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La filologia «impertinente» di Piergiorgio Odifreddi

di Matteo Veronesi - 30/06/2007

 
 
Piergiorgio Odifreddi

A parere di Piergiorgio Odifreddi, il noto «matematico impertinente», che ha affidato questi suoi pensieri al libro, programmaticamente ed astutamente sconcertante, «Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)», edito da Longanesi, oltre che a diversi articoli [mi riferisco, in particolare, a «E venne un mito chiamato Gesù», «L’Ateo», numero 1/2003, e «Ma io credo alla scienza non alla Chiesa», «La Stampa», 8 marzo 2007], le Sacre Scritture altro non sarebbero che un coacervo di assurdità logiche, perversioni etiche e brutture letterarie, e i fondamenti del cristianesimo (la Creazione divina, la Trinità, la verginità di Maria, la Resurrezione di Cristo), e più in particolare del cattolicesimo (l’Immacolata Concezione, la Transustanziazione) risulterebbero del tutto privi di qualsiasi fondamento storico.
Sennonché, l’ateismo deve, non meno della fede, fare i conti con la filologia; anzi, a maggior ragione non potrà prescindere da un attento confronto con la storia e con i testi un pensiero radicalmente laico, che pretende di fondarsi sulle certezze indubitabili e gli inoppugnabili riscontri forniti dall’esperienza.
Odifreddi, basandosi su di un’interpretazione quantomeno semplicistica dell’inizio della Genesi, insinua che da questa prima espressione della visione ebraico-cristiana della nascita del mondo e della vita siano aliene non solo l’idea della creazione ex nihilo (Elohim apparirebbe come nulla più che una sorta di platonico demiurgo che plasma una materia preesistente), ma addirittura quella di un Dio unico.
Vero è che, grammaticalmente, Elohim (Dio) è plurale; ma si tratta, secondo un uso comune in ebraico, ed ampiamente attestato, con riferimento proprio al Nome Divino, nella Genesi (5, 22; 6, 9-11; 17, 18), di un «plurale di eccellenza» o di un «plurale astratto», che esprimono in sommo grado il concetto di divinità e, insieme, l’infinita molteplicità degli attributi che essa assomma in sé, contenendoli nella loro espressione assoluta, più elevata e pura.
Non per nulla, il verbo (bārā‘) è al singolare, e significa, inequivocabilmente, «creare una cosa meravigliosa, nuova, sorprendente».
In Genesi, 2-3 e in altri passi, l’identità di Elohim è fusa esplicitamente con quella di Jahweh. Insomma, senza alcun dubbio la Genesi dice, se mai ci fosse bisogno di ricordarlo, che «In principio (bereshit) Dio (Elohim) creò (bārā‘) il cielo» (anzi, per l’esattezza, secondo la cosmologia ebraica dell’epoca, «i cieli», shamaim) «e la terra».


Il problema del significato che può assumere, nel racconto della creazione, l’immagine della terra tohu e bohu, «deserta» ed «informe» (aóratos, cioè «invisibile», ed akataskéuastos, «disordinata», si legge nel greco della Bibbia dei Settanta), era già stato posto ed affrontato da secoli di esegesi e di riflessione teologica, a partire da Giustino Martire per arrivare ad Agostino e Tommaso d’Aquino. Dallo spirito del testo sembra emergere non tanto un demiurgo che (come nel «Timeo» platonico) plasmi una materia preesistente, quanto la traccia di un disegno creativo ed evolutivo presente da sempre nella mente della Divinità - insito ed inscritto, precisamente, in quello stesso Logos, in quello stesso principio e progetto che si sarebbe poi fatto carne, inverandosi e rivelandosi pienamente, nella persona del Cristo.
Il «Fiat lux» della Genesi (che non per nulla, a testimonianza di come la cultura ebraico-cristiana non sia affatto inconciliabile con la tradizione classica, lo Pseudo-Longino citava, primo fra i greci, come esempio di «sublime», di sintesi assoluta e potente fra pensiero creatore ed espressione immortale) era già stato ineffabilmente, inaudibilmente proferito, fin dall’eternità, dal Verbo divino. Come dice Agostino, «Pater loquitur, quia Patre loquente dicitur Verbum, quod Filius est, aeterno more (…), loquente Deo Verbum coaeternum» (De Genesi, I, 5, 11): «E’ il Padre che parla, poiché nelle parole del Padre è pronunciato il Verbo che è il Figlio, nello spazio dell’eternità, dal momento che il Padre parla il Verbo coeterno con lui».
Che, poi, il disegno e il processo della creazione si articolassero e si sviluppassero, sul piano immanente, lungo un arco temporale di secoli e di millenni, era già intuito da Tommaso d’Aquino: il passaggio dall’informe alla forma fu contemplato, voluto e ordinato fin dall’inizio dalla sapienza di Dio, «perché fosse salvaguardato un ordine nella condizione degli esseri, fin tanto che non fossero condotti dall’imperfezione alla compiutezza» (Summa Theologica, q. LXVI, a. 1, ad. 1).
Come avrebbe ripetuto, secoli dopo, Galileo, la Scrittura, senza per questo alterare o mutare il suo messaggio profondo ed essenziale, doveva adattarsi alle conoscenze, alle aspettative, alle visioni del mondo (oggi diremmo ai «paradigmi») proprie dell’epoca e del popolo a cui era originariamente rivolta.
Essa non poteva parlare agli uomini del tempo «nisi sub similitudine rerum eis notarum», se non per mezzo di analogie familiari e riconoscibili ai loro occhi.
Di conseguenza, chiunque pretenda oggi di leggere la Sacra Scrittura con gli strumenti della moderna logica proposizionale, del neoempirismo logico o della filosofia analitica non potrà che trovarla colma di «assurdità», «paradossi» o addirittura «perversioni».
Wittgenstein, in un pensiero del ‘37, giudicava «importante» che la testimonianza della Rivelazione avesse solo «una comunissima probabilità storica, (…) al fine che la lettera non abbia più credito di quanto le spetti e lo spirito conservi il suo diritto».
L’accento dovrà, specie nelle scritture veterotestamentarie, essere posto più sul senso allegorico, spirituale, anagogico, che su quello «litteralis sive historicus».
La lettera uccide, lo spirito vivifica.


