nulla a che vedere con gli obiettivi degli organismi rispetto alle necessità dettate dall’ambiente.
Ciò può apparire un paradosso e trarre in inganno un superficiale osservatore, al punto da fargli ritenere che la selezione naturale non ha nulla a che vedere col progresso.
In realtà, durante l’ultimo miliardo di anni, la totalità degli animali si è evoluta verso il raggiungimento di dimensioni maggiori, verso tecniche di difesa e di procacciamento del cibo più raffinate, verso un’organizzazione sociale più spinta e verso una maggiore precisione nel controllo dell’ambiente.
Lo sviluppo della biodiversità, attraverso una crescente padronanza, da parte dei viventi, dell’ambiente terrestre rappresenta una tendenza innegabile verso un progresso evolutivo, la cui esistenza è la migliore garanzia di stabilità degli equilibri ecologici globali.
La vera domanda che dobbiamo porci oggi è: “con quale velocità procede la riduzione della biodiversità dell’ambiente (quindi del paesaggio) in cui viviamo?” E ancora : “quanta biodiversità planetaria possiamo sperare di portare in salvo con noi di qui a 50 o cent’anni?”.
Poco prima che la tutela della biodiversità e la progettazione del riequilibrio ambientale entrassero a far parte dell’Agenda 21 approvata nella Conferenza di Rio de Janeiro (1992), un entomologo della Harvard University ( Cambridge), Edward Wilson azzardò una previsione.
Se la crisi della biodiversità avesse continuato ad essere ignorata da parte delle organizzazioni e istituzioni di governo a livello mondiale, entro il 2030 avremmo finito col perdere il 25% delle specie della Terra.
Oggi, in seguito a quella conferenza di Rio de Janeiro, in tutti i paesi è stata introdotta un’ampia gamma di iniziative per la tutela delle specie e degli habitat naturali che hanno ottenuto risultati positivi e che fanno realisticamente pensare che potremmo ridurre la perdita della biodiversità al 10%, il che equivale lo stesso a milioni di specie perdute.
A livello europeo, le principali iniziative attualmente in corso sono la realizzazione di una rete europea armonizzata di siti naturali e seminaturali (NATURA 2000) e l’imminente creazione della rete EMERALD, prevista dalla Convenzione di Berna nel resto d’Europa.
Tuttavia, quest’azione non è ancora sufficiente per ridurre una velocità di perdita della biodiversità, soprattutto a causa della crescente urbanizzazione e infrastrutturazione del territorio europeo.
E’ urgente comprendere che l’azione di tutela del paesaggio deve congiungersi alla tutela della biodiversità e alla progettazione degli ecofields distrutti dall’urbanizzazione, che, soprattutto in Italia, cresce in modo progressivo dagli anni ’80, nonostante che la pressione demografica sia scesa a zero. Continuare a mantenere separate e non comunicanti tra loro la cultura di tutela della biodiversità e quella di tutela dei beni ambientali e paesaggistici (anche attraverso norme nazionali e regionali separate, continuando ad accentrare nelle Sovrintendenze questo compito) rappresenta oggi, nel nostro paese, il principale ostacolo a una moderna e concreta azione di responsabilità verso quel “Bel paese” minacciato, per il bene del quale Antonio Cederna scrisse trentacinque anni fa le più belle pagine di un amore non corrisposto.