Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Pensioni e capitalismo: felicità privatà e infelicità pubblica

Pensioni e capitalismo: felicità privatà e infelicità pubblica

di Carlo Gambescia - 29/06/2007

 

Quando si discute di pensioni, si dovrebbe evitare di restringere i tempi del dibattito alle cosiddette “riforme” degli ultimi 15-20 anni. Si tratta di un grave errore perché non si considera quel che l’assicurazione pensionistica ha rappresentato nelle politiche economiche e sociali del Novecento: un elemento di pace sociale e di consenso alla società capitalistica.
L’assicurazione pensionistica (insieme con altri programmi sociali) venne introdotta in Europa Occidentale e nell’America del Nord (Stati Uniti e Canada), grosso modo, nella prima metà del Novecento. Ad eccezione della Germania e della Danimarca dove l’assicurazione pensionistica obbligatoria risaliva, rispettivamente, al 1889 e al 1891. Ecco qualche indispensabile dato storico sulla nascita del sistema pensionistico: Austria (1906), Svezia (1913), Italia (1919), Francia (1910), Olanda (1913), Italia (1919), Belgio (1924), Canada (1927), Finlandia (1937), Norvegia (1938), Stati Uniti (1935), Svizzera (1946),
Ovviamente, per ragioni di spazio, ci siamo limitati, ad alcune indicazioni temporali. Evitando di affrontare ulteriori suddivisioni analitiche: per settori professionali (operai, impiegati, agricoltori), per sistemi di calcolo, e infine per età di pensionamento ( ma su questi aspetti rinviamo a P. Flora e A. J. Heidenheimer, Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, il Mulino, Bologna 1986) .
La periodizzazione, sopra indicata (1889-1946), è importante perché ci aiuta a capire che le pensioni vennero introdotte in un momento di massima pressione delle lotte operaie, e di grande diffusione, dopo la Rivoluzione russa (1917), del cosiddetto pericolo rosso. Il che significa che il capitalismo accettò il diritto alla pensione in termini tattici e strumentali. O se si preferisce obtorto collo . E non per convinzione profonda (cosa per alcuni fin troppo scontata…). Del resto, a quando risale, il consolidamento del welfare state (e dunque anche del diritto alla pensione)? Nel trentennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Quando il crescente conflitto con il comunismo russo (e il conseguente e diffusivo pericolo rivoluzionario interno) terrorizza l’establishment capitalistico. E quando, invece, si inizia a mettere in discussione il sistema pensionistico? Quando il pericolo rivoluzionario, diminuisce fino a "ridursi a zero", prima con il riflusso delle lotte operaie in Europa (1968-1978) e poi con l’uscita di scena dell’Unione Sovietica (1991). Dopo di che, negli anni Novanta, si procede, in tutto il mondo occidentale, al crescente smantellamento del welfare state, invocando ufficialmente motivazioni legate alla spesa pubblica e al calo demografico (un piccolo dettaglio, ad esempio, la legge italiana di riforma delle pensioni è del 1995). Sotto questo aspetto, le cosiddette rivoluzioni liberiste rivendicate dalla Thatcher e da Reagan, negli anni Ottanta, sotto il profilo della revisione del sistema pensionistico, furono ben poca cosa. La vera svolta avviene solo negli anni Novanta, quando la sinistra si appropria del thatcherismo-reaganismo: si pensi, ad esempio al ruolo del blairismo, e alle forti limitazioni introdotte dal premier laburista nel sistema pensionistico britannico. Ma, si parva licet, si pensi anche al recente discorso “della corona” di Veltroni, al Lingotto, favorevolissimo alle “riforme”.
Ora, nessuno nega che in passato vi siano stati abusi (si pensi alle “pensioni baby”in Italia), e che il problema pensionistico vada riesaminato alla luce dell’evoluzione demografica. Tuttavia il vero punto della questione è di principio: concerne il diritto alla pensione. Che, anche se in forma ancora non ufficiale, viene oggi progressivamente "attaccato". Che cosa sta accadendo?
Per un verso si punta a ridimensionarlo, elevando l’età pensionistica e abbassando il valore delle pensioni, per l’ altro vi si contrappone il diritto al lavoro delle generazioni più giovani, ponendo così le basi, in nome del più classico divide et impera, per un crescente conflitto generazionale. Al quale corrisponde, l’introduzione del lavoro flessibile, e dunque la progressiva impossibilità, per i giovani, di “costruirsi” una pensione e un futuro. Un vicolo cieco, per tutti, giovani e anziani.
Pertanto discutere di “scaloni” e di calcolo dei coefficienti, pur essendo importante nell’immediato, costituisce una battaglia puramente difensiva. Il sindacato, invece, dovrebbe interrogarsi sulla posta in gioco: sulla volontà da parte del capitalismo (non solo italiano) di fare un deciso passo indietro, alle prima metà dell’Ottocento. E così cancellare, progressivamente, qualsiasi diritto alla pensione, considerate anche le possibilità di reperire, attraverso le delocalizzazioni e i lavoratori immigrati mano d’opera a buon mercato nel Sud del mondo (si veda, a riguardo, il recente e interessante Quaderno di Polaris sull’immigrazione [2007] ).
Per questo capitalismo, sempre più aggressivo, perché ormai privo di avversari (dopo la scomparsa della Russia Sovietica e di un vero movimento operaio internazionale e nazionale), l’uomo deve lavorare per tutta la vita, o almeno fino all' “ esaurimento” fisico.
Il che, però, può costituire un possibile elemento di contraddizione culturale, economica e sociale. Perché se è vero che certo liberalismo economicista, continua a blaterare di un “diritto dell’uomo alla felicità privata”, è altrettanto vero, come del resto sostengono da sempre i liberisti, che il lavoro “creativo” è una componente necessaria del diritto alla felicità. Di riflesso - ecco le possibili contraddizioni - come conciliare, di fatto, il diritto alla felicità privata con l’infelicità pubblica, causata dalla crescente diffusione del lavoro precario e dall' "attacco", ormai sistematico, al diritto a una pensione dignitosa? Come conciliare la crescente produzione di beni di consumo con la riduzione del potere di acquisto di stipendi, salari e, soprattutto pensioni? Come vivere, in questo quadro così incerto, tutti (giovani e anziani) felici e contenti?