In linea generale, le tante, ed innegabili, incongruenza logiche, i numerosi e a volte sconcertanti paradossi che, come si accennava, indiscutibilmente affiorano di tanto in tanto dalle Scritture derivano dallo stridore e dalle deformazioni di un pensiero divino, sovrumano, sublime, che si cala nella storia, che si immerge nel tempo, entrando in contatto con i limiti, le sfumature, le ambivalenze del linguaggio umano, con la molteplicità dei generi letterari di cui esso si serve (e che la «critica delle forme» ha riconosciuto ed evidenziato da più di un secolo), infine con gli inevitabili condizionamenti dettati dalle circostanze storiche e ideologiche, le quali spiegano come possano a tratti affiorare, nell’Antico Testamento, e perfino in un testo sublime come la «Sapienza», tutto pervaso dall’idea ellenistica del logos stoico, dell’universale e divina armonia dell’universo, forme di militarismo teocratico, abbastanza plausibili, del resto, in un popolo che aveva subìto l’oppressione egiziana, quella babilonese, quella antiochena e che infine, proprio nel contesto ellenistico in cui veniva con tutta probabilità concepita quell’opera, stava patendo l’ostilità dei Tolomei.
Ancor più evidenti paiono le semplificazioni e gli arbitrî che Odifreddi si concede nel negare non solo la risurrezione, ma la stessa reale esistenza di Cristo.
Che, nel corso dei primi due secoli dalla sua morte, le testimonianze extracristiane ed extrabibliche della sua esistenza scarseggino, è cosa ben nota, e che non sorprende più di tanto, se si considerano la lentezza con cui all’epoca le notizie si propagavano, lo scarso interesse che i non cristiani provarono dapprima per il nuovo culto e, infine, la stessa condizione di segretezza in cui i primi cristiani furono forzatamente relegati sotto alcuni imperatori.
«Conquirendi non sunt» («Epistulae», X, 97), dice l’imperatore Traiano in un celebre scambio epistolare con Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, risalente al 112-113, e che costituisce (sebbene Odifreddi ne metta in discussione, senza valide argomentazioni, l’ormai acclarata autenticità) una preziosissima testimonianza, di parte pagana, sul cristianesimo delle origini.
«Non bisogna andarli a cercare», non bisogna inseguirli e stanarli, finché se ne restano nascosti nella segretezza delle loro domus Ecclesiae, senza turbare pubblicamente il formalismo dei culti pagani, in primis quello della persona stessa dell’imperatore.
La lettera di Plinio, che chiedeva indicazioni sul modo di comportarsi con i cristiani, conferma che la divinità di Cristo, già proclamata a chiare lettere in vari passi dei Vangeli canonici (valga per tutti il riscontro incrociato offerto dalla discordia concors dei sinottici: Matteo 26, 63, Marco 14, 61, Luca 22, 66-70), era vivamente avvertita dalle prime comunità di fedeli, che inneggiavano a Cristo-Dio («carmenque Christo quasi deo dicere secum invicem», «Epistulae», X, 96, 7).
Che il carattere divino e messianico della persona del Cristo non sia asserito con particolare frequenza dai Vangeli dipenderà anche dalla natura iniziatica, misterica, quasi esoterica che investiva certi aspetti dell’originario messaggio cristiano: Gesù proibisce severamente ai discepoli di rivelare che egli è il Cristo (confronta Marco 27-30).


Inoltre, non è vero che Cristo, «se veramente è esistito», sia stato «irrilevante (sic) per i suoi contemporanei, al di fuori di una ristretta cerchia di parenti, amici e seguaci (sic)»: Plinio stesso riferisce, nella lettera citata, che le città, i villaggi e le campagne della Bitinia sono «invase» («pervagata») dalla «prava superstitio», dalla «balorda superstizione» che il cristianesimo rappresentava agli occhi dei suoi persecutori (così come, dichiaratamente, a quelli di Odifreddi). Del resto anche Tacito, che scrive dopo il 96, afferma che quella «exitiabilis superstitio», quella «dannosa superstizione», dopo essere stata «temporaneamente (in praesens) sopita» (il che, si noti, conferma come essa fosse già diffusa da decenni), tuttavia di nuovo «dilagava» (erumpebat), non solo in Giudea, ma anche a Roma («Annales», XV, 44).
Come la filologia ha appurato da più di un secolo, la pagina tacitiana riposava quasi certamente su fonti anteriori: forse, come sostenne l’Harnack, quella, celebre, di Flavio Giuseppe («Antichità giudaiche», XVIII, 3, 3), la cui autenticità risulterebbe così indirettamente confermata; forse un passo delle perdute «Historiae» di Plinio il Vecchio, come pensava il Battifol.
Il «Chrestus» di cui parla Svetonio («Vita Neronis», XVI, da confrontare con Atti 18, 3) è sicuramente Gesù: l’errore nella grafia poté derivare dal fatto che, in greco, chrestos (buono) e christos (Cristo), si pronunciavano allo stesso modo, come comprovano diverse testimonianze epigrafiche; non a caso, i cristiani furono talora chiamati chrestiani fino a tutto il secondo secolo. L’intraducibile bisticcio paretimologico christianòi-chrestòi è attestato anche da Giustino («Apologie», I, 4, 2 e 5).
Chrestianos è lezione del Manoscritto Mediceo di Tacito (Annales XV, 44).
Credo, poi, poco plausibile (oltre che contrario all’opinione della totalità degli studiosi, che oggi propendono, indipendentemente dalla confessione religiosa, per l’autenticità almeno parziale) liquidare come una falsificazione cristiana il passo di Flavio Giuseppe prima richiamato, noto come «Testimonium Flavianum», che costituisce la più antica testimonianza extrabiblica della storicità di Cristo.
A parere di Odifreddi, sarebbe prova sufficiente per rigettare l’autenticità di questa fondamentale testimonianza il fatto che Origene, tanto in «Contra Celsum» (I, 47) quanto nel commento al Vangelo di Matteo (X, 17), affermi che Giuseppe non riconosceva Gesù come il Messia, mentre il «Testimonium» (tra l’altro presente, senza distinzione, in tutti i manoscritti delle «Antichità giudaiche» a noi giunti) dice laconicamente «questi era il Cristo» (ho Christos outos en), per poi registrare semplicemente il fatto oggettivo che egli «riapparve» (ephane palin) tre giorni dopo la morte, e fu identificato con il Messia vaticinato dai Profeti.


A mio avviso, il passo di Origene dovrà indurre non ad ipotizzare un’interpolazione, ma ad accogliere la variante indirettamente attestata tanto da Girolamo («De viris illustribus», 13), quanto dalle «Cronache» di Michele Siriaco, quanto dalla «Storia universale» del vescovo arabo Agapio: nei manoscritti consultati da questi autori, e verosimilmente in quello letto da Origene, Giuseppe affermava che Gesù «era creduto il Messia» («credebatur esse Christus», dice Girolamo).
Ma le testimonianze extrabibliche non finiscono qui.
Alla figura di Cristo e ai suoi stessi miracoli alludono, dal Talmud al Midrash alla letteratura rabbinica, fonti ebraiche (indagate un secolo fa da R. Travers Herford) indipendenti dai Vangeli, ma a volte ad essi parallele (basti confrontare, per la crocifissione, Marco 15, 23 con Talmud, Sanh., b, 43).
Ed è interessante notare che anche le fonti ostili, di matrice sia ebraica (confronta Giustino, «Dialogo con Trifone» 2, cc. 17 e 108) che greco-romana (confronta Origene, «Contra Celsum», I, 28 e 38), non negavano la realtà del miracoli di Gesù, ma li ascrivevano alla stregoneria (anche Flavio Giuseppe, che pur non identificando Gesù con il Messia ne doveva riconoscere la natura sovrumana, chiama i suoi miracoli erga paradoxa, gesta od opere «eccezionali», «straordinarie» o forse «bizzarre», «assurde», «sconcertanti»).
Ben più tarde (databili intorno al Mille), e palesemente diffamatorie ed oltraggiose nei confronti del cristianesimo, le Toledot Yeshua, a cui Odifreddi (così scettico nei confronti dei Vangeli) dà sorprendentemente (e piuttosto faziosamente) credito.
Ancora in àmbito ebraico, al sacrificio di Cristo (accostato, quasi nell’ottica di un nesso tragico di colpa e castigo, di hybris ed ate) allude la ben più credibile, splendida «Lettera di Mara» figlio di Serapione, con tutta probabilità non posteriore alla seconda metà del primo secolo.
Ma, come hanno dimostrato recenti ricerche (dovute in particolare a Marta Sordi e ai suoi allievi, fra cui Ilaria Ramelli), diversi altri scrittori latini, oltre a quelli già citati, pur non nominando direttamente Gesù, alludono molto per tempo alla sua figura: da Petronio, che nel «Satyricon» parodiò atrocemente la figura di Cristo e la sua Resurrezione rifacendosi testualmente al Vangelo di Marco, e forse a quello di Matteo (confronta ad esempio Marco, 14, 3 e 9 con «Satyricon» LXXVII, 7 e LXXVIII, 3-4, nonché «Satyricon» CXII-CXIII con Matteo XXVIII, 13-15), a Seneca, che, forse impegnato nel dialogo fra il cristianesimo e lo Stoicismo antineroniano, alluse a Cristo nell’«Hercules Oetaeus» (e, aggiungerei io, con tutta probabilità evocò velatamente la crocifissione e il sepolcro vuoto in due passi delle «Consolationes»), a Silio Italico, che nei «Punica» nobilitò, proiettandolo su Attilio Regolo, il supplizio della croce.


Ad ogni modo, come sappiamo da Tertulliano (il quale invitava il Senato, se mai avesse qualche dubbio, a consultare al riguardo gli «Annales»), la commissione d’inchiesta inviata da Tiberio in Galilea riscontrò la fondatezza storica del nuovo culto, «veritatem istius divinitatis» («Apologeticum», V, 1), come conferma, indirettamente, anche il «Chronicon Paschale».
Poco dopo, con tutta probabilità sotto il regno di Claudio, fu promulgato il cosiddetto «editto di Nazaret», noto attraverso un’iscrizione in greco segnalata dal grande Rostovtzeff e studiata per la prima volta, nel 1930, da M. Franz Cumont.
Si trattava di un rescritto imperiale che, in modo insolitamente duro, prevedeva la pena capitale per chi avesse non solo violato un sepolcro, ma anche semplicemente spostato (metakinesai) un corpo in esso deposto (confronta Matteo 28, 11-15 per la relativa diceria sparsasi sul conto degli apostoli). Com’è evidente, una misura del genere non si spiega se non all’interno di un contesto nel quale la notizia della risurrezione - ben lungi, dunque, dall’essere un mito tardivo e artificiosamente costruito - si fosse prontamente diffusa.
Con eccessiva disinvoltura, poi, Odifreddi liquida in poche righe la «questione sinottica», tanto complessa che qui è possibile appena sfiorarla.
In particolare, argomenta Odifreddi, la notizia della Resurrezione di Cristo non si trova nella fonte Q (l’enigmatica e mai rinvenuta Quelle inseguita dalla filologia tedesca, e dalla quale sarebbero derivati i vangeli sinottici), né nei «protoevangeli», l’unico dei quali ad esserci giunto è il cosiddetto Protoevangelo di Giacomo, un vangelo gnostico che alcuni annoverarono tra le fonti dei canonici.
Ora, il Protoevangelo non avrebbe motivo di dare notizia della Risurrezione, dal momento che narra la Natività di Maria.
Non vi è, comunque, alcuna prova che quel Vangelo terso e delicato esistesse prima del quinto secolo, quando lo troviamo citato nel «Commentario all’Hexameron» di Eustachio di Antiochia. Semmai, la lettura del Protoevangelo mostra come la Verginità di Maria e l’Immacolata Concezione, ben lungi dall’essere arbitrarie ed astruse costruzioni dogmatiche, fossero profondamente radicate nella spiritualità del primo cristianesimo.

C’è da temere che, in materia di filologia, il moderno scienziato Odifreddi sia rimasto al 1552, quando Guillaume Postel dava, a Basilea, l’editiio princeps del Protoevangelium, considerandolo, in buona fede, il più antico fra gli scritti neotestamentari.
E, prevedendo una possibile obiezione di Odifreddi, si può osservare che il copto Vangelo di Tommaso, il cosiddetto «quinto Vangelo» (questo sì probabilmente coevo ai sinottici), pur non contenendo un’esplicita menzione della Resurrezione di Cristo (né dovendo darne conto, trattandosi non di una narrazione, ma di una raccolta di loghia, di «detti» di Gesù, ispirata dallo gnosticismo), certamente la presuppone, e indirettamente la attesta e la conferma: fin dai primi versetti, Gesù è «il Vivente» (in copto entais, nella versione greca ho zoon: confronta Apocalisse 1, 17), Colui che, dunque, è vano «cercare fra i morti»; e «chi penetrerà il segreto senso (ecermeneia, confronta il greco hermeneuo)» dei suoi detti «non sentirà il sapore della morte (Mrmou)».
E il vivo senso della Verginità di Maria e dell’Immacolata Concezione è già attestato, pur se attraverso il velo opaco di una sublimazione fra neoplatonica e gnostica, e in un passo drammaticamente mutilo, anche nel «quinto Vangelo»: «[non una madre impura], ma la vera Madre mi ha dato alla vita» (108).
Qualche precisazione esige anche la questione della «Finale Canonica» del Vangelo di Marco, oggi generalmente considerato il più antico (sebbene la tradizione patristica, da Papia ad Ireneo, da Clemente Alessandrino ad Eusebio, sembri indicare la priorità di Matteo).
Per Odifreddi, il fatto che Marco 16, 9-20 (il passo che contiene la narrazione delle apparizioni di Cristo dopo la risurrezione) sia verosimilmente un’aggiunta tardiva confermerebbe il carattere mitico, e non storico, della Risurrezione.
Quest’ultima, tuttavia, è già nitidamente annunciata in 16, 6: «E’ risorto, non è qui».
Improbabile è, in ogni caso, che il Vangelo di Marco si concludesse, bruscamente, con il versetto 16, 8 (ephobounto gar, «infatti avevano paura»), per ragioni sia logico-sintattiche che codicologiche (i manoscritti più antichi ed autorevoli presentano una lacuna finale proprio in quel punto).
La «finale canonica» si impone sia per l’autorità della tradizione manoscritta, che per la testimonianza di sant’ Ireneo («Adversus Haereses», III 10, 5-6), il quale, nel secondo secolo, afferma che il Vangelo terminava con 16, 19, cioè con l’assunzione in cielo.
Anche Eusebio (Ad Marin. 1,1) e Girolamo (Ep. 120, 3 ad Hedybiam), nel momento stesso in cui sollevano dubbi sull’autenticità della finale canonica, attestano che essa comunque circolava, benché «in raris euangeliis».
D’altro canto, le successive vicende neotestamentarie non faranno che confermare, e, per così dire, chiosare con i fatti e le opere, i versetti 16, 14-18.


Ad ogni modo, qualunque teoria si accolga in merito all’origine dei Vangeli (non credo vadano ignorate né quella, sostenuta con forza dal Boismard, dei «documenti multipli», né quella del «documento arcaico», dal quale sarebbero derivate quattro fonti intermedie che avrebbero poi alimentato i sinottici: teorie, queste, che paiono, anzi, maggiormente conformi ai dati della tradizione patristica), non si vede la ragione di dubitare che la notizia della Resurrezione, presente in tutti e quattro i vangeli canonici, fosse presente nella tradizione apostolica che in essi confluì.
La «questione sinottica», forse destinata a restare insoluta, certo non può essere semplicisticamente liquidata.
In fondo, il metodo della moderna filologia, inaugurato da Karl Lachmann, nel suo muovere dall’immanenza dei dati, dei testimoni, dei manoscritti, per giungere, attraverso un lavoro assiduo di comparazione, selezione, induzione, a formulare, pur se in forma solo ipotetica, se non addirittura «divinatoria», un primigenio, inattingibile «archetipo» da cui tutte le copie, tutti gli esemplari concretamente esistenti sarebbero poi scaturiti e discesi, sembra pervaso e animato da un sforzo e da uno slancio trascendentali non troppo diversi da quelli della mente che supera la contingenza della storia e dell’esperienza per raggiungere la superiore luce della fede nell’essere.
Le discrepanze fra i sinottici potranno, poi, essere eventualmente ricondotte alla soggettività letteraria dei singoli autori.
Le Scritture sono anche testi letterari, fatto salvo il metastorico ed essenziale nucleo di verità che contengono, e che mai smentiscono.
Anche l’Iliade, osserva Odifreddi, liquidando drasticamente la questione della storicità dei Vangeli, contiene elementi di verità storica.
Ma si potrà controbattere che la «storicità relativa» di cui si è parlato a proposito dei poemi omerici investe solo lo sfondo e l’ambientazione delle vicende, mentre la ben più solida ed evidente «storicità assoluta» o «storicità trascendentale» della Scrittura ne avvolge e ne esalta le figure e gli eventi principali ed essenziali, e, con essi, il vitale messaggio che attestano e veicolano.
La Resurrezione si trova, in termini identici a quelli in cui è narrata da Giovanni, nel Vangelo di Marcione, che forse attingeva ad una comune fonte anteriore, così come nei vangeli giudeo-cristiani, per noi perduti, ma che Girolamo poteva ancora leggere e tradurre dall’ebraico (si veda ad esempio «De viris illustribus» XVI, 2-4, perentorio nella testimonianza oculare: «ego vero et post resurrectionem in carne eum vidi et credo quia sit»).
Ancora il Vangelo degli Ebrei tradotto da Girolamo mostrava, in un passaggio folgorante, quanto il concetto della Trinità e quello dell’Immacolata Concezione e della nascita divina fossero, fin dalle origini, ben vivi, e anzi strettamente interconnessi: lo Spirito Santo è Madre del Cristo-Dio, mentre l’anima è «sponsa sermonis dei», sposa della parola divina (In Michaeam II, 7).


Ma non è necessario ricorrere a testimonianze extracanoniche; basterebbe quella, immune da qualsiasi ombra e da qualsiasi incertezza, di Pietro: «Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» (Ap 2, 32).
E’ certo plausibile che, come Odifreddi argomenta, la notizia della risurrezione mancasse sia nella Quelle, sia nella Semeia Quelle, due raccolte, rispettivamente, di lóghia («detti») e semêia («fatti») di Gesù.
Tuttavia, non era compito né intento di quelle raccolte contenere tale notizia.
Esse si rivolgevano ad un pubblico che dava già per scontato, ed accoglieva come verità indiscutibile, il messaggio essenziale, il limpido kérygma, il potente annuncio del Cristo che aveva vinto la morte.
Ad ogni modo, la Semeia Quelle giungeva, con tutta probabilità, almeno fino a Giovanni 20, 30 («Molti altri segni fece Gesù in presenza dei discepoli…»).
Dunque, essa doveva già contenere non solo la notizia della risurrezione (20, 1-10), ma anche la narrazione delle apparizioni a Maria (20, 11 sgg.) e ai discepoli (20, 19 sgg.).
L’esistenza stessa della fonte SQ, che il discorso di Odifreddi a quanto pare presuppone, induce poi non solo a ritenere che il racconto della risurrezione fosse già contenuto nella tradizione apostolica trasmessa oralmente, e poi confluita nei sinottici, ma anche ad ammettere che il Vangelo di Giovanni, risalendo, appunto tramite quella fonte, alla medesima tradizione, non fosse solo una tardiva ed artificiosa mistificazione teologizzante, ma rispecchiasse fedelmente, pur se da un’ottica particolare, intellettualmente e teologicamente più profonda e più letterariamente elaborata, lo stesso messaggio essenziale, lo stesso kérygma originario e puro.
Tornando alla Trinità, essa è, per definizione, un Mistero inaccessibile, nella sua essenza, alla ragione umana, benché non necessariamente contrario ad essa, come dimostrano secoli di riflessione teologica.
Ma non sembra che, come vorrebbe Odifreddi, tale Mistero sia privo di basi scritturali: chi, per non fare che un esempio, affianchi Matteo 11, 25-27 e Luca 10, 21-22 a Marco 13, 11 e Luca 12, 12 vedrà il preciso movimento dialettico con cui il Padre ama il Figlio di quell’amore infinito che è lo Spirito Santo: un movimento che, come osserverà san Tommaso d’Aquino, non è affatto avulso dalla dinamica interna con cui la mente, per mezzo dell’intelletto e della volontà, concepisce il pensiero e lo esprime attraverso quella mentis imago che è il Verbum, la parola umana, benché infinitamente imperfetta e inadeguata rispetto all’assoluto, indicibile Logos divino.
Che, poi, il termine «Sostanza» abbia, se riferito tanto alle Persone della Trinità, quanto alla Transustanziazione dell’Eucaristia, quanto alla natura stessa della fede (la quale è «sostanza di cose sperate / ed argomento delle non parventi», come dice Dante sulla scia di Paolo di Tarso così come delle «Quaestiones disputatae de veritate» di san Tommaso), un valore e un significato di estrazione concettuale, filosofica, speculativa, dunque ben diversi da quelli che esso assume nelle scienze naturali, è cosa evidente, ma che, nella sua serrata critica, Odifreddi sembra dimenticare.
Il matematico dovrebbe semplicemente riconoscere che il linguaggio poetico e teologico – «casa dell’Essere» - può, più che quello della scienza, consentire di intravedere o di sfiorare il Mistero ineffabile di una parola indibile, di un silenzioso dire che assommano e fondono in sé la mente «concepita nell’intelletto» e quella «amata nella volontà» («Summa contra gentiles», l. 4, c. 20).
Di fronte a verità e rivelazioni soprannaturali, per quanto immerse nel fluire della storia, la conoscenza teologica e quella poetica hanno un valore e una forza superiori a quelli di una ragione scientifica rigida ed inflessibile.


Il concetto, dice Hegel (che di tutto, credo, potrà essere accusato meno che di irrazionalismo), «è la verità della Sostanza, e poiché il modo determinato di relazione della Sostanza è la necessità, la libertà si mostra come la verità della necessità e come il modo di relazione del concetto» («Scienza della logica», ed. Glockner, II, pagina 7).
Libertà nella necessità, autonoma scelta all’interno di un cammino di possibile salvezza, di sperata redenzione, apertura dello sguardo del credente al lumen infusum della grazia: queste, mi pare, le forme che può assumere, modernamente ripensata, l’idea cristiana di sostanza.
Proprio riguardo al rapporto tra fede e ragione, tra mistero e comprensione, non credo si possa concordare con Odifreddi quando, sulla base di un gioco etimologico anacronistico e di dubbio gusto, e adducendo addirittura l’autorità delle stesse Scritture, le quali presenterebbero l’euanghelion come una credenza destinata a spiriti semplici e creduloni, definisce il cristianesimo una religione «per letterali cretini».
Al contrario, il cristianesimo è, dice Paolo, precisamente una loghikè latrêia, un credo «spirituale» e insieme «ragionevole» proprio in quanto «conforme al Logos», fedele al Verbo, rispondente al disegno divino che si è fatto carne nella persona del Redentore (Romani 12, 1).
Certo è che l’amore divino, senza negare la ragione o essere contrario ad essa, la oltrepassa e la trascende (Efesini 4, 19).
L’uomo può esperire il báthos, i «profunda Dei», l’«abisso» dei divini misteri conoscendo se stesso, raccogliendosi nella quiete di quello che Paolo (e Agostino dopo di lui) chiamano l’ «uomo interiore», esplorando le profondità del cuore e dell’anima.
In questa sua sfera «soggettiva» (che Odifreddi, giustamente stavolta, sottolinea), non già nel senso di infondata ed arbitraria, ma in quello di intima, radicata nell’individuo, profondamente sentita, autenticamente vissuta, e dunque non coercitiva, non autoritaria, non artificiosamente imposta dall’esterno, il cristianesimo non è, in fondo, inconciliabile con il ghnóthi seautón, con la limpida e severa autocoscienza del platonismo e dello stoicismo.
L’uomo conosce se stesso riconoscendo ciò che di divino vi è in lui, il suo essere in certo modo immagine della divinità, e scorge che proprio in questa scintilla sacra e segreta risiede la sua dignità.
A ben vedere, il concetto stesso di dignità dell’uomo affonda le proprie radici nella Patristica e nella teologia monastica, prima ancora che nello spirito laico e mondano dell’umanesimo.
«O imago Dei, agnosce dignitatem tuam».
Come affermava Kant proprio all’interno della sua teoria di una religione ridotta «entro i limiti della sola ragione», Cristo è il «prototipo» di un’umanità ideale, lo specchio limpido e perfetto in cui cercare di riflettere, per sublimarla e nobilitarla, la miseria terrena: un modello ideale o archetipo, dice Kant, «disceso fino a noi dal Paradiso».

Difficilmente Kant (che tra l’altro annoverava proprio l’esistenza di Dio, della sua giustizia eterna ed infallibile, fra i postulati della ragion pratica, tra i fondamenti e i punti di riferimento del giudizio morale), potrà essere annoverato, come oggi qualcuno tenta di fare, fra i modelli e i maestri di un’etica laica, se non atea.
Il fatto che, come Paolo scrive citando Isaia, i misteri divini trascendano e confondano ogni sophía ed ogni sýnesis umane e terrene, e abbaglino la «sapienza dei sapienti» e l’«intelligenza degli intelligenti», non significa che il cristianesimo ponga e presenti se stesso come una religione da stupidi, come un credo destinato a menti deboli.
Al contrario, è una suprema astuzia della ragione quella di riconoscere i propri limiti per aprire la strada ad una conoscenza intuitiva (del resto non del tutto aliena, mi pare, dallo stesso procedimento scientifico) che supera e precede la ragione stessa, e che in qualche modo prepara il terreno al suo successivo sopraggiungere nella forma della riflessione ermeneutica, filosofica, teologica, a partire però dal dato essenziale della rivelazione, della speranza, della grazia.
Quanto, poi, alla distinzione tra Vangeli canonici ed apocrifi, essa non fu affatto arbitrariamente imposta dalle autorità ecclesiastiche; e i vangeli apocrifi non sono, come voleva Voltaire, quelli «rotolati giù dal tavolo al Concilio di Nicea».
Il «Vangelo quadriforme», la «sacra quadriga degli Evangeli», il Diatessaron (vale a dire la quadruplice ed unitaria armonia spirituale che, come si legge nel Canone Muratoriano, guida e scandisce le parole della Rivelazione) sono metafore e concetti che prendono forma fin dai primi secoli del cristianesimo, da Ireneo a Clemente Alessandrino, da Origene ad Eusebio, e di cui la canonizzazione ufficiale dei concili non farà che riconoscere la fondatezza e la bontà.
Come osservava Glenn W. Barker in «The New Testament speaks», il fatto che, dall’Oriente all’Occidente, chiese appartenenti a contesti culturali tanto diversi potessero, l’una indipendentemente dall’altra, giungere spontaneamente alla concorde fissazione di un «canone» destinato poi a resistere alle spaccature e agli scismi che avrebbero travagliato la stessa cristianità, sembrerebbe di per sé confermare la presenza e l’azione di un’armonia e di un disegno sovrumani.
Odifreddi, che ama definirsi «impertinente» nel senso di spregiudicato, ribelle, antidogmatico, e nel contempo non legato a gruppi, parrocchie o conventicole, forse lo è anche nel senso in cui Marziano Capella usava, offrendone una delle rarissime attestazioni classiche, l’aggettivo «impertinens».

Alle nozze di Mercurio e Filologia furono invitati tutti gli dei, «absque impertinentibus», cioè tranne «Discordia ac Seditio», che «Philologiae semper fuerunt inimicae» («De nuptiis Mercurii et Philologiae», I).
Sedizione e Discordia (cioè la faziosità, il partito preso, il pregiudizio ideologico, la proterva crociata in nome di un rigido scientismo, di un razionalismo inflessibile e feroce) furono sempre nemiche della Filologia.
E, tornando al discorso dei cristiani-cretini, è interessante ricordare che Carducci preferiva «imbecille», poiché «cretino» aveva tutto il sapore di un «neologismo pedantesco di volgarizzamento scientifico».
Come abbiamo visto, infatti, certa divulgazione scientifica (o meglio scientistica) non va molto d’accordo con la filologia.
Una filologia che deve, diceva Benjamin, «evolvere in filosofia».
Ora, l’unico credo che l’ateo Odifreddi arriva ad ammettere è una forma di moderno deismo, la credenza, di stampo voltairiano, in un Dio impersonale, coincidente con l’ordine e l’armonia dell’universo.
Per inciso, anche se Odifreddi si proclama antisionista, non antisemita, andrà forse ricordato che l’autore del «Dictionnaire philosophique» (segnando così uno dei più sconvolgenti paradossi, e una delle più atroci sconfitte, del razionalismo occidentale) approdava all’antisemitismo proprio partendo da una tolleranza religiosa che lo portava a condannare tutte le religioni storiche e rivelate, e dunque a giudicare «barbaro» il «popolo di Dio», per antonomasia devoto e ligio alle tradizioni sacre.
Ad ogni modo, è lecito dubitare che, a sostegno di questo astratto, astorico, disincarnato deismo, si possano citare Pitagora e Newton.
Prima del Newton di Voltaire, c’era stato il Newton del sommo filologo (sarà un caso?) Richard Bentley, che proprio a Newton si rifaceva, nelle «Boyle Lectures» del 1692, per confutare (con il pieno consenso dello scienziato) l’ateismo, e per affermare la fede ebraico-cristiana nel Dio creatore, che - scrive Newton nello Scholium generale – «omnia regit non ut anima mundi, sed ut universorum dominus», non come anima del mondo, ma come sovrano di tutti gli esseri; un Dio che «non est aeternitas et infinitas, sed aeternus et infinitus», non è, in astratto, eternità ed infinità, ma è, in modo individuale e personale, infinito ed eterno.
E, ironia della sorte, Newton citava - a sostegno di questa visione di un Dio onnipresente e insieme trascendente, secondo un altro di quei paradossi che sfuggono ad una stretta e rigida ratio ratiocinans - proprio Pitagora, e per l’esattezza un frammento riportato da Cicerone nel primo libro del «De natura deorum», in cui la divinità appare come un’anima in sé sussistente ma, nel contempo, «sollecita e mobile (intentum et commeantem) per l’intera natura», e dalla quale scaturivano le anime individuali.
Newton avvicinava proprio il frammento di Pitagora a passi scritturali (At 17 27-28 e Giovanni 14, 2 seguenti, quest’ultimo - unitamente a Giovanni 8, 14-19 - ulteriore conferma della chiara e precisa consapevolezza che il Cristo aveva della propria natura divina, oltre che della relazionalità trinitaria: «Io sono nel Padre e il Padre è in me»).

Ma, nel contempo, con vigile senso storico, Newton stesso indicava quale transizione e quale progresso si fossero compiuti con il passaggio dalla religione naturale degli «idololatrae» a quella rivelata.
A ben vedere, comunque, il Dio di Newton è, storicamente, quello del cristianesimo, prima e più che quello di Voltaire.
E proprio al Dio di Pitagora, oltre che all’universale Logos degli Stoici, sembra rinviare il Tertulliano dell’«Apologeticon», in pagine che, tra l’altro, insieme a quelle dell’«Adversus Praxeam», si può dire inaugurino la riflessione teologica intorno al mistero trinitario: il «Principio spirituale», il Logos degli stoici, è semplicemente «pronunciato da Dio» (ex Deo prolato) nella persona del Cristo, e «generato da Dio nell’atto stesso del pronunciarlo» (prolatione generatum), onde è detto anche «figlio di Dio e Dio, a causa dell’unità della Sostanza, poiché anche Dio è spirito» (XXI, 10 seguenti).
Né lo stesso «Inno a Zeus» di Cleante (citato da Paolo, unitamente ai «Fenomeni» di Arato di Soli, al cospetto dell’Areopago) è del tutto avulso dall’idea di una pluralità nell’unità, di una molteplicità nell’assolutezza: Zeus-Logos è physeos archegos, «principio della natura», e nello stesso tempo l’uomo è, testualmente, «sua immagine» (theou mimema), mentre uno stesso kratos, una medesima «forza» o un medesimo «potere», uniscono l’uomo a Zeus, estendendosi all’intero universo: una forza a sua volta, forse non a caso, tripartita, la quale è ad un tempo hypoergòn, koinòs logos e daimon, cioè artefice, principio universale e Spirito interiore.
Queste analogie, forse non casuali (e sottolineate, nel testo di Cleante, anche da precise corrispondenze metriche), erano già suggerite nel libro di Simone Weil «La Grecia e le intuizioni precristiane», con cui Odifreddi dovrebbe forse rimpiazzare, nella sua biblioteca, il farraginoso e mal documentato Kersey Graves (a suo dire un «classico»), che pretendeva di negare l’originalità del cristianesimo sulla base delle sue affinità (a volte oggettivamente innegabili) con culti preesistenti.
Si tratta, invero, di analogie, consonanze, rispondenze simboliche ed archetipali talora affascinanti, e che, ben lungi dall’indebolire o dall’invalidare il cristianesimo, ne accrescono semmai la profondità, la fondatezza e la portata storiche, conoscitive, ontologiche.
Ma in ogni caso, al termine di tutto questo ragionare, è certo che, davanti al sepolcro vuoto, la filologia e la storia non possono che cedere il passo al «lumen infusum» della Grazia, e al Cristo della storia deve sostituirsi il Cristo della fede.